sabato 29 giugno 2013

"Siegfried" alla Scala

Ieri sera (27.06.2013), la Scala ha applaudito nel "Siegfried" un'orchestra che ha suonato in stato di grazia. L'episodio accidentale nell'atto terzo è assolutamente trascurabile di fronte al risultato ottenuto da una compagine la cui duttilità e generosità di tinte si è ammirata ad ogni passo. Chi ricorda le prove wagneriane degli anni '90 e le confronta con le sonorità provenienti dalla buca dell'orchestra in questa stagione celebrativa non può che restare ammirato. Ma, nel confronto, l'orchestra della Scala - sotto la guida di Barenboim - è assai di più: una grande orchestra wagneriana, tout court. La chiave di lettura offerta dal maestro alla seconda giornata è suggerita sin dal principio. Lo sguardo sul Vorspiel, infatti, non è quello d'insieme che si posa abitualmente sulla tela delle "riflessioni meditabonde" di Mime; è invece un'esposizione trasparente, analitica dei sette motivi che compongono il brano, mirata a puntare una luce speciale su quello dei Nibelunghi, col loro martellante lavoro di fucina. Sarà infatti un "Siegfried" dalla parte del Niebelheim e da quella delle sue risonanze cavernose sollecitate dal tempo "senza tempo" che è capace di reggere Barenboim. Una meraviglia per le orecchie. Questa non è la fiaba del giovane eroe. Attenzione, però. Si tratta di una lettura che non implica il fatto di sacrificare le atmosfere boschive né, tanto meno, di trascurare le implicazioni psicologiche delle scoperte di Siegfried. Tutto il contrario: serve ad esaltarle. La trasformazione del motivo dei Nibelunghi in quello della foresta è evidenziata in maniera stupefacente. Barenboim non ha fretta di legare le crome "dolce" per dipingere la voce della natura; attende che la vita del bosco si animi prima col cinguettio degli uccelli. E la relazione tra i due motivi, quindi, si preserva inquietante sino all'ultimo perché il quadro sfugge alla pittura didascalica per rivelarsi qual è: epifania dei sensi e della mente. E' chiaro che per sposare una lettura del genere il canto non necessita certo di un Siegfried come quello di Lance Ryan, di voce bianca e chioccia, impossibilitata ad addolcire i suoni e sufficiente solo nel canto spigliato dell'atto primo. E non va oltre il caratterismo comico il Mime di Bronder che fa sembrare un gigante l'Alberich di Kränzle. Sempre male la Erda della Larsson in un brutto incontro con l'anziano Wanderer di Stevensold, senza autorità e in difetto di intonazione. Infine, in un paio di incidenti è incappata la Theorin nel problematico finale.      



                            

mercoledì 26 giugno 2013

"Die Walküre" alla Scala

"Die Walküre" compromessa ieri sera dall'indisposizione di René Pape che soccombe al ruolo nell'atto secondo prima di annunciarsi indisposto ed affrontare il terzo. Ma, a prescindere dall'evenienza - come già dimostrato altrove - spessore e scrittura baritonaleggiante sconsigliano al divo di frequentare il Wotan della prima giornata: meglio attenersi a König Heinrich e a König Marke (fu davvero notevole a Berlino). Salutato da trascinanti approvazioni è stato l'atto primo, il gioiello della serata. Presto l'orchestra avvolge il tema d'amore di Siegmund e Sieglinde nel caldo amalgama di violoncelli e legni, con un'umanità affettuosa e che profuma di speranza: io, così, l'ho ascoltato suonare poche volte. O' Neill possiede uno strumento ragguardevole che esibisce tanto in accenti perentori, quanto nella capacità di flettersi, anche con morbidezza: il sol di "Wälse!" è tenuto con spavalda generosità. Sono cose che "fanno palcoscenico" come ricordava spesso un mio amico; e aveva ragione, specie guardando ad oggi, in un'epoca nella quale la musica pare diventata la colonna sonora del teatro di regia. La Meier amministra le proprie attuali risorse con una sapienza invidiabile: al risparmio sul canto vivace nel racconto della spada per affrontare con slancio la risposta al "Lenzeslied" e poi la ripresa della musica del giubilo, per trascinarci in un finale davvero memorabile che fa scoppiare il teatro. 
Divide con loro lo spazio della scena Hunding/Petrenko prossimo alla caricatura del ruolo: uno sgherro in giustacuore antracite che si presenta in scena per vociare e parlare, come sanno fare solo certi Pizarro di provincia tedesca. Irricevibile. La Gubanova è invece una Fricka autorevole; il suo canto è penetrante e solo un po' sfuocato nei gravi. Il confronto con Wotan è disturbato da una regia che - dopo essersi rivelata inutile - diventa nociva: una sfera luminosa volteggia a mezz'aria cigolando su se stessa sino ad arrestarsi alla cosmica enunciazione di "das Ende", che per gli spettatori è solo un liberatorio "endlich". 
Delude molto invece la "Todes-Verkündigung". Il maestro la colora con le venature di un marmo sepolcrale affidato agli ottoni che sfilano sull'agogica dell'evocazione di una trenodia. Sono sonorità preziose, è vero; ma l'intenzione di trasformarle in materia drammatica non coglie nel segno. Proprio qui, infatti, per assecondare il passo del direttore, O' Neill e la Theorin sono costretti ad insistere sul centro; ed ecco i suoni chiocci ed ecco quelli in bocca, tallone d'Achille dei due artisti. La partita a scacchi apparecchiata da Wagner è costretta a lasciar evaporare la temperatura drammatica perché per sostenere l'incedere della bacchetta bisognerebbe disporre di altre risorse (temo, straordinarie per chiunque), fraseggiando al centro da supereroi. Il blackout si conclude solo quando il veleno dei motivi dell'amore è nuovamente in circolo. Nell'atto terzo, invece, le volute degli archi nella disperata richiesta della valchiria, col loro gesto inquieto di violini e violoncelli in ottave, sono una vera meraviglia; vorrei poterle riascoltare proprio adesso. Ma tutto, qui, dal principio, riceve in orchestra una messa in valore, a cominciare dai legni, così sensibili nel rivelare con accenti commossi il turbamento profondo del padre. Il Leitmotiv dell'amore compassionevole si colora di trasparenze e respira con un lirismo di ampia cavata, quella che si deve chiedere ad un'orchestra wagneriana (ottimi soprattutto i tromboni); e l'incantesimo del fuoco non rinuncia allo sfavillio dello strumentale ma - è sempre stato così con Barenboim - viene adombrato dall'interrogativo del Fato. Con un Wotan in buona forma, anche il terzo atto avrebbe riservato, almeno in parte, le suggestioni del primo.

martedì 25 giugno 2013

"Das Rheingold" alla Scala


"Das Rheingold", ieri sera alla Scala. Della vigilia mitica già proposta nel 2010 si conservano nel cast otto interpreti su quattordici, guadagnando dalla presenza di Ekaterina Gubanova: possiede un mezzo adeguato alla sala e amministrato con cura al centro, al servizio di un personaggio più sprezzante che autoritario (come si conviene alla Fricka del Prologo). Garbato, anche nel gioco scenico, il Loge di Rügamer mentre Kränzle (Alberich) fa eccessivo ricorso al parlato. Da apprezzare invece il legato di Paterson (Fasolt), esibito nella lamentazione per Freia.
I punti deboli della distribuzione sono da individuare, quindi, fra gli dei del Walhall. Ancora per una volta ascoltiamo la voce di legno di Buchwald, che necessiterebbe di una di ferro per armarsi del martello di Donner. E, ancora una volta, la vocina aspra di Freia/Samuil, fibrosa quanto quella di Froh/Vlad. La Larsson, nuovamente, guasta l'apparizione di Erda così ben preparata in buca da Barenboim: una scelta inspiegabile. Nei decenni la lettura del maestro non è mutata, preferendo marcare nel "Rheingold" i prodromi più sofferenti delle giornate a seguire piuttosto che la cifra mitologica caratteristica della vigilia. In questo modo i rilievi cameristici sono destinati ad assumere valenza semantica (e spessore drammatico) in modo particolare in due pagine: la lontananza di Freia dagli dei e la resa di Alberich. Qui, quando gli interpreti sono in grado di raccogliere gli stimoli che arrivano dal direttore, la flessibilità della parola è essenziale e le pagine risultano quelle più riuscite. Questi focus non precludono al maestro la facoltà di restituire con buon effetto anche gli affreschi del Vorspiel e l'alba sulla rocca. Meglio sarebbe stato, invece, calibrare diversamente le posizioni di incudini e martello; ne avrebbe giovato in profondità la sonorità della discesa al Nibelheim, che è rimasta piuttosto neutra. Complice la latitanza del regista (se si eccettuano le metamorfosi di Alberich nello studio televisivo) e qualche stonatura, non mi ha convinto per nulla il problematico finale della scena quarta con l'ingresso degli dei nel Walhall: difettava soprattutto di forza propulsiva (v. trombe e tromboni). Un applauso a scena aperta avrebbe, invece, meritato Michael Volle (Wotan) giunto al fa e poi al mi naturale ("So grüss'ich die Burg, sicher vor Bang'") dopo il tempo estenuato che gli ha servito Barenboim: in partitura è scritto "mässig bewegt" e la voce, precaria proprio al centro, non avrebbe bisogno di indugiare su un tempo tanto lento per meglio dichiararsi tale. Al termine i cinque minuti di applausi - il tempo per una chiamata al proscenio di fronte a molti stranieri - mi sono parsi pochi; segno forse che il pubblico non era particolarmente coinvolto.



domenica 16 giugno 2013

Holy Motors

La fenice che risorge dalla proprie ceneri. Sì, è Leos Carax. Giunti all'ottava incarnazione di un gigantesco Denis Lavant (rientra a casa, dove ad accoglierlo trova una famiglia di primati), si comprende l'orizzonte additato dal regista alle teste che siedono immobili e silenziose nella sala cinematografica del prologo: dai resti contemporanei, nasce il cinema del futuro che sarà (oppure lo è quando riesce ad esserlo) capace d'immergersi nel passato per trarne alimento. Aspettandolo (o facendolo, come in questo caso), il cinema assoluto di Leos Carax trova in "Holy Motors" - proprio a livello squisitamente filmico - la sua forma più matura e seducente, capace di organizzare una radicale analisi attorno ad oggetti che sono eterni nella riflessione del rapporto tra realtà e rappresentazione; almeno da quando esiste la mdp. Quella di Carax è una via crucis fieramente ermetica e, al tempo stesso, in grado di comunicare emozioni a chiunque desideri percorrerla insieme a lui, grazie ad immagini che possiedono una forza dirompente. 



lunedì 10 giugno 2013

"Götterdämmerung"

«Des tiefen Rheines Töchtern
gäbe den Ring sie wieder zurück, 
von des Fluches Last
erlöst wär' Gott und Welt!»






Truffautiano

François Truffaut si divertirebbe parecchio se sapesse che nelle sale, contemporaneamente al tributo hitchcockiano diretto da Gervasi, si proietta un film che accoglie diversi oggetti della poetica di Antoine Doinel. Come lui, infatti, Claude Garcia ama i libri, almeno quanto le gambe delle mamme dei suoi compagni di classe. La scrittura è talmente al centro del film di Ozon che lo spettatore si ritrova proprio nel mezzo del processo di immaginazione e di creazione narrativa, solleticato da un insegnante che venera Flaubert ma viene steso a terra da un colpo in testa assestato da Céline. La suspanse è quella educata dallo stile di Chabrol ma il ritmo è brioso quasi quanto quello di "Vivement dimanche!". Gli attori sono ottimi, come la fotografia. Bisogna tener d'occhio Ernst Umhauer; potrebbe diventare il nuovo Benoît Magimel. 

In attesa del 2029

L'indugiare della macchina da presa, gli spazi del tempo, il respiro medio-lungo sono il male assoluto per il cinema di Luhrmann, il cui retaggio figurativo affonda nella grafica dei video games, nella pubblicità dell'ultimo profumo griffato, nel video clip della più acclamata pop star, autrice della canzone prima in classifica. Quello che produce è godimento tattile, visualizzazione edonistica sospesa tra desiderio e invidia degli oggetti. Lo spettatore avido di immagini ubriache è invitato a prenderne possesso per 144', a buon mercato (10 euro tedeschi); unico scotto da pagare è il peso sul naso degli occhiali 3D. Questo è il quarto tentativo, nella storia del cinema, di espugnare un testo problematico come "The great Gatsby"; ed è quello destinato a fagocitare i precedenti perché non si lascia intimorire dalla fonte. 
Il regista domina i tempi teatrali, la sceneggiatura è infallibile quando si tratta di creare la cornice psicanalitica nella quale agisce Nick Carraway e laddove sostituisce l'età del Jazz con la festa postmoderna, riservando al sentimento, col contagocce, istanti efficaci solo perché affidati ad attori capaci di incarnarli: e non è poco. Ma, per carità, con pudore; perché il lino e la seta sono assai più erotici. La solitudine, invece, è un vero e proprio tabù, da lasciar appena intravedere nel finale, neppure rinunciando ad accompagnarla col vento tra le tende (che se la porta via). Da quello che fu il sogno americano a quello che è il sogno globale e virtuale. In attesa del 2029?



Solo Dio perdona

"Only God forgives" è un'opera perfetta, al pari di "Bronson" e "Drive". Non c'è un solo fotogramma in più, né uno in meno, di quelli che dovrebbero esserci. In una Bangkok sporca e mitica, che in pochi altri lavori si è vista celebrare così bene, agiscono i quattro personaggi di una tragedia antica, incarnazioni di archetipi. Più il quinto, il fantasma di Bobby (Tom Burke), motore della vicenda che si consegna presto alla memoria degli spettatori con il viso di Peter Lorre, il mostro di Düsseldorf di Lang: a sua volta figura archetipica e ora maschera tinta di rosso, lo stesso colore emozionale ("touching") che illuminava "Pusher II - Sangue sulle mani" e che qui rischiara gli ambienti, solo dove e quando serve. Al poliziotto giusto e vendicatore è speculare l'antieroe bello, impotente ed edipico; alla madre grottesca e spietata la ragazza-sogno, etica e indifesa.
Anche il dosaggio dei registri è calibrato su chiasmi; mai nella filmografia di Refn umorismo surreale e violenza implacabile si erano temperati e scontrati con tanta efficacia. È lo stesso equilibrio manierista che si ritrova in immagini coltivate con rigore formale e ricercatissimo nitore; fra quelle di figurativa orientale, non se ne ammiravano così dagli anni '90 dei film di Kitano. E la trama lirica e fittissima costruita con musiche e suoni da Cliff Martinez è legata indissolubilmente alla drammaturgia. Non ha bisogno di sostenerla, perché aderisce alla stessa sintassi; è quello che si apprezza solamente nel grande cinema. Considerare Refn "il Tarantino europeo" è assolutamente fuorviante e riduttivo. Non solo la sua poetica affonda altrove la gran parte delle proprie radici, ma il suo fraseggio è nobilmente asciutto perché diffida - al massimo grado - di verbalismi e magniloquenza ammiccante. Qui il ritmo non è quello di "Valhalla Rising", però guarda alla sua impostazione mitologica; la morale non è quella di "Drive", ma la prospettiva è la stessa. Ora l'eroe Ryan Gosling si è tramutato nell'antieroe per allinearsi alle altre anime del film, guadagnando però quella più ontologicamente fragile e complessa, imprigionata nel proprio (rosso) labirinto di ossessioni e frustrazioni. Il film è significativamente dedicato al surrealismo magico e orrorifico di Alejandro Jodorowsky.