mercoledì 26 aprile 2017

Singing in Exile


La visione, il suono, il riconoscimento
In viaggio fra due continenti

di Francesco Gala



                  
                   Sapore di dolcezza,
            coppa di letizia,
                                pane di vigore per le anime,
                                        amore estraneo ad ogni oscurità,
                              promessa senza reticenze.

                                                                 (Gregorio di Narek, Libro della Lamentazione, III;
                                         trad. it. di Boghos Levon Zekiyan)




Un lume che ondeggia nel buio e pare sul punto di estinguersi. Il giorno che rischiara la facciata di una chiesa. Uno steccato mosso dal vento che scuote il nido fra le foglie secche di un albero. Ma è tempo di germogli; la primavera è forse alle porte. Sono le prime sequenze del lungometraggio di Turi Finocchiaro e Nathalie Rossetti, Singing in Exile (2015). È qui, nella forza d'immagini cariche di valenza simbolica, che il genocidio armeno trova espressione di un vissuto che pare altrimenti inenarrabile. La tragedia del popolo sfugge alle leggi del racconto; ed è allora l'arte a ribadire la forza della propria verità, ancor più quando si trova in pericolo, nascosta, dimenticata, perduta e poi ritrovata. La verità o l'arte, è lo stesso.
«Perduto» è l'aggettivo odioso che accompagna la storia degli armeni, e laddove manca ciò che è stato distrutto soccorre l'evocazione. Come in Canto alla vita (2016), è la memoria ad interrogare il presente per edificare un futuro consapevole e a provocare nel cinema di Finocchiaro e Rossetti testimonianze di un amore autentico che affida allo spettatore una consegna attiva, operosa; siamo in una dimensione d'appartenenza nella quale chi guarda è porzione indispensabile, ragione profonda del messaggio. L'opera è, così, una parte di vita che si affida al prossimo perché la faccia propria, per davvero.
La scoperta della verità, talvolta, è fatta d'incontri, di doni che non hanno bisogno di essere cercati: bisogna ascoltare e poi «atterrarci sopra», sulla verità come si fa in musica aggiungendo la propria voce ad una nota a lungo tenuta (il bordone). «Il suono è lì, lo vedo», spiega ai propri allievi Aram Kerovpyan, protagonista del documentario insieme alla moglie Virginia: due musicisti che hanno consacrato la propria attività al canto liturgico tradizionale armeno attraverso il mezzo della trasmissione orale, seguendo un metodo basato sul principio dell'assimilazione mediante imitazione e ripetizione.
Il suono, dunque. «Meno lo cerchi, meglio è» raccomanda Aram. Nella chiesa armena di Parigi, accadde così anche a lui. La visione fu un riconoscimento: le mani del maestro cantore che guidava i fedeli danzavano gesti che riportarono Aram all'infanzia, alla sua Istanbul. Il ruolo (in francese, maître-chantre alla cui radice sta il latino cantor) è tanto antico quanto sfumati sono i significati e vasto l'orizzonte geografico in cui s'inscrive. Il maestro cantore, infatti, (yerazheshdabed in lingua armena) istruisce il coro come fa il chierico cantore di una chiesa o di una cappella; eppure il termine richiama il Meistersinger del medioevo tedesco, affine al troubadour poeta dell'amore. Se si volesse trovare una radice comune a parole diverse per sanare ambivalenze che sono in realtà assai rivelatrici del rapporto fra musica, poesia e liturgia si direbbe così: colui che canta e che celebra coi versi. Una definizione che scavalca i secoli.
In quello d'oro, il V d. C., il popolo armeno salutò la nascita del proprio alfabeto e della propria letteratura. E, da quel tempo, venne a definirsi anche un'autentica tradizione musicale liturgica grazie alla traduzione dei tropari in lingua armena e alla composizione di nuovi inni sacri: lo Charagan è il testo che ne raccoglie più di mille e trecento e che, assieme alla salmodia recitativa e melismatica, forma il corpus più vasto della liturgia musicale armena. Come ogni linguaggio, la musica si serve di segni. E sono ecfonetici (cioè accenti e annotazioni poste sopra il testo da cantare) quelli presenti nei testi liturgici delle tradizioni siriaca, armena e copta. Da un sistema così strutturato si è passati poi a quello fondato sui neumi, da secoli oggetto di trascrizioni e studi di teoria musicale perché un complesso d'indicazioni altamente elaborato è pienamente valido solo nel contesto di una tradizione viva ed oralmente trasmessa; unico metodo efficace per la preservazione di repertori destinati alla pratica rituale.
Già in origine, comune ai canti popolari degli antichi gusan era nella liturgia armena un elemento che a livello strutturale la avvicina a quelle occidentali, e cioè il sistema modale: modi, e quindi modelli di scale il cui profilo teorico si può far risalire sino all'antichità greca. I secoli, ancora una volta, si dilatano all'indietro. Sarà invece a partire dal XIV, in epoche di dominazione ottomana e persiana, che la musica popolare armena attraverserà un periodo di splendore nel quale gli ashugh sono acclamati autori-interpreti. E, coi suoi versi in armeno, georgiano e turco-azero, è l'ashugh Sayath Nova il trovatore più celebrato dell’intera area transcaucasica: una figura leggendaria, anche fonte d'ispirazione del capolavoro cinematografico di Paradžanov (Il colore del melograno, 1968).
Singing in Exile provoca tanto l'orizzonte temporale quanto quello spaziale. I luoghi della vicenda umana e storica che chiama a sé riecheggiano, infatti, in due continenti: l'Asia e l'Europa.
Come il suono, la visione è un riconoscimento. Rimanda ai luoghi, alle radici, alla memoria (anche a quella olfattiva sprigionata da un'arancia); presenze che rivivono nello spazio mediante un approccio fisico al fatto musicale. Il lavoro di Aram e Virginia consiste, infatti, nel ritrovare la voce naturale la cui emissione implica la partecipazione del corpo nella sua interezza. Il viaggio nella musica armena, attraverso un repertorio fragile e costantemente in pericolo, assume così anche i tratti di un itinerario che evidenzia l'intimità del rapporto tra uomo e voce; una scoperta che coinvolge in modo olistico chi ne prende parte. E sono, in Singing in Exile, anzitutto sguardi che si cercano, mani che trovano il suono cantato e ne saggiano la eco pure nella profondità di un'antica cisterna.
Se non si può smettere di soffrire - ci ricorda Aram - alla sofferenza bisogna dare suono. Ed è in un luogo altro, in Polonia, a Wroclaw, che quest'esigenza trova ascolto: un nuovo incontro, una nuova collaborazione. Sulle tracce del genocidio armeno, infatti, il Teatr Zar e il suo direttore Jarosław Fret ricercano lo sostanza inalterabile di una tradizione secolare allo scopo di farla propria e di conferirle, traducendola in gesto teatrale, una nuova identità. Il documentario stimola così interrogativi di portata assoluta, universale. «Fino a che punto si può assimilare qualcosa che non fa parte della propria cultura?». Qual è il rapporto ed il confine fra identità definita e varietà degli elementi che la compongono? E ancora: una tale immersione implica forse una trasformazione forzata o una falsificazione della propria identità? O ci sono altri mezzi per toccare i cosiddetti elementi di universalità senza abbandonare la propria individualità? La tradizione musicale armena, ad esempio, ha convissuto con quella curda e persiana, eppure si è preservata mantenendo caratteri propri. Allora, ciò che anzitutto si vorrebbe tramandare per sottrarla alla ferocia del tempo è un'«essenza immutabile», una peculiarità così autentica da sfuggire alle contaminazioni e alle metamorfosi.
Le risposte ad interrogativi che travalicano la dimensione artistica paiono suggerite dai luoghi nei quali si moltiplicano. I luoghi, appunto. E le identità che si sommano e riassumono a Venezia, da secoli ponte mirabile dal quale la cristianità occidentale ha guardato ad Oriente, e viceversa; un luogo che rappresenta la specificità della sintesi e che accoglie in laguna, sulla piccola isola di San Lazzaro degli Armeni, uno dei più importanti centri della chiesa della diaspora: il Monastero della Congregazione Mechitarista. E, del resto, lo Stato che oggi identifichiamo con l'Armenia appartiene al continente asiatico nella stessa misura in cui si associa alle nazioni europee in ragione di considerazioni storiche e culturali che si possono riassumere in una locuzione dai confini incerti: Eurasia.
«È chiaro che l’identità [ταὐτότης] è una unità di essere o di una molteplicità di cose; oppure di una sola cosa, considerata, però, come una molteplicità», afferma Aristotele nella Metafisica. Anche fra gli sguardi concentrati dei cantori che si cercano complici - oppure serrano le palpebre per sentirsi tutt'uno con la musica - scopriamo, ascoltando l'accompagnamento grave del loro canto, un'eco del mantra più sacro e rappresentativo dell'induismo, considerato suono primigenio ed eterno: Oṃ, sillaba delle Upaniṣad vediche. Come senza parola non c'è inno e senza respiro non c'è canto liturgico, entrambi - parola e respiro - trovano là, in India, la propria essenzialità in un motto da cui procede una conoscenza sacra. E, dunque, il nostro itinerario d'immaginazione estende ancor più ad Oriente la dimensione spaziale. Una volta di più, la questione dell'identità rimanda a quella del riconoscimento, quando ci porta laddove non pensavamo di andare. Perché riconoscersi è anche essere diversi, altri, altrove.
Il suono lungo, il bordone, è come una risonanza primigenia che si propone all'orecchio come fosse un magma e che poi, quasi per magia, ci accorda col Tempo. Certo, la musica modale, per via del fatto che sostanzialmente elude il centro tonale, è estremamente spaziale, estesa nella dimensione dell'ambiente in cui si produce un canto che cerca le mura di pietra per rifrarsi e riprodursi. Ed è capace di farci abitare luoghi diversi, popolati da immagini differenti che permettono alle evocazioni di liberarsi.
Il suono grave, continuo, di accompagnamento, sembra sorgere da un profondo abisso nel fiume eterno dell'essere e poi scorrere come fa sul Reno il bordone più celebre del repertorio classico occidentale: il Preludio del Rheingold di Wagner. Non sorprende il fatto che lo strumento principe della tradizione musicale armena, il duduk, sia così prossimo all'umore e alla lingua del popolo armeno, producendo un suono ipnotico e in grado di porci in relazione col trascendente.
«Il problema con le storie dei sopravvissuti al genocidio è che cominciano a essere ripetitive», rivela lo scrittore Altug Yilmaz con una frase che ferisce e invita alla riflessione. Ogni storia è certo una grande tragedia in sé: lo sono quelle di martiri come il giornalista Hrant Dink. A un certo punto, però, il numero, la calcolabilità - se non dei morti almeno quello delle testimonianze - rende uniformante e quindi riduttivo ciò che si dovrebbe percepire dal versante umano. Per sentirlo davvero, sotto pelle, è allora necessaria l'opera d'arte. Dobbiamo cantare, dobbiamo vedere, per percorrere la storia. La realtà è diventata la sua rappresentazione ed il Teatr Zar dà corpo nuovo alla musica; anche alla tragedia di padre Komitas, figura centrale per la storia della preservazione del repertorio armeno e vittima, a seguito del genocidio, di gravi problemi psichiatrici.
In Anatolia, le pietre di Van e di Muş sono state erose dalla ferocia e dalla superstizione con ben maggiore rapidità che dal tempo. Restano vivi i segni di una volontà devastatrice che sconvolge per la propria determinazione. Qui ascoltiamo lingue diverse, anche quelle che fra loro non s'intendono. E poi, oppure prima, la musica. Raccomanda Virginia: alcune note sono importanti, altre meno, e sta al cantore metterle nel giusto valore. Proprio in Singing in Exile la musica è impiegata con affettuosa sensibilità e precisione mercuriale laddove si manifesta in primo piano o solamente s'intravede, oppure tace del tutto per lasciare spazio al sonoro.
Il suo è il canto dei fantasmi in Anatolia. Un canto riparativo, di guarigione.



domenica 9 aprile 2017

Sutherland e Merritt in "Anna Bolena"

La robaccia propinata dal sovrintendente e dal direttore artistico (in absentia) scaligeri non può essere argomento di riflessione critica: basta la cronaca. È uno sgarbo al compositore prima ancora che al pubblico: una produzione di bassa provincia europea che richiama il Macbeth del 2013.
Per sentirsi degni di un autore come Donizetti bisogna, invece, volare alto, specie quando il titolo è tassello imprescindibile nella storia della tragedia romantica. Voglio ricordare un ascolto forse un po' trascurato rispetto ad altri (Chicago, 1985). 
Anna Bolena fu un ruolo avvicinato dalla Stupenda un poco per volta e, anche se affrontato soltanto in carriera ormai avanzata, restituito con sensibilità compassata e dolente tanto prossima all'intima e sofferta rassegnazione del personaggio da restare ugualmente memorabile. Si tratta di una considerazione che vale certamente per il duetto con Percy; da ascoltare con attenzione cosa diventa sulle labbra della Sutherland quel «Ah, mai più s'è ver che m'ami / non parlar con me d'amor.» 
L'evoluzione vocale di Rubini che intorno agli anni '30 conquistava con la seconda maniera i territori espressivi di Donizetti è sintetizzata invece nei modi del canto di Merritt, qui nel suo periodo d'oro. Già dal recitativo ecco un fraseggio benissimo animato («la fronte mia solcata vedi dal duolo») per definire il profilo di un personaggio sì romantico nei voli alati e trasognati, ma in pari misura scaldato da un'impulsività tutta byroniana, quella che il compositore (come il primo interprete) sublimano nelle accensioni e nelle vette raggiunte per tramite di quei 'trampolini' sui quali la voce si lancia all'acuto e al sopracuto.
La forbice di Bonynge è, questa sì, intelligente e strategica perché fedele ai rapporti di forza fra forme chiuse. E anche se la pronuncia dei cantanti non è immacolata, l'italianità degli accenti e della situazione drammatica è restituita con una verità che scalda il cuore.