martedì 17 dicembre 2013

Blue Jasmine

Chissà quanti delusi dagli ultimi film di Allen avranno la tentazione di perdersi "Blue Jasmine". Non fatelo, perché dopo i soliti rassicuranti titoli di testa + jazz inizia un Allen che non si vedeva dai tempi di "Match Point" (2005). Una buona scrittura e una bravissima protagonista che interpreta un personaggio tragico costruito coi toni della commedia; quella fatta per sorridere ma per ridere pochissimo.

 

Lina Vasta canta "Addio, del passato"

Una splendida Lina Vasta canta "Addio, del passato"; dal minuto 11.32. E' stata allieva di Giannina Arangi Lombardi, a sua volta allieva di Beniamino Carelli, uno dei più grandi maestri di canto del XIX secolo. A proposito di fil rouge!

 

lunedì 16 dicembre 2013

La Ligne de démarcation

Anche il Concerto per clarinetto in fa minore op. 73 di von Weber, sì. Tutti i piccoli e i grandi tocchi che rendono inconfondibile il cinema di Chabrol, qui nei suoi magnifici anni '60: "La Ligne de démarcation" (1966). Il soggetto è tratto dal romanzo di Gilbert Renault, l'agente segreto che al tempo dell'occupazione tedesca era conosciuto col nome di Colonel Rémy. Il cast è meraviglioso. Figurano, fra gli altri, Noël Roquevert e Jean Yanne (sua prima apparizione in un film del maestro). La coppia nobile è così formata: il conte de Damville, interpretato da Maurice Ronet, un personaggio incredibilmente sfaccettato, sfuggente (almeno sino alla conclusione), tratteggiato con pochi ma essenziali gesti come quello con cui cela il sorriso dietro il manico del bastone; e poi sua moglie, la sofisticata e intraprendente contessa inglese Jean Seberg, "qui écoute trop Radio Londres". 

venerdì 13 dicembre 2013

"La traviata" a Mosca (1935)

"La traviata" allestita a Mosca nel 1935 da Nemirovich-Danchenko, in piena temperie espressionista.


giovedì 5 dicembre 2013

"Ritratto di Marie Duplessis"

«Le donne oneste vogliono sapere come vivono e muoiono le altre donne, e queste ultime amano vedere la propria vita privata a teatro.»
(Jules Janin in «Journal des débats», 9 febbraio 1852, su "La dame aux camélias" di Alexandre Dumas andata in scena per la prima volta il 2 febbraio di quello stesso anno)

Camille-Joseph-Etienne Roqueplan, "Ritratto di Marie Duplessis", 1850 ca. (Musée Carnavalet di Parigi).


lunedì 18 novembre 2013

"Giovane e bella"

"Ma chérie, le temps n'existe pas, tu verras. C'est un présent perpétuel". Un'inossidabile Suzanne Flon (Tante Line) rivelava questa verità alla propria nipote nelle utlime sequenze di "La fleur du mal" di Chabrol (2003). Dieci anni dopo, le ribattono François Ozon e Charlotte Rampling in "Jeune et jolie", al cinema in queste settimane. Protagonista è una personalità individuale che sullo schermo si fa corpo e sesso; e Marine Vacth non è certo la nuova "Belle de jour". Lo spettatore di Ozon è abilmente sollecitato, e sino all'ultimo, a cercare le ragioni dell'agire di Isabelle/Léa. Il giudizio è sospeso, anzi deliberatamente ignorato; ma non la morale, racchiusa soprattutto nel movimento della mdp che alla fine del film riconduce dallo specchio al viso della protagonista, nuovamente sola nella stanza di un albergo. È proprio il tempo la risposta: il tempo che vive in ogni periodo dell'esistenza. Lì si consuma ogni rinascita, ogni scoperta, come durante le stagioni che, alla Rohmer, scandiscono questo racconto (semplici capitoli figuravano in "5x2"). Che ruolo intelligente ed efficace è affidato qui alle poche citazioni letterarie! De Laclos e Rimbaud; ragione e natura. Lo stile di Ozon è ora pienamente maturo (e sottovalutato), capace di dosare tempi, toni (e canzoni, come sempre) da comédie dramatique; e di ferire, quando è il caso. Che bello prendersi gioco della psicologia d'accatto così come dell'anti-convenzionalità della famiglia gauchista! Guardate questo film attraverso lo sguardo del regista, che è tutt'uno con quello puro e curioso del fratellino di Isabelle.

lunedì 28 ottobre 2013

Pastoral: To Die in the Country (Shūji Terayama, 1974)

«Fondamentalmente, il passato è una fantasia frutto delle nostre proiezioni mentali». «Ma sarebbe disonesto non sforzarsi di esprimere sinceramente ciò che in fondo è l'essenza stessa del mio essere. Non trovi che le nostre intere vite prendano forma sulla base delle esperienze della nostra infanzia?». «Penso sia il contrario! Le vedo più come un peso opprimente attorno a cui scaviamo senza sosta. Se un individuo non è libero dalle sue memorie, allora non è davvero libero». Shūji Terayama, "Pastoral: To Die in the Country" (田園に死す Den-en ni shisu), 1974

giovedì 17 ottobre 2013

Sacro GRA

Questa è una delle sequenze più intense di "Sacro GRA", regia di Gianfranco Rosi (curriculum di tutto rispetto e meritato successo a Venezia). Il suo è uno dei pochissimi lavori italiani di questi ultimi anni degni di misurarsi con la storia del cinema nazionale, nonché con l'attualità di quello straniero. Il film è documentaristico nella più nobile delle accezioni; De Seta, anzitutto, per il respiro umanitario. Ma non dimentica Ciprì e Maresco quando disegna i tratti di un grottesco sempre e comunque affettuoso. Alcuni presupposti estetici derivano dal cinema di Straub e Huillet: il rapporto con gli spazi, col suono e con la natura ("Quei loro incontri"). I riferimenti cinematografici, però, sono ancora più ampi, europei. I soggetti di "Sacro GRA" sono due: un'umanità (anche residuale) e il mostro d'asfalto sul quale notte e giorno trafficano i veicoli, onnipresenti col loro rumore di sottofondo. Il riscatto è una catastrofe (o una liberazione dell'anima) e spetta ad un solo personaggio: il palmologo che - con un gesto davvero autoriale - annuncia a metà del film "l'antipasto della vendetta" che si materializza con l'esumazione di cadaveri e coi veicoli nella neve, il suono rarefatto. È lui a prendersi cura delle palme ("hanno la forma dell'anima") ascoltandone le fibre infestate dai parassiti; prima deve attrarli per farli allontanare. E infine prepara una pozione per debellarli del tutto. Rosi, a stretto contatto con il reale, ha trovato la fonte di una verità assai più vera e poetica di quella che quest'anno abbiamo visto raccontare altrove; "La grande bellezza" di Sorrentino si tiene a timorosa distanza da tutto questo.

lunedì 7 ottobre 2013

Gravity

Sarà merito anche del cognome del personaggio interpretato da Clooney (Kovalsky), ma "Gravity" trattiene con se più di un elemento caratteristico degli space movies che storicamente si sono sempre opposti a quelli made in USA: i russi. Uno su tutti, un capolavoro come "Solaris", prodotto in un decennio nel quale immaginarsi nello spazio con la macchina da presa era soprattutto interrogarsi sulla vita e sulla metafisica. Questo nuovo film di Cuarón ci catapulta in un'avventura di sopravvivenza e di rinascita quasi oltre il limite estremo che separa la vita dalla morte, sullo stesso filo sottile che stacca dalla realtà la visione interiore della protagonista. È un blockbuster d'autore, evoluzione anche stilistica (la computer grafica e il lavoro sul suono sono straordinari) di un'altra gara contro la morte già raccontata da Cuarón: "I figli degli uomini", che però è un film poco riuscito. Questa volta non c'è tempo per l'indugio, il ritmo del 90 minuti è travolgente e molte immagini (e sequenze in soggettiva) sono impossibili da dimenticare.

sabato 5 ottobre 2013

Carlo Lizzani (1922-2013)

Carlo Lizzani (1922-2013). Nella sua vasta filmografia mi piace ricordare il punto di svolta segnato da "Il gobbo" (1960), epopea di un borgataro ribelle, che fu partigiano e poi fuorilegge, sempre incapace di sottostare all'autorità costituita. L'interprete principale è un bravo Gérard Blain (già protagonista di "Le beau Serge" di Claude Chabrol) e qui Pier Paolo Pasolini appare nel ruolo di "er monco". 



giovedì 3 ottobre 2013

"Il Viva Verdi"


«Il Caffé Martini sta dinanzi al Cova, in piazza della Scala al 10, all'angolo con via Manzoni. È il ritrovo abituale della Consorteria delle Effe al gran completo e da sempre il primo telegrafo dei fiaschi della Scala, "l'aeropago che libra le fame esigue e colossali della scena". Mettiamola così: per i trionfi si va al Cova, dirimpetto; per i fiaschi ci si precipita al Martini e, scaraventando il tabarro al guardaroba, si fa notte fra i tavoli assiepati, scolpendo nel marmo l'ultimo pettegolezzo, o rinfrescando la peggiore stonatura. Ai tempi delle Cinque giornate hanno eretto le barricate di velluto dal caffè, utilizzando le poltrone e i manufatti della Scala. Al Martini si incontra ancora la gente più strana.»


Consiglio a tutti di leggere il romanzo di Jacopo Ghilardotti, di fresco dato fuori, che ci racconta una storia musicale tra 1879 e 1887, vista ed ascoltata attraverso gli occhi e le orecchie di Tobia Gorrio, l'anagramma di Arrigo Boito; lui ha persino accesso, in segreto, alle preziose carte dell'opera che tutti aspettano, "Otello". Questa è anche una storia della Scala, al centro della città in cui si applaudono gli spettacoli licenziosi della Canobbiana, si fa tardi nel salotto della Cima e fervono i preparativi per l'Esposizione Universale. Il romanzo è avvincente e molto ben documentato, immerso nella storia, nella politica e nell'arte dell'epoca, con un occhio di riguardo per quel compositore travagliato che fu Alfredo Catalani. Buona lettura! 

sabato 20 luglio 2013

Now You See Me

L'occhio di Horus altro non è che la giostra del cinema, col suo vorticoso succedersi di colori e movimento: eterno gioco d'aspettative e d'illusione. E l'agente dell'Interpol legge Libération sui ponti di Parigi. Sì, è vero che il potere immateriale non ha bisogno di esplicitarsi; ma, per un momento, la crisi contemporanea e le sue oligarchie hanno nomi e cognomi. 
La declinazione di crimine e magia possiede in "Now You See Me" il tocco francese di Louis Leterrier, allievo di Besson; intelligente ed abile, capace di non diventare pretestuoso nell'intrattenere il pubblico e condurlo, sul palcoscenico del mondo, attraverso una trama che non lascia respiro. Un racconto che è fatto di personaggi e suggestioni che servono a destabilizzare il sistema; e a vendicare speculazioni a colpi di magia. 
Far sparire ed apparire un coniglio in una scatola non è infatti poi così diverso dal far materializzare e scomparire sogni e denaro: e quanto differisce dal comprare i sogni e dal cercare di smascherarli? Come raccomanda la voce off all'inizio, è davvero inutile guardare da vicino se si vuole comprendere quello che accade. 

venerdì 12 luglio 2013

"Un ballo in maschera" alla Scala (09/07/2013)


Solo un’annotazione sulle risorse figurative del regista. Nella scena prima dell’atto primo (allestimento firmato da Margherita Wallmann e Nicola Benois nel 1957) campeggiava un grande arazzo per evocare – nella Boston del XVII secolo – l’epoca dei conquistadores. Anche il costume e l’abitazione del creolo Renato (atto terzo) erano d’ispirazione indigena americana. In questo modo, sin dal principio, la vicenda privata si saldava con i moventi politici: riscatto di generazioni conquistate, congiura di Samuel, Tom e, poi, di Renato. La ricerca iconografica e la conoscenza dei molteplici spunti provocati dal testo, dunque, erano alla base del lavoro d’allestimento. Pessimismo radicale, inconsistenza del potere (di cui i protagonisti restano vittime) ed umorismo “ad uso Shakespeare” – per mettere in rilievo il tragico – sono nodi fondamentali nella poetica e nel pensiero di Verdi; un fil rouge che da “I due Foscari”, “Attila”, “Macbeth”, porta a “Rigoletto” e “Simon Boccanegra”. Mi pare che il regista Michieletto se ne sia accorto, provando a tradurre questi temi sulla scena (le colorate campagne elettorali americane). Per lo spettacolo, come avviene per tutti i registi della sua generazione, ha trovato ispirazione nell’iconografia che è loro più prossima: quella della fiction televisiva. Nei casi più avanzati, quella del cinema: qui le suggestioni provengono soprattutto da “Le idi di marzo” e per “Oberto”, con la regia di Martone, da “Scarface”. Errore capitale, a mio avviso, è soprattutto la sovrabbondanza, laddove essa non riesce a tradursi in gesti teatrali utili e convincenti: in primis, la caratterizzazione di Amelia nell’atto primo, i paraplegici e le puttane, con il loro ridicolo involontario. In quest’opera, l’equilibrio tra commedia e dramma è delicatissimo, pronto a spezzarsi in un istante; e questo è avvenuto quasi da subito. Ma credo che il regista abbia saputo gestire bene e con coerenza il disvelamento del finale (fantasma a parte). Ritenere che per essere più “vivida” l’opera abbia bisogno di essere “attualizzata” (parole di Michieletto) è un’idea miope e pigra che penalizza soprattutto chi, come lui, qualcosa da dire ce l’avrebbe. Cicisbei, parvenu, regine del culame che dispensano rilievi cretini su modernità del costume nell’arte e nella pittura; erogatori incauti dell’aggettivo “geniale”; direttori artistici ignoranti; membri della cosiddetta critica musicale italiana. Anche a loro credo fossero implicitamente rivolte le sonore contestazioni piovute su regista e collaboratori. Titoli, costumi, modernità, tradizione, ambientazione sono categorie estetiche che – di per se stesse – non sono sufficienti a spiegare quello che accade oggi sui palcoscenici d’opera. In mancanza di cultura operistica, che è anche storica ed iconografica, la nuova generazione d’interpreti semplicemente non sa, non conosce, ha pochi elementi (sempre gli stessi) ai quali attingere. Peccato.

sabato 29 giugno 2013

"Siegfried" alla Scala

Ieri sera (27.06.2013), la Scala ha applaudito nel "Siegfried" un'orchestra che ha suonato in stato di grazia. L'episodio accidentale nell'atto terzo è assolutamente trascurabile di fronte al risultato ottenuto da una compagine la cui duttilità e generosità di tinte si è ammirata ad ogni passo. Chi ricorda le prove wagneriane degli anni '90 e le confronta con le sonorità provenienti dalla buca dell'orchestra in questa stagione celebrativa non può che restare ammirato. Ma, nel confronto, l'orchestra della Scala - sotto la guida di Barenboim - è assai di più: una grande orchestra wagneriana, tout court. La chiave di lettura offerta dal maestro alla seconda giornata è suggerita sin dal principio. Lo sguardo sul Vorspiel, infatti, non è quello d'insieme che si posa abitualmente sulla tela delle "riflessioni meditabonde" di Mime; è invece un'esposizione trasparente, analitica dei sette motivi che compongono il brano, mirata a puntare una luce speciale su quello dei Nibelunghi, col loro martellante lavoro di fucina. Sarà infatti un "Siegfried" dalla parte del Niebelheim e da quella delle sue risonanze cavernose sollecitate dal tempo "senza tempo" che è capace di reggere Barenboim. Una meraviglia per le orecchie. Questa non è la fiaba del giovane eroe. Attenzione, però. Si tratta di una lettura che non implica il fatto di sacrificare le atmosfere boschive né, tanto meno, di trascurare le implicazioni psicologiche delle scoperte di Siegfried. Tutto il contrario: serve ad esaltarle. La trasformazione del motivo dei Nibelunghi in quello della foresta è evidenziata in maniera stupefacente. Barenboim non ha fretta di legare le crome "dolce" per dipingere la voce della natura; attende che la vita del bosco si animi prima col cinguettio degli uccelli. E la relazione tra i due motivi, quindi, si preserva inquietante sino all'ultimo perché il quadro sfugge alla pittura didascalica per rivelarsi qual è: epifania dei sensi e della mente. E' chiaro che per sposare una lettura del genere il canto non necessita certo di un Siegfried come quello di Lance Ryan, di voce bianca e chioccia, impossibilitata ad addolcire i suoni e sufficiente solo nel canto spigliato dell'atto primo. E non va oltre il caratterismo comico il Mime di Bronder che fa sembrare un gigante l'Alberich di Kränzle. Sempre male la Erda della Larsson in un brutto incontro con l'anziano Wanderer di Stevensold, senza autorità e in difetto di intonazione. Infine, in un paio di incidenti è incappata la Theorin nel problematico finale.      



                            

mercoledì 26 giugno 2013

"Die Walküre" alla Scala

"Die Walküre" compromessa ieri sera dall'indisposizione di René Pape che soccombe al ruolo nell'atto secondo prima di annunciarsi indisposto ed affrontare il terzo. Ma, a prescindere dall'evenienza - come già dimostrato altrove - spessore e scrittura baritonaleggiante sconsigliano al divo di frequentare il Wotan della prima giornata: meglio attenersi a König Heinrich e a König Marke (fu davvero notevole a Berlino). Salutato da trascinanti approvazioni è stato l'atto primo, il gioiello della serata. Presto l'orchestra avvolge il tema d'amore di Siegmund e Sieglinde nel caldo amalgama di violoncelli e legni, con un'umanità affettuosa e che profuma di speranza: io, così, l'ho ascoltato suonare poche volte. O' Neill possiede uno strumento ragguardevole che esibisce tanto in accenti perentori, quanto nella capacità di flettersi, anche con morbidezza: il sol di "Wälse!" è tenuto con spavalda generosità. Sono cose che "fanno palcoscenico" come ricordava spesso un mio amico; e aveva ragione, specie guardando ad oggi, in un'epoca nella quale la musica pare diventata la colonna sonora del teatro di regia. La Meier amministra le proprie attuali risorse con una sapienza invidiabile: al risparmio sul canto vivace nel racconto della spada per affrontare con slancio la risposta al "Lenzeslied" e poi la ripresa della musica del giubilo, per trascinarci in un finale davvero memorabile che fa scoppiare il teatro. 
Divide con loro lo spazio della scena Hunding/Petrenko prossimo alla caricatura del ruolo: uno sgherro in giustacuore antracite che si presenta in scena per vociare e parlare, come sanno fare solo certi Pizarro di provincia tedesca. Irricevibile. La Gubanova è invece una Fricka autorevole; il suo canto è penetrante e solo un po' sfuocato nei gravi. Il confronto con Wotan è disturbato da una regia che - dopo essersi rivelata inutile - diventa nociva: una sfera luminosa volteggia a mezz'aria cigolando su se stessa sino ad arrestarsi alla cosmica enunciazione di "das Ende", che per gli spettatori è solo un liberatorio "endlich". 
Delude molto invece la "Todes-Verkündigung". Il maestro la colora con le venature di un marmo sepolcrale affidato agli ottoni che sfilano sull'agogica dell'evocazione di una trenodia. Sono sonorità preziose, è vero; ma l'intenzione di trasformarle in materia drammatica non coglie nel segno. Proprio qui, infatti, per assecondare il passo del direttore, O' Neill e la Theorin sono costretti ad insistere sul centro; ed ecco i suoni chiocci ed ecco quelli in bocca, tallone d'Achille dei due artisti. La partita a scacchi apparecchiata da Wagner è costretta a lasciar evaporare la temperatura drammatica perché per sostenere l'incedere della bacchetta bisognerebbe disporre di altre risorse (temo, straordinarie per chiunque), fraseggiando al centro da supereroi. Il blackout si conclude solo quando il veleno dei motivi dell'amore è nuovamente in circolo. Nell'atto terzo, invece, le volute degli archi nella disperata richiesta della valchiria, col loro gesto inquieto di violini e violoncelli in ottave, sono una vera meraviglia; vorrei poterle riascoltare proprio adesso. Ma tutto, qui, dal principio, riceve in orchestra una messa in valore, a cominciare dai legni, così sensibili nel rivelare con accenti commossi il turbamento profondo del padre. Il Leitmotiv dell'amore compassionevole si colora di trasparenze e respira con un lirismo di ampia cavata, quella che si deve chiedere ad un'orchestra wagneriana (ottimi soprattutto i tromboni); e l'incantesimo del fuoco non rinuncia allo sfavillio dello strumentale ma - è sempre stato così con Barenboim - viene adombrato dall'interrogativo del Fato. Con un Wotan in buona forma, anche il terzo atto avrebbe riservato, almeno in parte, le suggestioni del primo.

martedì 25 giugno 2013

"Das Rheingold" alla Scala


"Das Rheingold", ieri sera alla Scala. Della vigilia mitica già proposta nel 2010 si conservano nel cast otto interpreti su quattordici, guadagnando dalla presenza di Ekaterina Gubanova: possiede un mezzo adeguato alla sala e amministrato con cura al centro, al servizio di un personaggio più sprezzante che autoritario (come si conviene alla Fricka del Prologo). Garbato, anche nel gioco scenico, il Loge di Rügamer mentre Kränzle (Alberich) fa eccessivo ricorso al parlato. Da apprezzare invece il legato di Paterson (Fasolt), esibito nella lamentazione per Freia.
I punti deboli della distribuzione sono da individuare, quindi, fra gli dei del Walhall. Ancora per una volta ascoltiamo la voce di legno di Buchwald, che necessiterebbe di una di ferro per armarsi del martello di Donner. E, ancora una volta, la vocina aspra di Freia/Samuil, fibrosa quanto quella di Froh/Vlad. La Larsson, nuovamente, guasta l'apparizione di Erda così ben preparata in buca da Barenboim: una scelta inspiegabile. Nei decenni la lettura del maestro non è mutata, preferendo marcare nel "Rheingold" i prodromi più sofferenti delle giornate a seguire piuttosto che la cifra mitologica caratteristica della vigilia. In questo modo i rilievi cameristici sono destinati ad assumere valenza semantica (e spessore drammatico) in modo particolare in due pagine: la lontananza di Freia dagli dei e la resa di Alberich. Qui, quando gli interpreti sono in grado di raccogliere gli stimoli che arrivano dal direttore, la flessibilità della parola è essenziale e le pagine risultano quelle più riuscite. Questi focus non precludono al maestro la facoltà di restituire con buon effetto anche gli affreschi del Vorspiel e l'alba sulla rocca. Meglio sarebbe stato, invece, calibrare diversamente le posizioni di incudini e martello; ne avrebbe giovato in profondità la sonorità della discesa al Nibelheim, che è rimasta piuttosto neutra. Complice la latitanza del regista (se si eccettuano le metamorfosi di Alberich nello studio televisivo) e qualche stonatura, non mi ha convinto per nulla il problematico finale della scena quarta con l'ingresso degli dei nel Walhall: difettava soprattutto di forza propulsiva (v. trombe e tromboni). Un applauso a scena aperta avrebbe, invece, meritato Michael Volle (Wotan) giunto al fa e poi al mi naturale ("So grüss'ich die Burg, sicher vor Bang'") dopo il tempo estenuato che gli ha servito Barenboim: in partitura è scritto "mässig bewegt" e la voce, precaria proprio al centro, non avrebbe bisogno di indugiare su un tempo tanto lento per meglio dichiararsi tale. Al termine i cinque minuti di applausi - il tempo per una chiamata al proscenio di fronte a molti stranieri - mi sono parsi pochi; segno forse che il pubblico non era particolarmente coinvolto.



domenica 16 giugno 2013

Holy Motors

La fenice che risorge dalla proprie ceneri. Sì, è Leos Carax. Giunti all'ottava incarnazione di un gigantesco Denis Lavant (rientra a casa, dove ad accoglierlo trova una famiglia di primati), si comprende l'orizzonte additato dal regista alle teste che siedono immobili e silenziose nella sala cinematografica del prologo: dai resti contemporanei, nasce il cinema del futuro che sarà (oppure lo è quando riesce ad esserlo) capace d'immergersi nel passato per trarne alimento. Aspettandolo (o facendolo, come in questo caso), il cinema assoluto di Leos Carax trova in "Holy Motors" - proprio a livello squisitamente filmico - la sua forma più matura e seducente, capace di organizzare una radicale analisi attorno ad oggetti che sono eterni nella riflessione del rapporto tra realtà e rappresentazione; almeno da quando esiste la mdp. Quella di Carax è una via crucis fieramente ermetica e, al tempo stesso, in grado di comunicare emozioni a chiunque desideri percorrerla insieme a lui, grazie ad immagini che possiedono una forza dirompente. 



lunedì 10 giugno 2013

"Götterdämmerung"

«Des tiefen Rheines Töchtern
gäbe den Ring sie wieder zurück, 
von des Fluches Last
erlöst wär' Gott und Welt!»






Truffautiano

François Truffaut si divertirebbe parecchio se sapesse che nelle sale, contemporaneamente al tributo hitchcockiano diretto da Gervasi, si proietta un film che accoglie diversi oggetti della poetica di Antoine Doinel. Come lui, infatti, Claude Garcia ama i libri, almeno quanto le gambe delle mamme dei suoi compagni di classe. La scrittura è talmente al centro del film di Ozon che lo spettatore si ritrova proprio nel mezzo del processo di immaginazione e di creazione narrativa, solleticato da un insegnante che venera Flaubert ma viene steso a terra da un colpo in testa assestato da Céline. La suspanse è quella educata dallo stile di Chabrol ma il ritmo è brioso quasi quanto quello di "Vivement dimanche!". Gli attori sono ottimi, come la fotografia. Bisogna tener d'occhio Ernst Umhauer; potrebbe diventare il nuovo Benoît Magimel. 

In attesa del 2029

L'indugiare della macchina da presa, gli spazi del tempo, il respiro medio-lungo sono il male assoluto per il cinema di Luhrmann, il cui retaggio figurativo affonda nella grafica dei video games, nella pubblicità dell'ultimo profumo griffato, nel video clip della più acclamata pop star, autrice della canzone prima in classifica. Quello che produce è godimento tattile, visualizzazione edonistica sospesa tra desiderio e invidia degli oggetti. Lo spettatore avido di immagini ubriache è invitato a prenderne possesso per 144', a buon mercato (10 euro tedeschi); unico scotto da pagare è il peso sul naso degli occhiali 3D. Questo è il quarto tentativo, nella storia del cinema, di espugnare un testo problematico come "The great Gatsby"; ed è quello destinato a fagocitare i precedenti perché non si lascia intimorire dalla fonte. 
Il regista domina i tempi teatrali, la sceneggiatura è infallibile quando si tratta di creare la cornice psicanalitica nella quale agisce Nick Carraway e laddove sostituisce l'età del Jazz con la festa postmoderna, riservando al sentimento, col contagocce, istanti efficaci solo perché affidati ad attori capaci di incarnarli: e non è poco. Ma, per carità, con pudore; perché il lino e la seta sono assai più erotici. La solitudine, invece, è un vero e proprio tabù, da lasciar appena intravedere nel finale, neppure rinunciando ad accompagnarla col vento tra le tende (che se la porta via). Da quello che fu il sogno americano a quello che è il sogno globale e virtuale. In attesa del 2029?



Solo Dio perdona

"Only God forgives" è un'opera perfetta, al pari di "Bronson" e "Drive". Non c'è un solo fotogramma in più, né uno in meno, di quelli che dovrebbero esserci. In una Bangkok sporca e mitica, che in pochi altri lavori si è vista celebrare così bene, agiscono i quattro personaggi di una tragedia antica, incarnazioni di archetipi. Più il quinto, il fantasma di Bobby (Tom Burke), motore della vicenda che si consegna presto alla memoria degli spettatori con il viso di Peter Lorre, il mostro di Düsseldorf di Lang: a sua volta figura archetipica e ora maschera tinta di rosso, lo stesso colore emozionale ("touching") che illuminava "Pusher II - Sangue sulle mani" e che qui rischiara gli ambienti, solo dove e quando serve. Al poliziotto giusto e vendicatore è speculare l'antieroe bello, impotente ed edipico; alla madre grottesca e spietata la ragazza-sogno, etica e indifesa.
Anche il dosaggio dei registri è calibrato su chiasmi; mai nella filmografia di Refn umorismo surreale e violenza implacabile si erano temperati e scontrati con tanta efficacia. È lo stesso equilibrio manierista che si ritrova in immagini coltivate con rigore formale e ricercatissimo nitore; fra quelle di figurativa orientale, non se ne ammiravano così dagli anni '90 dei film di Kitano. E la trama lirica e fittissima costruita con musiche e suoni da Cliff Martinez è legata indissolubilmente alla drammaturgia. Non ha bisogno di sostenerla, perché aderisce alla stessa sintassi; è quello che si apprezza solamente nel grande cinema. Considerare Refn "il Tarantino europeo" è assolutamente fuorviante e riduttivo. Non solo la sua poetica affonda altrove la gran parte delle proprie radici, ma il suo fraseggio è nobilmente asciutto perché diffida - al massimo grado - di verbalismi e magniloquenza ammiccante. Qui il ritmo non è quello di "Valhalla Rising", però guarda alla sua impostazione mitologica; la morale non è quella di "Drive", ma la prospettiva è la stessa. Ora l'eroe Ryan Gosling si è tramutato nell'antieroe per allinearsi alle altre anime del film, guadagnando però quella più ontologicamente fragile e complessa, imprigionata nel proprio (rosso) labirinto di ossessioni e frustrazioni. Il film è significativamente dedicato al surrealismo magico e orrorifico di Alejandro Jodorowsky.