domenica 14 giugno 2020

Montanelli e Daniélou

Due osservazioni e la conclusione a chi legge:

- veniva alla Scala Montanelli con la moglie; tutti e due secchi secchi, lui altissimo. Devo averli accompagnati al posto qualche volta. Bene non mi ricordo, perché succedeva spesso con tanti e poi io ai giornalisti di fama non ho mai accordato particolare interesse. Mi sembra che venti o venticinque anni fa non fossi il solo, peraltro; a mio nonno conservatore lui piaceva, ma non ricordo alcun invito a rendermelo indispensabile. Del resto, accoglievamo schierati all’ingresso della Scala il presidente della Cina (ben altra suggestione geografica) e quindi, insomma, tutto era in proporzione. Oppure tenevamo sotto braccio la signorina Renata Tebaldi; dunque altre evocazioni.
Oggi è diverso e i giornalisti di primo piano (anche quelli scomparsi, e forse specialmente loro) sono assurti al rango d’imprescindibili intellettuali di riferimento; di loro si parla più che dei politici, ad esempio, e assai più che di molte altre categorie; che sia questo il segno di una carenza di respiro, di orizzonti?
Poi Montanelli andava da Biffi per cena. Se entrandoci capitava vicino ad amici miei, di sinistra quanto me, loro sbuffavano ma non troppo perché lui ormai era contro Berlusconi; argomento diverso dal Berlusca non esistette in Italia per più di dieci anni e, in verità, della dodicenne etiope non interessava niente a nessuno. Dunque Montanelli andava benone (a destra gli diedero addirittura del comunista) perché si trovava a remare dalla parte giusta; paradossi che facevano sorridere lui per primo. Nella Milano del centrodestra gli furono dedicate statua e parco, con poche polemiche annesse. La statua non gli assomiglia affatto in viso, ma certo è una scelta dell’artista. Al contrario, la posizione seduta la rende affabile, informale. La situazione politica consentì tale tributo alla giunta di centrodestra; oggi, prodigi del tempo, quello apparirebbe persino come una concessione ad una “figura scomoda”. Poi, dopo anni, in città venne al potere il centrosinistra e le politiche così come i veri rapporti di forza (a cominciare da quello instaurato coi privati) non cambiarono se non nella percezione iniziale di molti. A riprova del fatto che certe dinamiche mutano soltanto in superficie e neppure poi molto, fu con qualche mal di pancia che, Pisapia regnante, venne iscritto al Famedio (luogo deputato a benemeriti «per opere letterarie, scientifiche, artistiche o per atti insigni o che si siano distinti particolarmente nella storia patria [e] abbiano arrecato alla città particolare lustro o beneficio») il missino Franco Servello che sempre finché visse continuò a richiamarsi nostalgicamente al ventennio della dittatura fascista e fu promotore della manifestazione (12 aprile 1973) vietata dalla Questura nel corso della quale in violenti scontri con le forze dell’ordine i fascisti uccisero con una bomba a mano l’agente di polizia Antonio Marino. Parliamo dello stesso sindaco Pisapia, già ex deputato di Rifondazione Comunista, che al parlamento europeo votò poi per l’equiparazione storica di nazismo e comunismo. Una sostanziale continuità mi pare, invece, legare sì questi e altri fatti ancora. Sono epifanie e ridimensionamenti della percezione temporale per provocare ulteriormente i quali s’invocherebbe - se non andasse sprecata per i soggetti in fabula - la penna di un Proust.
Oggi, per la seconda volta, la statua si trova imbrattata (di rosso, con minore fantasia rispetto alla volta precedente). Verrà pulita e tornerà come prima. Mi pare proprio che, come ha scritto benissimo Andrea Zhok, ci si muova qui nell’ambito angusto di «un imperialismo dei poveri: l’imperialismo dell’ignoranza presente verso ogni passato “scorretto”».
- Quasi coetaneo del giornalista italiano era lo storico ed orientalista Alain Daniélou che, invitato nei primi anni ‘80 in una trasmissione culturale gloriosa della tv francese, si esprimeva intorno ad argomenti sessuali, razziali e più genericamente culturali, antropologici, con una liberalità e una lucidità che oggi scandalizzerebbero tanto da non permettersi di andare in onda. L’estratto non si trova più in rete per questioni di diritti, ma la trasmissione è talmente prestigiosa che, fra i suoi innumerevoli ospiti vanta insieme a Daniélou (insignito delle più alte onorificenze della Repubblica francese) personalità quali Borges, Yourcenar, Eco, Simenon e Lévi-Strauss. Nel suo Śiva e Dioniso - io lo definisco un libro che sta in sella ai continenti per cavalcare i millenni - lo śivaita Daniélou scrive: «La diversità delle specie e delle razze è un aspetto essenziale dell’armonia della creazione. Le restrizioni relative ai matrimoni interraziali permettono di evitare l’imbastardimento delle specie, di conservare a ciascuna di esse la sua nobiltà e la sua bellezza. Il sistema delle caste ha lo scopo di consentire la coesistenza di razze diverse in una stessa società garantendo a ogni gruppo sociale una professione riservata e privilegi distinti. Esso rientra nell’organizzazione sociale dell’antico Śivaismo». Del resto, continua Daniélou - evidentemente additando a futuri censori altri libri da bruciare - «scrive Esiodo che l’evoluzione dell’uomo passa attraverso quattro tappe, che corrispondono alle quattro razze degli Hindu: [...] bianco, rosso, giallo e nero.» Lo storico francese prosegue citando il sistema sociale di Egizi e Cretesi, ritrovando in tutte le tradizioni una suddivisione dell’umanità a seconda delle funzioni e delle capacità loro proprie perché «l’umanità trova l’equilibrio e la felicità solo quando i quattro gruppi umani che sono alla base delle quattro caste sono in armonia». Invece, «è sul piano delle realizzazioni spirituali, del progresso dell’essere umano, dei riti e delle pratiche religiose e magiche, che lo Śivaismo non conosce differenza tra gli uomini. [...] Proprio le differenze tra gli uomini, la loro ineguaglianza, sono la fonte d’ogni progresso, d’ogni civiltà. L’identità nelle attitudini delle varie razze è una finzione. Ciò non significa che, collettivamente, ogni razza non possieda attitudini che le altre non hanno. Accade la stessa cosa per gli individui all’interno di ciascun gruppo. Il vero problema sociale è di dare a ciascuno le maggiori possibilità di svilupparsi secondo le proprie tendenze, le proprie capacità, i propri bisogni. [...] Le teorie cosiddette egualitarie e democratiche del nostro tempo portano inevitabilmente a un livellamento che è una frustrazione, una specie di schiavitù per tutti. La libertà è il diritto d’essere diversi.»
Una vertigine storica e antropologica, insomma. Per dissentire, anche con radicalità, da queste parole è sufficiente dirsi egualitaristi e sinceri democratici, come faccio io. Ma per farne anche oggetto di critica storica è necessario comprendere varietà e contestualità di forme che abbracciano i millenni, e non certo soltanto un paio di secoli rischiarati dalla luce illuministica del nostro Occidente. Sono tutte forme dotate di ragioni e di fattezze mutevoli quanto la natura sconfinata che circoscrive la categoria dell’Umano. Riconoscerle, anche nelle loro resistenze (o scorie) è il primo passo per non condividerle o per rigettarle del tutto. Diversità storiche, antropologiche, culturali sono invece sconosciute a chi getta vernice o abbatte monumenti perché, fra le diverse mancanze, non contempla difronte a un fatto storico o testimoniale (materializzato, ad esempio, in una statua celebrativa) la necessità di dotarsi per intervenire su di esso (fatto storico o testimoniale) di strumenti interpretativi adeguati alla capacità di penetrarne il senso e di leggerlo servendosi di chiavi non inibenti e neppure ottusamente bigotte come quelle impiegate in questi giorni.

giovedì 11 giugno 2020

Le statue e la Storia

L’ultimo abbattimento di statue che io ricordi, e con orrore, fu quello dei colossali Buddha di Bamiyan. Erano intatta testimonianza della visione trascendente e immanente del Gautama, oltre che prodotto artistico straordinario, irripetibile, perché sposava l’arte greca a quella indiana. Ci restano soltanto le fotografie. Fu come tagliare braccia e gambe ad Alessandro Magno, magari a una sua statua; la suggestione arriva dal fatto che sto leggendo Il ragazzo persiano di Renault.
Mi riesce comprensibile l’abbattimento di statue di dittatori a seguito di una rivoluzione; chi ha la mia età ricorderà bene quella di Ceaușescu. Una perdita, comunque, se si riflette a mente fredda, quale potente segno di ulteriore riflessione storica essa avrebbe lasciato; ne restano altri, fortunatamente. Ma la Storia, si sa, non è fusione a freddo. E non è neppure la calda visione ottimistica che vorrebbe sbarazzarsi di testimonianze scomode o addirittura immonde dimenticandosi al tempo stesso che per rimpiazzarle con altre altrettanto pessime si può far sempre prima.
A Cuba (mi sembra fosse vicino a Cienfuegos) ricordo d’aver visitato un’azienda agricola che era conservata intatta come fu al tempo in cui vi faticavano stremati gli schiavi. Quella è memoria storica; saggiamente tutelata da un nuovo regime, per altro. Lo stesso si può fare in Alabama e in Louisiana, dove sono diventati museo gli alloggi affianco ai campi di cotone.
Cerchiamo di preservare memoria, dove possibile, anche delle statue di coloro che da quei traffici immondi trassero profitto. È un fatto che assume valore di monito e conoscenza per il presente ed il futuro. Allo stesso modo in cui non ci verrebbe mai in mente di abbattere le ciminiere delle camere a gas di Auschwitz, abituiamoci a guardare alle statue di quelle figure del passato con occhi attenti e informati. La Storia nelle sue forme artistiche e testimoniali si studia, non si abbatte. Si dirà: ma effigi di Hitler e dei suoi scherani non ne abbiamo mica conservate in piazza. Però ci industriamo a tramandare tutta una memoria di segni materiali e immateriali che oltreoceano ma anche nel Regno Unito - per quanto attiene a quel tratto di storia della schiavitù - resta piuttosto fragile, e talvolta quasi dispersa.
Dopo la censura a Via col vento dove vorreste spingervi? Alla letteratura forse? Magari cominciando da Un reietto delle isole di Conrad?
Se, poi, ad abbattere la statua di questo o quel figuro, che si arricchì grazie ad un sistema economico in larga parte fondato sul traffico di esseri umani, è qualche pingue occidentale che indossa scarpe e capi d’abbigliamento fabbricati in Bangladesh da qualche nuovo schiavo che il sistema capitalistico ha trovato il modo più comodo di non disallocare al fine di produrre al minimo costo di mercato, la cosa assume contorni grotteschi.
Un po’ come avviene per la statua della mamma del conte Catellani presa a calci da Fantozzi. Un atto pieno di «eroismo da tinello», come ho letto in giro.
Inaccettabile, inoltre, ogni pretesa distinzione fra la censura di opere artistiche e quella di opere celebrative, fondata com’è su un equivoco di sostanza. Esistono infatti infinite opere artistico-celebrative; non ultime le statue in questione. Istituiamo una commissione pubblica per stabilire se il loro valore artistico sia trascurabile rispetto a quello di altri prodotti artistico-celebrativi? Mi pare assurdità. Beati i tempi (anni ‘80) in cui un direttore d’orchestra di simpatie castriste prendeva Il viaggio a Reims di Rossini, composto per celebrare il più reazionario dei re (Carlo X re di Francia), e lo rimetteva in scena facendolo scoprire al mondo per come è letto ancora oggi: un trionfo d’internazionalismo pacifista. Queste trasformazioni si compiono con le armi dell’intelligenza e del gusto. Nel Regno Unito e in USA sono troppo poche e frammentarie le testimonianze storico-artistiche della tratta degli schiavi. Da noi vale altrettanto per il colonialismo italiano. Perché allora non reinterpretare questi luoghi artistico-celebrativi? Alle statue si aggiungono lapidi, da sempre. Cancellate del tutto quelle memorie artistico-celebrative e chi verrà dopo di noi avrà un luogo in meno per mediare e per conoscere. Cancellate i segni celebrativi accordati in passato a personalità complesse, sfaccettate, per taluni aspetti anche ributtanti, e avrete una porzione in meno di storia e di verità da interrogare.
Il pendio è talmente scivoloso che è stata abbattuta una statua di Gandhi, evidentemente non ritenuta abbastanza artistica o di valore paesaggistico. La cosa non mi sorprende. In quanto italiano, sono stato identificato da un passante in India (un fanatico induista) come amico di Gandhi e quindi nemico degli indù. Di questo passo non ci si ferma più. Ci sarà sempre una statua sgradita a qualcuno da abbattere. Fermiamoci in tempo perché la politica è davvero altra cosa.

lunedì 8 giugno 2020

L'Amore eroico e la Marsigliese

Sui capi biondi della figlia di Wotan e del nipote di Wälse un’eco lontana, molto probabilmente involontaria, di Marsigliese; la risoluzione, del resto, è piuttosto comune.
Il motivo è quello dell’Amore eroico.
L’aurora è sorta e Siegfried si prepara a nuove imprese («Zu neuen Taten», Die Götterdämmerung, Prologo).
L’eco francese si percepisce meglio nella ripresa del motivo, subito esposto dagli archi e accentuato nella ritmica.
Non ho trovato nulla sull’argomento, tranne un rapido accenno in rete.
È più marsigliese Verdi nella Sinfonia della Battaglia di Legnano. Ma l’opera (Siegfrieds Tod) fu concepita nello stesso anno rivoluzionario (1848) in cui il Nostro scriveva la propria.

Comunque, se l’eco giungesse alle orecchie di B&T sarebbero capaci d’interpretarla così: inequivocabile testimonianza dell’esistenza di un asse franco-tedesco schierato a nocumento della scuola napoletana.