martedì 26 gennaio 2016

The Revenant




È sbagliato definire The Revenant il remake di Man in the Wilderness (Sarafian, 1971); identica è la fonte d'ispirazione (in modo parziale, la vita del cacciatore di pelli Hugh Glass) ma gli assetti portanti della sceneggiatura sono troppo diversi perché si possa parlare di rifacimento. Nel film del regista di L'uomo che amò Gatta Danzante, infatti, non esiste alcun antagonista paragonabile al personaggio di John Fitzgerald, ma solo una parte - non troppo risolta - affidata a quella specie di capitano Achab (John Huston, già regista del film tratto dal capolavoro di Melville) che è Henry, animato da una sorta di odio-amore per il redivivo ed impegnato a far trasportare agli uomini una pesante imbarcazione attraverso le montagne, in stile Fitzcarraldo
Al protagonista del film di Serafian (Zachary Bass) - bellissime le soggettive 'sporcate' - nessuno uccide il figlio: è un bambino bianco che attende a casa il padre dove questi si dirige per raggiungerlo al termine della pellicola, seguito dal capitano e dai membri di una spedizione che è anzitutto esplorativa, come dichiarato in una tirata dal vecchio cineasta. Il dio che governa il destino degli uomini è solo quello cristiano dal momento la spiritualità dei nativi - cui sono riservate alcune sequenze (la pietà verso il morente-redivivo, la cerimonia nella tenda e le ultime parole del capo tribù) - è assimilata a quella che i bianchi hanno smarrito, spiegata tanto attraverso i flashback quanto nello spirito panteistico che anima il film e che, attraverso la lettura della Bibbia, entra a far parte del sentire di Bass. Infine, nessuna ragazza rapita dai francesi, nessun fiume da guadare, niente soldi da guadagnare extra o da rubare, niente caccia alle pelli, ma una la donna che partorisce accovacciata e, spiata dal protagonista, nuovamente gli ricorda che ha un figlio ad attenderlo a casa.  
In The Revenant, invece, sin dal principio, la scelta di dividere la figura di Hugh Glass tra il mondo dei bianchi e quello dei Pawnee grazie alla presenza del figlio adolescente, imposta il personaggio e la materia in maniera completamente differente; si direbbe quasi che il film cominci dove termina Balla coi lupi. Se dal rapporto ad alto rischio tra il padre di Hawk ed il mondo dei bianchi muove insomma la vicenda, le sequenze oniriche con le quali si apre il film sono un affondo nel trauma del protagonista che serve non ancora a chiarire l'accaduto (cioè l'attacco al villaggio in cui egli ha perso la sposa) ma a fare di lui un outsider: bianco e Pawnee solo a metà.
E sono proprio questi squarci onirici a tracciare, nel corso dell'avventura del redivivo, un percorso di epifania e rinascita spirituale che passa attraverso il dolore della carne e dell'anima; Glass, già morto, vive nuovamente solo per morire al termine di un viaggio che culmina con una rivelazione (in un certo senso, l'itinerario rispecchia quello intrapreso da William Blake in Dead Man). Non dimentichiamo che, presso i nativi americani, il dono della conoscenza giunge agli individui dotati di poteri spirituali attraverso visioni e sogni. Nello snodo centrale di questo percorso sembra proprio innestarsi il passaggio tra le due culture che convivono in Glass. È la sequenza che mostra il trapper tra le rovine di una chiesa affrescata (in primo piano anche il corpo capovolto del martire San Pietro); immagini che ricordano molto quelle della distruzione della chiesa di Vladimir in Andrej Rublëv e che si chiudono con l'abbraccio al figlio-albero, ricongiuntosi come forma vivente all'elemento naturale cui appartengono tutte le cose. Qui in Iñárritu, come là in Tarkovskij, ecco una tappa fondamentale nel cammino spirituale del protagonista, ora a metà strada tra retaggio cristiano e spiritualità dei Pawnee; il presentimento onirico di un abbraccio che è anche abbandono alla volontà di chi regge l'universo e il destino degli uomini. Si tratta, dunque, del presupposto per la conclusione del film, che è ben studiata.  


L'assalto dell'orso e le ferite mortali inferte a Glass sono, insomma, l'innesco all'avventura del redivivo e primo passo nel viaggio attraverso la propria essenza elementare; quella che, infine, sottrae a Glass, che la consacra allo Spirito, anche l'unica cosa che lo tiene morto in vita: la vendetta contro Fitzgerald. Redivive, insomma, per essere reso partecipe di una rivelazione che, una volta appresa, non deve far altro che consegnare allo sguardo in camera negli ultimi fotogrammi; condividerla con lo spettatore per invitarlo a prenderne parte (laddove la tigre di Pi non si voltava verso di noi), pronto ad esalare l'ultimo respiro, gli occhi persi nel mistero della morte, immagine della sposa defunta (anche Il gladiatore di Scott, ma senza alcun altrove metafisico che non siano gli alberi del bosco).  
L'illuminazione che coglie Glass sulla riva del fiume, interrotto dal tempestivo e visionario sopraggiungere del capo tribù e di sua figlia, lo sottrae alla dimensione morale per fargli guadagnare definitivamente quella primigenia, elementare. La carne martoriata di Glass si è fatta ormai tutt'uno con gli elementi di natura, perché ne è stata attraversata; sia la polpa di un pesce catturato a mani nude, il letto del fiume che è il suo habitat, il midollo scavato in un osso, un licheno strappato alla terra; la terra stessa che ha ricoperto il suo corpo, la neve che lo ha ghiacciato, un destino inafferrabile che moribondo lo ha tenuto in vita. È la rivelazione della circolarità di cielo e terra propria della spiritualità dei nativi americani, sintetizzata nel simbolo del cerchio inciso sulla borraccia di Hawk. 
Glass muore cento volte e cento volte rinasce, anche dalle viscere di un cavallo che l'inquadratura dall'alto rende prossimo all'iconografia rupestre. Ma la mdp di Iñárritu continua ad appartenere ai corpi che pedina e agli ambienti che circoscrive col proprio sguardo. Lo fa nella stessa misura in cui essi entrano a far parte di lei e di lei si servono per imporsi nell'immagine; è il genere avventuroso che distingue The Revenant con la sua spettacolarità e l'emozionante virtuosismo del colossal d'autore. 
Di Caprio pare essere assurto qui, ormai spogliatosi di quella attoriale, alla dimensione di puro dispositivo filmico: corpo che striscia, reso tutt'uno col suolo, muto dai gemiti e dalle febbri nelle scosse di una materia che soffre e combatte. E impeccabile è l'impiego delle musiche di Sakamaoto e Alva Noto quando dai rarefatti climi sonori il violoncello ci scalda all'arrivo a Fort Kiowa. 



giovedì 14 gennaio 2016

"Macbeth" di Justin Kurzel


«Spiana la fronte aggrattata» («sleek o'er your rugged looks») non è il genere di battute che si lascia possedere dalla bocca di attori immersi in un contesto che - anche nella rinuncia a dar sostanza al fantastico - si affida all'iperealismo del profilmico (qui The Eagle ben più che Valhalla Rising); un medioevo scozzese e d'ambientazione nel quale agiscono corpi attoriali inquadrati perlopiù in primo e in piano americano, che dicono i sublimi versi al passo con le  musiche di una colonna sonora tanto invadente quanto noiosa. Sono immagini e parole che faticano molto a creare sinergia e che perlopiù, anziché sommarsi, si elidono reciprocamente
Sarebbe ovvio richiamare l'attenzione all'invenzione del vero (migliore del vero stesso), di verdiana memoria; e foss'anche alla Poetica di Aristotele. E si vorrebbe scrivere di più sul lavoro di un regista che, alle primissime armi, se l'è sentita di misurarsi coi giganti. Ma, terminata la visione del Macbeth di Kurzel, ben più che delle timide incursioni interpretative sul testo, resta il ricordo di quello che, in realtà, esula dai cinque atti della tragedia shakespeariana. Ed è un fatto piuttosto sorpendente, tenuto conto di quanta attenzione sia qui riservata alla supposta fedeltà all'autore ed "al contesto originale" in un film che appare incorniciato tra un principio ed una fine inediti: la pira funebre del figlio di Lady e Macbeth e, poi, la corsa di Fleance che è promessa dell'uccisione del fragile Malcolm. Una cornice narrativa che è, insomma, adatta ad un plot semplice, lontano da letture stratificate del capolavoro; una vicenda che Kurzel sente intimamente generata da traumi personali (morte violenta o ingiusta) e che vede poi declinarsi attraverso vendette che in nuovo sangue si risolvono per poi rinnovarsi: che l'origine sia il decesso di un figlio o dei molti combattenti coi quali ha diviso il campo Macbeth nella propria vita di guerriero (lui che i suoi pensieri confessa proprio al cadavere di un giovane ucciso in battaglia, in una delle pochissime sequenze che si riescono a trattenere nella memoria). Ma, per un film così fatto, apparirebbe davvero non necessario scomodare nientemeno che la parola di Shakespeare, avendo fede che attori già così caratterizzati agli occhi del pubblico risolvano gli squilibri. Questa volta, invece, Fassbender e Cotillard appaiono figure di personaggi, non attraversati nella carne dalle proprie emozioni; meglio, insomma, sarebbe stato vederli recitare una parte piuttosto che imporgli di declamare proprio i venerati versi. 
A quando un Macbeth 'tragedia dell'immagine', tout court, al cinema? E dire che oggi tecniche ed estetica della settima arte inviterebbero a percorrere proprio questa strada. Nell'attesa, tra i classici intorno a Macbeth, meglio consigliare ai nuovi spettatori le infedeltà di Tarr e Kurosawa