lunedì 27 marzo 2023

Gianni Minà (1938-1923)

L’altra civiltà, quella dei contenuti. 

A metà dell’intervista di Minà c’è il filmato con Ferreri e la Schygulla, vincitrice a Cannes ‘83 in un concorso che includeva, fra gli altri, Bresson, Tarkovskij (celeberrima la foto a tre con Welles), Ōshima, Gilliam, Saura, Scorsese, Imamura, Chéreau. 

https://youtu.be/RTxhlNILk8Y



martedì 21 marzo 2023

Virginia Zeani (1925-2023)

Tre ascolti per salutare quel monumento di professionalità e di coscienza artistica che è stata Virginia Zeani, soprano per la quale le attrattive della donna, bellissima, non furono che complemento a una carriera costruita passo per passo e in nome di cioè che chiamiamo così: arte del canto.


https://youtu.be/fVZOULNzXCY

https://youtu.be/fYqCP5o8Cg0

https://youtu.be/CxMF7hW6ixs



martedì 14 marzo 2023

Everything Everywhere All at Once

Fondamentale o superflua è la visione di Everything Everywhere All at Once. Dipende da quanto siete aggiornati rispetto al filone che è andato costruendosi nei decenni fra cinema e tv attorno allo stesso tema. E dipende, in misura niente affatto minore, da quanto possedete o fate vostro il concetto hegeliano di morte dell’arte. Perché è sui contenuti sociologico-filosofici e non sulle forme (siano esse profilmiche o filmiche) che scommette il lavoro più premiato dell’anno. Potremmo infatti stare una settimana a enumerare tributi e riferimenti a una filmografia che occupa già almeno uno scaffale, concentrata attorno alla Many World Interpretation di Everett, alla teoria delle stringhe e alle ricadute sulla percezione umana delle realtà. È una filmografia che oltre alla scienza ha per capostipite la letteratura, quella di un vero genio visionario: Philip K. Dick. 
Se la chiacchiera fosse puramente estetica, trovereste chi nel film americano ci ha visto molto Gondry e meno la serie tv Sense8. In realtà i tributi al regista indie non turbano - si fa per dire - l’estetica Netflix perché al cinema e a casa devono starci proprio tutti o in maggior numero possibile. 
Non è furberia, non c’è dolo, secondo me. Il fatto è che la materia, l’idea di fondo, preme così tanto sulle forme da renderle trascurabili, già viste perché già straviste. A tenerle vive pensa sua Maestà il Montaggio. 
È così che il film è un teorema con tanto di svolgimento tripartito. O una lettera al mondo; almeno a quello che non è attualmente impegnato a imbracciare un fucile. 
Nel frullato elettronico-materico del soundtrack s’insinua per poco anche Debussy perché si va verso il finale, finalmente. Sono 139’ e la noia non è tra gli ammazzati. 
Il congedo è speranzoso, ma non troppo. Perché ad un’umanità - la nostra - smarrita fra individualità frantumate, relazioni votate al silenzio e pressioni nella realizzazione socio-economica il raccomandare di percepirsi sempre e convintamente nel qui e ora deve essere parso giustamente eccessivo ai registi-sceneggiatori. Ma non per questo è invito da trascurare. 

martedì 7 marzo 2023

Manzoni e Verdi

 

Nel cuore del confronto fra conte zio e padre provinciale, Manzoni inserisce questa metafora teatrale che un po’ mi fa sobbalzare. E certo è colpa del chiodo fisso verdiano. 
Che i personaggi della pagina («due potestà, due canizie, due esperienze consumate») possano essere stati d’ispirazione al compositore per costruire il duetto Philippe/Inquisiteur è facilmente immaginabile. Nel romanzo come nell’opera si gioca infatti una partita diplomatica sulla pelle di innocenti (Cristoforo e Posa); nel primo caso vince il laico zio conte, mentre nel secondo a prevalere è il prete. 
Stavolta a colpirmi è stata la metafora teatrale adottata dal Manzoni per evocare la rottura della quarta parete, e poi la chiosa d’autore: «lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia avere i suoi anni». Al re di Spagna, col suo crin bianco e la sposa adultera, non accade qualcosa di molto simile quando il sipario si alza trovandolo addormentato? Il compagno evocato da Manzoni per l’ipotetico cantante della metafora letteraria assume infatti la funzione di quello altrettanto invisibile con cui discorre Philippe quando si alza il sipario all’atto quarto, e cioè il sé stesso del dormiveglia: «Elle ne m’aime pas», si confessa trasognato; «pur troppo!», gli fa eco nel libro il conte zio. 
Ho riletto il romanzo e non lo facevo dai tempi della scuola; nella mia percezione ha subìto un mutamento radicale. Certo, la scarsa dimestichezza di un adolescente con la prosa del primo ottocento non è un vantaggio. Eppure, dove mi si offrivano scolpite proprio le espressioni e le immagini più icastiche del capolavoro (credo di appartenere all’ultima generazione che ha dovuto mandare a memoria «Addio, monti» e La madre di Cecilia) ecco ora bellezza e forza ammirevoli del testo un poco erose dal tempo. Con Gertrude, invece, quanta adeguatezza al presente, quanta verità! 
Quando s’incontra la monaca per la prima volta (a quale età?) non si può certo afferrarla, forse perché non conoscendo ancora la nostra propria libertà a che piangeremmo la mancanza di quella altrui?