venerdì 29 dicembre 2023

Maestro




Mi ha convinto “Maestro” di Bradley Cooper, e dire che stavo parecchio sul chi va là. 

La scrittura è solida e il regista-sceneggiatore dimostra, eccome, di saper mettere la mdp. Per essere l’opera seconda di un attore mi pare questa assai più che una promessa; parola che è titolo del gioiello del suo collega Sean Penn, col quale la critica fu a suo tempo assai poco onesta. Lo è anche nel caso di Cooper? Non ho letto ancora nulla su “Maestro” a parte online qualche rimprovero poco circostanziato.

Sono uno spettatore che in fatto di film biografici su compositori e musicisti si dispone sempre con severa inclemenza, certo esagerando. Ma non conto che una mezza dozzina di pellicole all’altezza del compito: il Bach di Leonhardt/Straub/Huillet, “Bird” di Eastwood, il Liberace di Soderbergh, il sintetico ma formidabile ritratto di Liszt nella “Lola Montès” di Ophüls e, naturalmente, il più grande capolavoro fra i film che hanno per soggetto la musica: “La pianiste” di Haneke. Ma quella è tutta un’altra storia. 

Cosa mancherebbe al film di Cooper? Forse ciò che dovrebbe esserci secondo musicofili in cerca di oggettività e completezza documentaristica? Ma per quelle bisogna rivolgersi altrove. E del resto mi pare che il film non possa scontentare neppure gli estimatori di quel genio infaticabile e trascinante che è stato The Big Lenny; variegato e niente affatto prevedibile, tantomeno nell’impiego filmico, è il ventaglio delle musiche, come sapidi sono gli ammiccamenti a testi e libretti. 

Protagonista capace, per deliberata scelta del regista, di catturare più di lui (Cooper/Bernstein) l’attenzione degli spettatori è qui la formidabile Carey Mulligan che ho amato sin dai tempi di “Drive” e che trovo abbia lasciato adesso e in uno dei migliori film del decennio passato le sue forse più esaltanti interpretazioni: era la fragilissima e commovente sorella di Fassbender in “Shame” (McQueen, 2011) e ora è una meravigliosa Felicia Montealegre. 

La tensione delle risposte contraddittorie che dà valore all’opera d’arte (esergo del film) trova nel lavoro di Cooper efficaci momenti in cui saggiarsi; e alla Mulligan ne sono riservati di preziosi. Sono pochi perché dosati in modo che in essi si concentri ciò che è espresso senza infingimenti. Penso alla bugia di Lenny con Jamie, che è sequenza di spiccata intensità nella quale il protagonista è avvicinato dalla camera laddove altrove la sintassi del privato predilige il campo lungo. 

In una stagione cinematografica come quella appena passata, tutto fuorché esaltante, “Maestro” mi pare evidente eccezione.

mercoledì 16 agosto 2023

Renata Scotto (1934-2023)

 Da dove si comincia per salutare un’artista di straordinaria grandezza come Renata Scotto (dove l’aggettivo è impiegato con coscienza e non per qualificare, come accade sempre più spesso, l’assolutamente ordinario)? 

Io in questo momento non ho dubbi: Luisa Miller, uno di quei ruoli divenuti impossibili che lei ha affrontato forte di tutto il magistero tecnico e interpretativo di cui era capace.

E, in seconda battuta, ecco la più perfetta Serpina della storia. Perché la carriera della Scotto è stata sì quella di una cantante che tanto ha osato, ma ha osato tanto perché “le cose facili” - ammesso e non concesso che esistano davvero - le venivano… così! 

Per sempre grazie signora Scotto!


lunedì 1 maggio 2023

La joie de vivre





Per trovare un romanzo che con tale radicalità costringa il lettore alle domande più insopprimibili dell’essere umano bisogna rivolgersi ai russi e poi ricordare che là questo non avviene con altrettanta asciuttezza e prossimità dialettica. 
Di più. Per incontrare un romanzo di forza espressiva ad esso paragonabile ci vorrebbe qualcosa come Wuthering Heights. E dire che lo avevo trascurato! Ora che sto terminando quanto mi mancava del ciclo di Zola eccolo dunque letto e amato immensamente. 
I personaggi sono appena un pugno e la vicenda si dipana difronte al mare in meno di tre lustri: è quasi la durata della vita di una gatta che con l’oceano è il solo soggetto compiutamente salvo del romanzo. Perché salvato da Zola che lo preserva dalle velleità e dai dolori avvertiti nella viva carne (quando il cuore e mente già non diano strazio) degli Chanteau padre, madre, figlio, nipote, nuora e serva; a lei è riservato un colpo di coda tipico del grande romanziere, forse mai come questa volta in pari grado ironicamente feroce. 
E poi dove altrimenti trovare una ricognizione così fondata di quello che impropriamente chiamiamo “sacrificio per amore” e che non è altro se non abnegazione alle proprie sincere, autorivelate necessità? 

Fra le foto, anche immagini di un’edizione italiana che compie i cento anni e che appartiene alla biblioteca di famiglia.



lunedì 27 marzo 2023

Gianni Minà (1938-1923)

L’altra civiltà, quella dei contenuti. 

A metà dell’intervista di Minà c’è il filmato con Ferreri e la Schygulla, vincitrice a Cannes ‘83 in un concorso che includeva, fra gli altri, Bresson, Tarkovskij (celeberrima la foto a tre con Welles), Ōshima, Gilliam, Saura, Scorsese, Imamura, Chéreau. 

https://youtu.be/RTxhlNILk8Y



martedì 21 marzo 2023

Virginia Zeani (1925-2023)

Tre ascolti per salutare quel monumento di professionalità e di coscienza artistica che è stata Virginia Zeani, soprano per la quale le attrattive della donna, bellissima, non furono che complemento a una carriera costruita passo per passo e in nome di cioè che chiamiamo così: arte del canto.


https://youtu.be/fVZOULNzXCY

https://youtu.be/fYqCP5o8Cg0

https://youtu.be/CxMF7hW6ixs



martedì 14 marzo 2023

Everything Everywhere All at Once

Fondamentale o superflua è la visione di Everything Everywhere All at Once. Dipende da quanto siete aggiornati rispetto al filone che è andato costruendosi nei decenni fra cinema e tv attorno allo stesso tema. E dipende, in misura niente affatto minore, da quanto possedete o fate vostro il concetto hegeliano di morte dell’arte. Perché è sui contenuti sociologico-filosofici e non sulle forme (siano esse profilmiche o filmiche) che scommette il lavoro più premiato dell’anno. Potremmo infatti stare una settimana a enumerare tributi e riferimenti a una filmografia che occupa già almeno uno scaffale, concentrata attorno alla Many World Interpretation di Everett, alla teoria delle stringhe e alle ricadute sulla percezione umana delle realtà. È una filmografia che oltre alla scienza ha per capostipite la letteratura, quella di un vero genio visionario: Philip K. Dick. 
Se la chiacchiera fosse puramente estetica, trovereste chi nel film americano ci ha visto molto Gondry e meno la serie tv Sense8. In realtà i tributi al regista indie non turbano - si fa per dire - l’estetica Netflix perché al cinema e a casa devono starci proprio tutti o in maggior numero possibile. 
Non è furberia, non c’è dolo, secondo me. Il fatto è che la materia, l’idea di fondo, preme così tanto sulle forme da renderle trascurabili, già viste perché già straviste. A tenerle vive pensa sua Maestà il Montaggio. 
È così che il film è un teorema con tanto di svolgimento tripartito. O una lettera al mondo; almeno a quello che non è attualmente impegnato a imbracciare un fucile. 
Nel frullato elettronico-materico del soundtrack s’insinua per poco anche Debussy perché si va verso il finale, finalmente. Sono 139’ e la noia non è tra gli ammazzati. 
Il congedo è speranzoso, ma non troppo. Perché ad un’umanità - la nostra - smarrita fra individualità frantumate, relazioni votate al silenzio e pressioni nella realizzazione socio-economica il raccomandare di percepirsi sempre e convintamente nel qui e ora deve essere parso giustamente eccessivo ai registi-sceneggiatori. Ma non per questo è invito da trascurare. 

martedì 7 marzo 2023

Manzoni e Verdi

 

Nel cuore del confronto fra conte zio e padre provinciale, Manzoni inserisce questa metafora teatrale che un po’ mi fa sobbalzare. E certo è colpa del chiodo fisso verdiano. 
Che i personaggi della pagina («due potestà, due canizie, due esperienze consumate») possano essere stati d’ispirazione al compositore per costruire il duetto Philippe/Inquisiteur è facilmente immaginabile. Nel romanzo come nell’opera si gioca infatti una partita diplomatica sulla pelle di innocenti (Cristoforo e Posa); nel primo caso vince il laico zio conte, mentre nel secondo a prevalere è il prete. 
Stavolta a colpirmi è stata la metafora teatrale adottata dal Manzoni per evocare la rottura della quarta parete, e poi la chiosa d’autore: «lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia avere i suoi anni». Al re di Spagna, col suo crin bianco e la sposa adultera, non accade qualcosa di molto simile quando il sipario si alza trovandolo addormentato? Il compagno evocato da Manzoni per l’ipotetico cantante della metafora letteraria assume infatti la funzione di quello altrettanto invisibile con cui discorre Philippe quando si alza il sipario all’atto quarto, e cioè il sé stesso del dormiveglia: «Elle ne m’aime pas», si confessa trasognato; «pur troppo!», gli fa eco nel libro il conte zio. 
Ho riletto il romanzo e non lo facevo dai tempi della scuola; nella mia percezione ha subìto un mutamento radicale. Certo, la scarsa dimestichezza di un adolescente con la prosa del primo ottocento non è un vantaggio. Eppure, dove mi si offrivano scolpite proprio le espressioni e le immagini più icastiche del capolavoro (credo di appartenere all’ultima generazione che ha dovuto mandare a memoria «Addio, monti» e La madre di Cecilia) ecco ora bellezza e forza ammirevoli del testo un poco erose dal tempo. Con Gertrude, invece, quanta adeguatezza al presente, quanta verità! 
Quando s’incontra la monaca per la prima volta (a quale età?) non si può certo afferrarla, forse perché non conoscendo ancora la nostra propria libertà a che piangeremmo la mancanza di quella altrui?

giovedì 16 febbraio 2023

Einaudi chiama Conte




Ludovico Einaudi 030303
Paolo Conte 190223

Non avete capito il gioco. 
Ogni vent’anni chiamano un outsider e a fine secolo si compone sulla tastiera il lungo numero di telefono risultante dalle date (es. 030303190223 ecc.) per poter ascoltare alla cornetta la registrazione fantasma di Fedora con Callas e Corelli. 
Si tratta di una trovata del compianto Renato Caccamo. Lui stesso me ne fece cenno a casa sua nel 2007.




Lenz

Risposta alla domanda se esistano film tratti dall'abbagliante frammento di Büchner: ben quattro sono quelli usciti negli anni Duemila.



La leggenda di Giuseppe

In questi giorni va così.
Mi pare che il teatro musicale abbia trascurato - e continui a farlo - questo soggetto biblico, pur tanto ricco di attrattive. Che sia per soggezione nei riguardi della sublime prosa di Mann? 

martedì 31 gennaio 2023

La Price, Aida e il “blackface”

 
 
Ecco l’incipit di un’intervista italiana a Leontyne Price. 
Mentre per il soprano la discriminazione fu negli Stati Uniti una cosa più che seria - come lo è tutt’ora per molti - erano e sono qui da noi considerate come risibili le osservazioni riguardo Aida, blackface e altre amenità. Del resto, lo sappiamo tutti, la questione si fa avanti soltanto nel caso in cui scarseggino i contenuti musicali. 

(Mi scuso per l’evidenziatore, che non è mio ma il testo mi fu donato così. Chi mi conosce lo sa: piuttosto che evidenziare un libro me lo mangio.) 

L’intervista si legge in: Pier Maria Paoletti, Quella sera alla Scala, Rusconi, Milano 1983.

sabato 28 gennaio 2023

I vespri siciliani alla Scala

 
 
I Vespri alla Scala dopo trentaquattro anni! Si inaugurava la stagione, il palco centrale era addobbato di rosa e rosso, Milano era nella mani del PSI, la produzione non riscosse unanime successo e… no: le attese dei giorni precedenti non erano focalizzate su “come sarà la regia”. Per appagare quei desiderata si usava ancora e molto andare al cinema, in quel periodo a vedere Kieślowski. Oppure al teatro di parola, per il Faust di Strehler.
Del resto, ingrediente imprescindibile del Verdi nella «Grande Boutique» è l’apparecchiamento di una vera e propria festa del canto, pure in questo secondo grand-opéra; e oltretutto del canto verdiano più arduo e più galvanizzante che ci sia. Ad esempio - primo Alvaro a parte - non esiste pagina tenorile problematica da portare a segno quanto «È di Monforte il cenno…Giorno di pianto»: un tour de force che mette alla corda, così come fa attorno al passaggio di registro, anche i grandissimi. 
Ma tutto è complesso nei Vespri. Pure qui, come nel Trovatore, ci vogliono insomma i quattro più grandi cantanti del mondo in aggiunta a parti di contorno che sono tutt’altro che dei diversivi. Ed è pure necessaria un’orchestra dalla tavolozza variegata insieme a un direttore capace d’imprimere ovunque alla narrazione un passo che ne esalti le accensioni e faccia delibare le molte liricissime tregue. 
Io amo tanto i Vespri e ogni volta che li ascolto attendo con trepidazione lo snodo centrale del dramma: il più lacerante duetto dell’agnizione uscito dalla penna del genio (in Verdi quello più commuovente è il Boccanegra/Maria). 
Speriamo poi di non dover aspettare altri trentaquattro anni per riascoltare qui questo titolo, e magari di farlo in lingua francese.


A 150 anni dalla nascita di Colette



Oggi sono centocinquant’anni dalla nascita di Colette, per me insieme a Madame de La Fayette la più grande scrittrice di ogni tempo. Di fronte a loro, infatti, la preferenza - ma è solo un punto di vista, per carità - varca il confine di una nazione che è già par excellence quella delle penne fatate. Per stare a queste altitudini bisogna affidarsi a Saffo, E. Brontë, Dickinson e a quelle che con molta probabilità sono ancora mani femminili: le autrici delle Mille e una notte
Colette, certo. Non trovo altrove prosa altrettanto seducente, col suo passo abbreviato eppure sinuosissimo attraverso le curve di un itinerario tutto promesse concesse a tempo debito. E non riconosco altrove, poi, nei suoi repentini e prolungati affondi altrettanto anatomico lo scavo di timori, occultamenti, presunzioni. Di fronte a pochi altri autori ci si trova nell’impaccio di dover adoperare una parola fra le più povere perché abusate: intelligenza. Nelle sue opere, infatti, Colette ci ha consegnato la forma sovranamente intelligente e luminosa che assume quel sentire che a noi uomini è e sarà sempre precluso, perché è solo e soltanto femminile. 
Voglio ricordarla così col suo libro forse più aureo. Possiede in grado altrettanto struggente e dolcissimo il saper declinare della Marschallin di Strauss e von Hofmannsthal. 

«Altre volte mi vedo sospinta fuori di me stessa e costretta a concedere una generosa ospitalità a coloro che, avendomi ceduto il proprio posto sulla terra, sono stati soltanto in apparenza sommersi dalla morte. L’ondata di rabbia che sale in me e mi domina come un piacere dei sensi: ecco mio padre, con la sua bianca mano italiana tesa verso le lame, chiusa sul coltello a serramanico da cui non si separava mai. Sempre mio padre, la gelosia che in passato mi rese tanto molesta… I miei passi ricalcano docilmente le tracce dei passi, fermi per sempre, che segnavano il percorso dal giardino alla cantina, dalla cantina alla pompa, dalla pompa alla grande poltrona piena di cuscini, di libri spalancati e di giornali. Su questa strada battuta, illuminata da un raggio basso e radente, il primo raggio del giorno, spero che imparerò perché non bisogna mai rivolgere un’unica domanda al merciaio - voglio dire Vial, ma è lo stesso innamorato perfetto -, perché il vero nome dell’amore, che allontana e bandisce ogni cosa intorno a sé, è «leggerezza».