giovedì 23 ottobre 2014

Il giovane favoloso

Sono usciti, a poca distanza fra loro, due film biografici dedicati ai poeti italiani: il Pasolini di Ferrara ed Il giovane favoloso di Martone. Alla circostanza temporale si sommano caratteri comuni; entrambi i soggetti, infatti, sono incentrati su autori che furono sostanzialmente in dissonanza tanto col proprio tempo storico - che segnarono in maniera indelebile e con virtù addirittura profetiche - quanto nel confronto col contesto culturale loro contemporaneo, niente affatto concorde nel riservare l'accoglienza che oggi tributiamo deferenti. Tornano così alla mente i versi di Franz Grillparzer: «Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare».
Il film di Ferrara è lavoro non troppo riuscito, laddove invece l'opera di Martone possiede ben altro respiro. Cronaca di quel dannato giorno di novembre 1975, Pasolini accosta fra loro le parole e le azioni di vita quotidiana ai progetti letterari e cinematografici che restarono incompiuti; lo scopo è quello d'interpretarne sensi e significati in chiave essenzialmente umana, personale. Così il regista legge un desiderio di paternità nel Pasolini che stendeva la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal e indovina il soffio della morte nell'afflato onirico del progetto allegorico-fantastico dedicato al Re magio.
Nel Giovane favoloso di Martone, invece, l'ambizione è quella di far combaciare, sovrapponendoli, itinerario biografico e corpus letterario. Va ricordato che, per tutta la vita, Leopardi si oppose risolutamente ai tentativi di svilire la portata delle proprie convinzioni ogni qual volta fossero ricondotte alla sua sfortunata condizione fisica; tratto che, però, deve essere adeguatamente marcato in qualunque narrazione biografica sul poeta marchigiano. Tentazione estrema sarebbe quella di consegnare alla dimensione strettamente privata tutta la poetica leopardiana; penso soprattutto all'equazione che vede schierate da un lato poesia "immaginativa" e "sentimentale" e, dall'altro, fanciullezza ignorante del bene o del male e verità derivata dall'esperienza di una vita che fu poco immune alla sofferenza. 
Anche coautore della sceneggiatura, Martone ha affrontato il problema scontrandolo a viso aperto: dialoghi e situazioni, infatti, si servono in massima parte di luoghi letterari autentici in una riuscita sintesi di poesia e prosa, epistola ed assaggio zibaldonesco lungo una linea narrativa che va dall'infanzia al soggiorno partenopeo, suggello di morte che sbuffa fumo nero come nella Venezia infetta di Mann/Visconti, ma non può che rimandare alla città di Renato Caccioppoli. L'itinerario in evoluzione del pensiero di Leopardi è concentrato ora in alcuni punti (penso ai riferimenti a Vico e agli illuministi), ora dosato con attenzione tanto nei contrasti con l'ambiente letterario romano quanto nelle battute sarcastiche dietro le quali s'intravede la dimensione cosmica del pessimismo. Il Leopardi che tutti conosciamo - ed è qui che sta la riuscita del lavoro - è precipitato nella vita vissuta e nei luoghi autentici, che possiedono una forza evocativa fuori dal comune; ad illuminarli una fotografia di sensibilità neoclassica e raffinata intelligenza (Renato Berta). 
Correttamente, Martone pone una certa distanza tra il proprio eroe ed i fermenti risorgimentali, anche se l'epoca d'ambientazione è quella della prima parte del suo bellissimo Noi credevamo. Ed il film deve davvero molto ad Elio Germano che ha trovato in Leopardi un altro personaggio tormentato; ne esalta le caratteristiche più vitali, inarrendevoli, come la carne malata del poeta ed il suo infaticabile intelletto che brilla attraverso occhi di fanciullesca lucentezza. 
L'estraneità d'accenti (teatralissimi) di Popolizio si replica, in maniera convincente, nella musica elettronica di Apparat affiancata al Rossini strumentale, sacro ed operistico (la Shabran già messa in scena a Pesaro proprio da Martone); davvero appropriata l'elegia dei violoncelli solisti del Tell scelta per accompagnare il gesto di Germano/Leopardi che affonda la mano nella terra alle pendici del Vesuvio. 
Alcune suggestioni ritornano per saldare la materia. Ad esempio, quando il protagonista è accucciato accanto all'acqua di un mare nel quale gli è amaro il naufragare, sia l'Arno o il golfo di Napoli. 
Il regista, invece, rischia davvero molto - e non è del tutto ripagato - quando l'indagine si sposta sul versante strettamente psicologico, tanto nell'immagine di Adelaide Antici come Natura e «madre di parto e di voler matrigna» quanto nelle sequenze ambientate nel bordello. 
Comunque, quella di Martone si conferma una poetica che appartiene, a giusto titolo, al ramo sano del cinema italiano. 

giovedì 16 ottobre 2014

Class Enemy

È l'opera prima di un regista da tenere d'occhio, incentrata sul conflitto tra una classe e un professore in cui rivive la lezione inestimabile dell'umanesimo occidentale di Mann, asciutta perché sincera; qui siamo in Slovenia, nel cuore di un'Europa in disgregazione. E il Bildungsroman si replica così tra le mura di quell'impareggiabile fucina di anime e cataclismi che è la scuola; romanzo d'educazione, ben più che di formazione; educazione alla responsabilità dolorosa della propria coscienza contro incoscienze felici, e mostruose. Un film semiautobiografico, didattico, forse persino troppo nel cercare a tutti i costi la quadratura del cerchio; ma quella di Biček è una didattica d'autore, e dunque da intendersi nell'accezione più nobile, greca. La macchina da presa portata a mano si muove senza fighettismi, calibrata su azioni e stati d'animo con tempi esatti, sapendo cosa lasciare al buio per lo spettatore. Certo è un regista che ha studiato i capolavori di Haneke.

martedì 7 ottobre 2014

Sognando Odisseo

Nel mio teatro immaginario (adeguatamente finanziato dallo Stato e in cui si va in scena solo dopo essersi dati tempo sufficiente per le prove) è in programma una giornata dedicata all'Odissea. 
Matinée: "L'Odissea" (1911), film di Francesco Bertolini, proiezione con nuova colonna sonora composta per l'occasione, eseguita dal vivo e anticipata dalla lettura di pagine tratte dal primo romanzo di Jean Giono, "Naissance de l'Odyssée" (1930). 
Soirée: esecuzione di "Odysseus", oratorio in due parti per voci soliste, coro e orchestra, op. 41 di Max Bruch (1872).
Biglietti in omaggio per studenti e invalidi di guerra.








domenica 5 ottobre 2014

"Messa da Requiem" alla Scala


Venerdì sera, uscendo dalla Scala, terminata l'esecuzione più insignificante della Messa da Requiem di Verdi cui abbia mai assistito, riflettevo intorno all'importanza fondante della dialettica. I pensieri non si spingevano certo sino a rievocare le parole di Aristotele, ma si esercitavano piuttosto intorno alle peculiarità più salienti del capolavoro verdiano che pure dall'abilità di porre in discussione fra loro, con linguaggi polivalenti, le molteplicità di piani e di atteggiamenti narrativi del testo liturgico trae inesauribile forza vitale; e questa è anche la ragione più sincera della natura tanto singolare della partitura nel panorama dei grandi monumenti ottocenteschi della musica sacra. 
Quella della Messa da Requiem è una dialettica fervida che conduce ad un'unità musicale assoluta. Coesione che scaturisce dal contrasto; è la potenza della sintesi. Nella molteplicità dei livelli che strutturano la composizione, infatti, l'espressione della religiosità rituale e rassicurante, manifestata dalla liturgia di testi coordinati allo scopo di suffragare le anime dei defunti, viene letteralmente frantumata da Verdi e presentata come un elemento estraneo alla voce dell'autore (ateo); un compositore che nei testi esalta al grado massimo le paure, le angosce, i terrori e le disperate suppliche intese non più come ingredienti trascendibili della medesima liturgia, ma come sostanze vive ed umanissime di un itinerario emotivo a giusto titolo definito “teatrale”. Ebbene, proprio in questa correlazione tra segmenti di testo illuminati in maniera differente risiedono le scelte dell'autore; e, per estensione, anche quelle dell'interprete, chiamato a farle proprie ma - al tempo stesso - impossibilitato a tacerne la natura contrastante e prismatica. Una natura che, per altro, s'intende superficialmente anche solo sfogliando la partitura, così gravida di segni dinamici e di espressione.
Allo straordinario repertorio di atteggiamenti e sentimenti umani posti di fronte agli interrogativi sulla morte e la sofferenza provocati dal testo della missa pro defunctis cattolica romana è parso voltare le spalle Riccardo Chailly, chiamato a commemorare la scomparsa di un interprete quale Claudio Abbado. Gli esempi sarebbero molti, ma mi limito a rilevarne due. In luogo della tinta inconfondibilmente stregonesca del contrattempo sul Quantus tremor est futurus, troviamo un'orchestra livellata tanto nei colori quanto nell'espressione laddove, anche questa, invece, dovrebbe mantenersi vibrante tra la prima e la terza sezione della Sequenza.
E particolarmente inerte ho trovato la resa di quella straordinaria figurazione musicale che Verdi affida al fagotto per sostenere il canto del mezzosoprano (Quid sum miser tunc dicturus): un profilo melodico che è incarnazione stessa, sul pentagramma, di un anelito assetato che continuamente inciampa cadendo su se stesso per ricominciare a soffrire: Adagio, pp, espressivo. Ma venerdì sera, complice una Elina Garanča d'impassibilità addirittura respingente, era impossibile scaldarsi l'anima proprio in un passo nel quale la soggettività si manifesta più vivida, e in primo piano; ma non è stato da meno il basso Ildebrando D'Arcangelo che, nulla più che corretto, ha ripetuto l'esposizione di Oro supplex et acclinis senza in alcun modo variare l'espressione, già compassata sino all'imperturbabile.
Si vorrebbe affermare che quella di Chailly e del quartetto vocale (completato dal tenore sostituto Matthew Polenzani, di voce essenzialmente bianca e scoperta) sia una lettura formalista, estetizzante, alla ricerca di un'olimpica, cherubiniana solennità; non foss'altro che il risultato è, in realtà, quello di far implodere su se stessa la materia viva di cui pulsa la partitura verdiana e che, come ho ricordato poc'anzi, si alimenta proprio della dialettica tra registri stilistici, in continua tensione tra religiosità topica e tormento soggettivo. In assenza di tutto questo, anche gli equilibri tra sezioni risultano compromessi, perché uniformati: il Lacrymosa giunge con tempo larghissimo ma non sostenuto da adeguata tensione ed il Sanctus, che nell'economia della Messa da Requiem assume una funzione specifica di bilanciamento, è eseguito correttamente ma appare privato della sua funzione.
Ascoltando il soprano Anja Harteros, ho ripensato con nostalgia ed accresciuto senso di straniamento alla “Mirellina” (Mirella Freni) e ad Herbert von Karajan di fronte al quale la cantante si scusava di avere una voce poco adatta nell'affrontare i ruoli Stolz per i quali il maestro austriaco, innamorato della sua arte, la convocava: «mi protesto da sola», diceva, con infinita modestia. Ebbene, ho ripensato proprio a lei e al suo mezzo rotondo, sempre timbratissimo, duttile, intonatissimo e - per un istante - l'ho affiancato a quello di questo soprano cui non mancano alcune intenzioni musicali, affidate però ad una voce lirica che cala e diventa fissa sugli acuti, in modo particolare nel Libera me e, completamente vuota nel registro grave, pure parlante.
Tornando al direttore, mi domando se, dimostrandosi privo delle risorse coloristiche e dinamiche di Barenboim in un Requiem verdiano che non fu poco interessante, la sua non sia semplicemente una mancanza di affinità intellettuale con la partitura (ricordo anche una sua esecuzione con l'Orchestra Verdi, una quindicina d'anni fa); trovo che proporre, ad esempio, lo Stabat Mater rossiniano sarebbe stata soluzione più congeniale.