mercoledì 8 dicembre 2021

“Macbeth” alla Scala





Devo rincorrere appetiti più sanguinari di quelli della coppia scozzese. Ma lasciatemi dire una volta di più l’amore che sento per “Macbeth” e anche quello per l’ultimo occhio di bue che nel ‘47 illumina l’eroe tragico mentre «alzandosi a stento da terra» declama l’acquisita consapevolezza delle proprie colpe. Ieri sera, come alla generale, «Mal per me che m’affidai» mi è parsa, nel contesto, indispensabile. 

Abbiamo proprio bisogno di guardare l’agonia del villain Salsi. Non si potrebbe congedare il pubblico con un “Pietà, rispetto, onore” che il baritono parmigiano affronta forte di un mezzo generoso per natura e amministrato in virtù di quella. 

Mi continuano a disturbare i suoni grossi tirati “dal basso”, le prese di fiato (due perfino in «che nel cielo ti chiama o nell’inferno») a spezzare una linea di canto già ben poco morbida, misurata sul forte e sul piano che sconfina nel parlante. Quando infatti la dinamica sfuma, non mancano irrigidimenti e nasalità. Poi certo Salsi sopperisce con un generosissimo gioco scenico. 

Lo spettacolo non è concepito per chi lo guardi dalle gallerie e alla prova mi era parso che il finale della versione di Parigi mettesse alle strette il regista: un tableau sin troppo generico con la riapparizione di grate fatte per essere aperte da un’unanimità che non sembrava attendere altro se un sauvetage alla “Fidelio”.  Invece, dalla tv, si vede che la metropoli è avvolta dalle fiamme. È una vittoria di Pirro, va bene. Ma il regista non procede oltre.

Il “Macbeth” del ‘65 è invece gravido di malumori pessimistici almeno quanto lo è il dialogo shakespeariano Malcolm/Macduff (atto 4, scena 3), perché anche in Verdi risalta la riflessione intorno alla condizione dell’uomo incapace di misurarsi vittoriosamente col male.

E dire che il versante più schiettamente politico della vicenda Livermore sembra accarezzarlo più volte mostrando un podio da conferenze; anche lì, però, mi pare che lo spunto non venga approfondito, restando tale. 

Alla fine si consegna l’impressione di uno spettacolo abbozzato nelle intenzioni e poi edulcorato nella realizzazione. E forse non si potrebbe chiedere altrimenti per via delle premure imposte dalla serata tv. 

Alla quale si adatta l’immagine di un gangster freddato dall’uccisore che può - come nei più applauditi film di Tarantino - fumarsi indifferente una sigaretta proprio accanto al morente.

domenica 28 novembre 2021

Ricordando “Macbeth”



È emersa dalla scatola dei ricordi cercando tutt’altro. Era questo il divertissement inventato da Pippa Bacca e distribuito a chi stava in coda per la prima del Sant’Ambrogio di ventiquattro anni fa. È stata quella per me l’ultima inaugurazione vissuta da spettatore; poi cominciò il lavoro. Scopro che hanno caricato su YouTube l’audio Rai di quella serata e l’ho ascoltato per la prima volta facendo il confronto coi ricordi dal vivo. 

Come sempre accade, la trasmissione (audio o video che sia) livella i volumi e chi non c’era deve fare un piccolo sforzo d’immaginazione. La produzione fu complessivamente felice e salutata con molto entusiasmo; ne vidi altre due recite. Una di quelle fu anche trasmessa in diretta tv su Rai1, con esito devastante per i dati dell’Auditel (appena 500.000 telespettatori) e annesse polemiche sulla cancellazione del TG1 delle 20. Ma fu quello, chissà, un evento apripista per chi sognava di rivedere le opere in tv a orari più umani di quelli ai quali venivano convocati nella notte i loggionisti per rispondere agli appelli. 

Fu un appuntamento televisivo favorito da un’epoca in cui il direttore musicale della Scala era ormai compiutamente avviato a investirsi della carica di ministro plenipotenziario della cultura musicale. Poi come andò a finire lo sappiamo tutti; come sappiamo, del resto, che quello dei ministri è lavoro a tempo determinato. 

La quantità di suono che usciva dalla buca dell’orchestra era quel 7 dicembre assai maggiore di quanto lasci intuire la registrazione, ma minore rispetto a quella nuovamente suscitata durante le repliche dalla bacchetta di Muti, forte di un successo personale che gli fece abbandonare l’approccio prudenziale adottato alla première. Era d’impatto il Tutti dello “Schiudi inferno”; insomma, tremavano le sedie. Mi sembra di ricordare che, anni prima, per la registrazione a Londra nell’81 Muti avesse preteso di triplicare i cantori del coro. 

Il suo resta un “Macbeth” di eloquenza oratoriale, specie rispetto a quelli in cui si apprezza una bruciante teatralità. Complice alla Scala la regia di Vick (molto suggestiva la simbologia adottata per le apparizioni dell’atto terzo), quel “Macbeth” sembrava mettere in valore la cifra mitica e anzi atemporale della tragedia: quella della morte della metafisica, che è nodo essenziale del capolavoro shakespeariano. 

Non mancava però alla lettura di Muti una narratività piuttosto spiccata (massime se paragonata a quella dell’incisione in studio) e certi passi di compiaciuta magniloquenza, specialmente nel finale ultimo, dotavano l’insieme di un effetto appropriato: erano vita, e cioè «vento e suono che nulla dinota». 

L’eredità di Abbado e Strehler stava e sta altrove, in un orizzonte diversissimo e lontano. Ma qui entreremmo in un territorio sconfinato: quello delle complessità proprie del capolavoro verdiano, alla cui devozione ho aggiunto un contributo di tesi all’università. 

Naturalmente non prendo qui neppure in considerazione l’ultimo “Macbeth” della Scala (Gergiev/Corsetti): una produzione indegna dell’autore, del titolo e del luogo in cui si dava. Fu sommersa dai fischi e oggetto di reprimende perfino dalle penne più codine della critica italiana avvoltolata nel proprio associazionismo. 

Torno al ‘97. Molto guardinga alla prima, la Guleghina fu più comoda alle repliche. Certo, come all’inaugurazione, non mancarono le incrinature del mezzo (già nella cavatina) che la portarono poi negli anni ad un declino tutto sommato precoce. 

Alagna (Macduff) pretese e ottenne un “aiuto sonoro” e l’effetto un poco si avverte anche alla radio: è quello di un riverbero nei passaggi fra note brevi e lunghe. 

Bruson, all’epoca ultrasessantenne, è sempre stato il Macbeth più vicino al mio modo d’intendere il personaggio. Pur amando immensamente il Macbeth di Cappuccilli, infatti, individuo specialmente in Bruson l’uomo che ha perduto la grazia. Di più: l’uomo divenuto incapace di leggere i segni del reale, come accade a Otello e a Falstaff (e che Falstaff è quello di Bruson!). Un tristo votato al male; così Verdi definiva il Pancione della commedia. 

Fraseggiatore sensibilissimo, Bruson ha incarnato - con piena maturità e saldezza di mezzi nelle recite di Berlino dirette da Sinopoli - il Macbeth più lontano da accenti tribunizi e postura gigionesca. È infatti un re d’introversione dolente. Un re che non dorme mai perché i suoi pensieri eccedono le incombenze abbandonandolo in un abisso che scavalca i secoli. È un uomo trapassato a se stesso che canta “Pietà, rispetto, amore” come chi pianga ben più di una perdita personale, foss’anche la propria: è la sua una sconfitta immateriale, assoluta. 

Picologicamente scandagliato in ogni piega, il Macbeth di Bruson è tale servendosi di mezzi squisitamente musicali; e dire che l’attore era ugualmente superlativo. Sono i mezzi di chi, sì, possiede timbro bello per natura ma ha pure frequentato e con proprietà il belcanto, con emissione piena e omogenea. Sa - o sembra sapere, il che è la stessa cosa - che nella tragedia dell’uomo Macbeth sono in gioco tali immensità da non permettere facili escamotage espressivi e ingrossamenti boulevardeschi. 

Lo ripenso in altri ruoli verdiani e rifletto su questo. Come la difformità fisica di Rigoletto non inibisce il patetico e il terribile, così in “Falstaff” la comicità del Cavaliere lo fa delicato amalgama di presunzione, spensieratezza e umor nero. E così Macbeth, uomo nato per essere gabbato, è però aristocratico e misurato proprio nel lucido squilibrio che gli fa sperimentare il reale quale conflitto irrisolvibile, sottratto alla possibilità di render conto della legge morale. 

Al termine verrebbe quasi da abbracciarlo questo re indomito e sanguinario perché, lo abbiamo compreso, la sua tragedia è anche la nostra.

venerdì 5 novembre 2021

“La Calisto” alla Scala




Con "La Calisto" fu amore al primo ascolto. Anzi, alla prima visione perché la produzione era quella ormai storica di Wernicke/Jacobs alla Monnaie di Bruxelles. Introdussi l'opera per i telespettatori di Classica e feci del capolavoro di Cavalli l’oggetto di alcuni appuntamenti dei Giovedì Musicali e del (defunto?) Corriere Musicale; più di recente ampi cenni per Palinsesto. La voglia di far diventar "mio" questo titolo mi prese sin da subito e non escludo certo che, pur riconoscendone ancora e sempre più la grandezza musicale e letteraria, buona parte di quella primissima suggestione fu sprigionata dall'amore per la città più bella del mondo: Venezia, dotta e gaudente, nella quale tante volte mi sono fantasticato di aver vissuto, chissà, in una vita precedente. Del resto, conservo con maniacale attenzione (manco fosse un incunabolo!) la mia prima guida fotografica della Serenissima, consumata dal dorso alla cerniera a furia di guardare le immagini di Palazzo Ducale e di San Rocco. E che piacere l'immaginarsi nei panni di uno di quei facoltosi mercanti che sedettero al Sant'Apollinare per le prime recite della "Calisto". La peste era passata da vent'anni e da altrettanti la cupola della Salute si profilava all'imbocco del canale. Furono pochi gli spettatori del nuovo titolo, molti meno di quelli che, pur esigui nel numero, accoglie in queste sere la Scala. Impossibile perciò scandalizzarsi se si ricordano la scarsa fama del titolo e le giuste paure che porta con sé la pandemia, qui sì, ancora in atto. I biglietti a Venezia erano a quel tempo molto molto dispendiosi, e troppo oggi lo sono pure a Milano; stigmatizzano la scarsa affluenza, allora, soltanto coloro che si accomodano gratis nei posti invenduti della platea. 

Alcune affinità capaci di scavalcare i secoli, insomma, agevolano il piacere di essere qui stasera, paganti e scampati alla falce della peste (per ora). 

Sono molto curioso di ascoltare la lettura di Rousset e di capire come il gigantismo di McVicar si accordi con le agili strutture di un titolo che tanto deve alla commedia dell'arte. 

Mi siedo, insomma, aspettando due passi fra i molti che sento profondamente miei. Anzitutto il distico per me più sublime nel rigogliosissimo testo poetico di Faustini: sono versi affidati a Endimione. Cavalli veste il primo con preziosità madrigalesche e del secondo fa una rassegnata, consolante epigrafe in musica che echeggia la più romantica e tristaniana delle ferite: «e, stringendo i tuoi lacci in dolci inganni, | fa' che morto in tal guisa io viva gl'anni.»

L'altro passo del cuore è per me - forse meno sorprendentemente - il duo dell'ascensione al cielo. Quando Cavalli abbracciava Giove e Calisto fra le deliquescenze e le vertigini dell'erotismo sacro, all'assalto del Serafino su Santa Teresa mancavano ancora pochissimi colpi di scalpello. A Roma come a Venezia, con buona pace dei controriformisti, l'estasi mistica era proprio quella che farà dire a Renan: «je connais bien des femmes qui l'ont éprouvée».

Stasera allora, ninfa Calisto, abbandona l’Orsa e metamorfosati qui alla Scala un po’ anche per me.

lunedì 18 ottobre 2021

Edita Gruberova (1946-2021)



 

Se n’è andato il più grande soprano di coloratura vivente, nonché uno dei più grandi del secolo trascorso, forte di una tecnica semplicemente strabiliante che ha consentito alla cantante di farsi ammirare in diverse occasioni pure nei nostri due decenni. 

Una regina del canto, a pieno titolo. 

Ho consumato dagli anni ‘90 le puntine dei vinili, sfinito il laser del lettore CD e lisciato molte suole delle scarpe per poterla seguire dal vivo. E sono stati sempre appuntamenti destinati a durare nella memoria. 

L’arte dei grandi non muore mai, è lapalissiano. Ma con quanta nostalgia stasera passo in rassegna titoli e recital della Gruberova! E sollecito nella memoria uditiva un’emozione replicata innumerevoli volte con lei, sempre dal vivo: la libera risonanza della voce che consentiva alla Gruberova di attaccare un suono piccolo piccolo e di dargli corpo in un istante fino a farlo deflagrare in sala. 

L’arte del canto, con lei, era fatta di assortimenti, incanti, esaltazioni.



giovedì 23 settembre 2021

“Il buco”


È proprio bello il nuovo film di Frammartino! In rete se ne trovano pochi fotogrammi e come sempre accade non sono quelli più pregnanti. Ma è giusto così perché lo spettacolo è nelle sale. 

Nel “Buco” sono preziosi anzitutto i brevi istanti di sequenza in cui un frammento di luce rossastra prodotto da lampade a gas lotta per trattenersi sullo schermo già tutto a nero buio. E dopo, in controcanto, ecco pressoché impercettibile il pulsare della vena sulla mano di un vecchio disteso a letto in muta agonia. Come il bagliore langue nell’abisso di Bifurto così fa il tenue sollevarsi del petto che attesta ancora la sopravvivenza, l’intrepido perdurare della luce negli spazi silenziosi della tenebra, intemerata essenza di cui è fatto questo film che è cinema allo stato purissimo. 

La luce crepitante è presupposto stesso dell’essere cinema, certo. Ma c’è di più. Perché il chiarore è conoscenza che sonda caparbiamente il mistero assoluto della sofferenza e della morte; qui Severino ci ricorderebbe che θαῦμα non si traduce con “meraviglia” ma con “angosciato terrore”. L’interrogativo di Frammartino è di nuovo universale, come quelli che percorrono “Le quattro volte” (da quel lungometraggio sono trascorsi più di dieci anni), e sempre lui si trova in quel tratto di Magna Grecia sospesa nel tempo, qui appena turbata dai vagiti di una modernità da schermo tv. 

Mi è tornato in mente ieri sera un altro film, diversissimo da questo ma pure tratto da una storia vera: “Sanctum” che vidi in aereo andando in Indonesia per le immersioni subacquee. Non proprio una visione rassicurante anche tenuto conto del fatto che fra i sogni capaci di farmi svegliare di soprassalto c’è quello che in cui sono stretto fra pareti e anfratti troppo angusti per provarmi con tutto il corpo a passare. 

Là, nell’avventuroso film di Grierson, la sfida è quella di un’estrema lotta per la vita, dove il fiume sacro «scorre per caverne vietate all’uomo, / a un mare senza sole»; è nientemeno che il Coleridge di “Kubla Khan”. Qui, in Frammartino, c’è l’abisso dell’inconoscibile. Un cinema che non prescrive, insegna. 

Per confermarci nelle impressioni favorevoli di chi ha applaudito in sala il regista presente alla proiezione è stato utile il commento liquidatorio di un signore che mi stava seduto dietro, dal forte accento lombardo: tolto il piacere della scalata al Pirellone e dello champagne delle gemelle Kessler «è un documentario sul parco del Pollino». Esternazione rivelatrice del fatto che si possa, guardando questo film, accogliere quali elementi narrativi solo quelli veicolati dalla parola. E sono proprio le verticalità e le paillettes a sopravvivere oggi per bottegai e straccivendoli quale retaggio provinciale di chi non ha mai visto nulla né al cinema né in giro per il mondo.

sabato 26 giugno 2021

“Le nozze di Figaro” alla Scala




Per me è un ritorno a casa. Basta questo a suggerire quanta felicità mi procuri oggi, dopo troppo tempo, entrare in un luogo fatto di sogni e ricordi, rigogliosi e indelebili. Ma c’è di più. La rentrée avviene con “Le nozze di Figaro”, titolo che dopo la folgorazione viennese con la bacchetta di Abbado mi provocò alla Scala nella metà degli anni ‘90 un’esperienza prossima al fanatismo; era l’opera giusta in un momento speciale di crescita intellettuale ed emotiva. Ne vidi ben cinque recite, di cui due godute bigiando ogni impegno scolastico perché la fila per conquistare il posto in piedi occupava tutta la giornata. Poi, nei giorni fra l’una e l’altra replica, ascoltavo l’opera, partitura alla mano, imponendomi di farlo nelle ore in cui è ambientato ciascun atto. Durante quasi un mese, per me e per un caro compagno di avventure musicali, non ci fu letteralmente altro che “Le nozze di Figaro”. Una salutare ossessione. Alla Scala lo spettacolo era ed è sempre lo stesso: perfetto e insostituibile. Per una volta il cast era stato scelto con premura, anche nei ruoli minori che nelle “Nozze” misurano in perfezione tanto quanto gli altri. Il versante sociale marcato da Strehler era assorbito dall’interpretazione di Muti in un afflato compiutamente umanistico. Il diverso slancio etico - quello del direttore e quello del regista - non soffocava affatto ricchezza e fragilità sentimentale in nome delle idee. Mi pareva, anzi, che proprio in virtù di quella necessaria frizione ogni palpito, titubanza, rilievo emozionale si trovasse scaldato da un’affezione lucida e al contempo commuovente. Si assisteva, insomma, a una conciliazione fra ragione e sentimento, vero veicolo di felicità. Una volta di più, quella mozartiana era la luce che illumina chi sa comprendere e quindi perdonare. Opera fra le più ardue per gli interpreti, certo. Se n’era accorto già il recensore di quello che fu l’ultimo allestimento ottocentesco delle “Nozze” in Italia (Torino, 1826): «senza un perfettissimo accordo tra chi canta, chi suona, e chi ascolta, non si può estimar quanto vale». Sono curioso di assistere alla lettura di Harding che apprezzo molto e che ha già diretto qui un “Falstaff” in delicato equilibrio fra respiro lirico e rilievo citazionista. Saggio e feroce è il congedo sorridente del Pancione. Universale compassione è quella cui dispongono “Le nozze di Figaro”, invito a contemplare il riflesso di ciascuno di noi nell’altro da sé. Anche nell’opera di Verdi l’unità di tempo è diurna; si va poco dopo la mezzanotte del nuovo dì. “La verità in un sol giorno” potrebbe essere l’ideale sottotitolo che apparenta i due capolavori. La verità. La cercavo anch’io nell’arco di un’intera giornata per farla aderire al presente e finivo, poi, per scoprirmi adeso ad essa. Fatelo anche voi; il tempo serrato della recita non basta. La verità, in quell’altro modo, vi apparirà così contaminata col reale da essere in grado di sostituirlo.

venerdì 19 marzo 2021

James Levine (1943-2021)

 

Sarebbe sufficiente un’incisione come Giovanna d'Arco per fare di James Levine ciò che è stato: un direttore gigantesco. E per nostra fortuna lo sappiamo alla stessa altezza in tantissime altre interpretazioni, spesso snobbate dai parvenu.
Al loro creatore, invece, non diremo mai grazie abbastanza.
Vederlo dirigere dal vivo, credetemi, significava avere la certezza che sarebbe potuta accadere qualunque cosa, pure il crollo delle assi del palcoscenico: la serata sarebbe stata tratta in salvo. 
 
 

giovedì 4 marzo 2021

I quasi primi 100 anni di storia del cinema

Scriveva d’Ormesson che i secoli hanno sempre un poco più o un poco meno di cento anni. Se allarghiamo di un breve tratto il primo secolo in cui raccontiamo la storia del cinema, si può considerare che vada dalla rivendicazione superautoriale di David Wark Griffith (1915) a oggi, 4 marzo 2021. L’opera di Jean-Luc Godard, infatti, è quella del solo regista ancora (per poco) in attività senza considerare la quale non sarebbe neppure possibile abbozzare la storia del cinema nel suo primo secolo di vita. 

Buona fortuna a noi tutti per i prossimi cento anni a venire, o giù di lì. 

https://www.ultimarazzia.it/jean-luc-godard-si-ritira-dal-cinema/?fbclid=IwAR1xEmqjB4zvfvU74E8XS0avyO80M3KpQmnuBa4mHp1-xch6nKp_-UZ1Gcc

Palcoscenico e identità sessuali

Qui soltanto per ricordare che, sul palcoscenico, le identità sessuali fluttuanti oggi facilmente ascrivibili al genere glam rock datano almeno al 1713, anno di nascita di Pierre de Jélyotte, primo interprete della Platée di Rameau.

Nelle immagini anche un suo erede, Paul Agnew, nel ruolo eponimo.



domenica 28 febbraio 2021

Riguardando "Peter Ibbetson"

 



 

 

 
 
Sequenze memorabili di un film che è incoercibile ai dettami della Hollywood classica. Eppure fu possibile soltanto là, in un contesto produttivo di altissima fattura e di estetiche innamorate delle virtù onirica del cinema: Peter Ibbetson di Henry Hathaway (1935).
È un capolavoro al quale torno con una certa regolarità, sempre con l'emozione della prima volta. L'ho fatto anche ieri sera. La visita alla pinacoteca è il fortuito diversivo che indirizza il protagonista, Gogo/Peter, verso il luogo della sua infanzia. La sublime colonna sonora di Ernst Toch qui ci depista; lo fa con la freschezza irrisoria di una marcetta affidata ai legni. E la mdp ci porta nella sala della pittura di paesaggio con movimento da destra a sinistra fino a una marina "de Turner". Poi corre a destra: Gary Cooper siede pensieroso e guarda il dipinto. Stacco sul quadro mentre la musica s'intorbida in languori romantici. «Sì. E vedo il mare infrangersi sulla costa e spumeggiare contro le rocce.» A questo punto ecco la prima soggettiva del film. Appartiene al dipinto stesso che guarda due visitatori mentre la musica è di nuovo la marcetta di prima («Ehi! guarda come assomiglia a quell'insenatura del nostro paese!»). È questa una nettissima frattura filmica e semantica, che si compie in un passaggio decisivo della pellicola. Da dietro, Cooper si alza e muove verso destra mentre la mdp lo segue; ma la destra è diventata la sinistra di prima, perché guardiamo ora proprio dalla parte del dipinto. Spalle alla mdp e sguardo avanti, siamo passati in un batter d'occhio oltre lo specchio: quello della finzione, della riproduzione artistica, del sogno e delle sue virtù telepatiche nel dialogo col reale. Da qui tutto cambia ed è possibile ad Hathaway giocare anche con citazioni e rimandi interni di rilievo anzitutto figurativo. Se accanto a Turner, infatti, sta appeso un dipinto di Fragonard, ecco, non manca molto prima che della sua celebre altalena si materializzi sullo schermo la mimesi filmica in bianco e nero.

martedì 19 gennaio 2021

"Linda di Chamounix" da Firenze


È un gioiello di vaporosità e finezze la Linda. Io la amo tantissimo, per nulla trovandomi a disagio difronte a certe ingenuità feuilletoniste. Sono proprio quelli gli aspetti che mi divertono e commuovono maggiormente, insieme alle accensioni drammatiche tutte memorabili. Tra i miei sogni impossibili c’è quello di usare la macchina del tempo per prendere parte al trionfo viennese di porta Carinzia. E pazienza se qualche mese più tardi i parigini storsero il naso rimpiangendo l’originale di d’Ennery. Per fortuna l’ho ascoltata più volte a teatro, anche con esiti festosi come a Zurigo e a Milano. Ancora non mi è successo, però, di vederla precedere dalla sua Sinfonia. Chissà poi perché. Si va di fretta e quest’opera è corposa davvero. Nel link potete ascoltare una Pratt sensazionale l'altra sera alla scena della pazzia, con taglio riaperto; carico ulteriore su un atto che è vero tour de force per il soprano. Ma la Pratt è artista a tutto tondo, incisiva tanto sulla corda sentimentale quanto su quella leggera e poi drammatica. Infine, nel guardarla, potreste forse immaginare figura più adatta di questa a impersonare la ragazza cresciuta alle pendici del Monte Bianco e in cerca di miglior sorte?