sabato 12 dicembre 2020

Susana




Una scena di sesso, implicita grazie a una battuta e a un fotogramma. Nel giro di quattro secondi.

«Passa il vento e si alzano le sementi»

È il Buñuel messicano di Susana, 1951. 


Se studi prima dai gesuiti e poi prosegui in una scuola in cui tengono lezione, fra gli altri, Stravinskij, Keynes, Einstein e Le Corbusier sei sulla buona strada. 
Se i tuoi amici si chiamano Salvador Dalí, Garcia Lorca e Jorge-Luis Borges è meglio ancora. 
Per il resto devi essere Luis Buñuel.
 
 
C'è di più ma è soltanto un detonatore; sono le uova che Susana tiene nel grembiule e che premute da Jesus, il quale la stringe a sé, si rompono lasciandosi colare sulle gambe della ragazza. È il primo incontro a due fra i personaggi e già comprendiamo così che l'atto sessuale è stato subito consumato perché la ragazza si è già lasciata convincere. Il secondo abboccamento, quello nella stalla, lascia intuire al giovane Alberto - figlio dei tenutari e anche lui come Jesus fatalmente attratto da Susana - quello che lo spettatore attento sa essere accaduto non adesso, e cioè nella stalla, ma già nel pollaio all'inizio del film. Insomma, la ragazza è ben più pericolosa di quanto creda Alberto.



mercoledì 9 dicembre 2020

Sulla prima della Scala

Forse si riflette poco sulle ragioni estetiche della serata inaugurale. Un tempo l’inaugurazione era spettacolo per pochi indirizzato ai pochi: pubblico presente e radio, talvolta (per fortuna di noi posteri). In un periodo successivo è stato spettacolo per pochi indirizzato a tutti: in tv, da Grassi fino ai fischi dei Vespri mutiani e poi, dopo una lunga pausa (solo in radio, mezzo fatalmente più elitario), di nuovo in tv dai tempi di Lissner. 
Quest’anno era spettacolo per tutti indirizzato a tutti. Già da qualche anno, però, è impossibile non riconoscere il fatto che - a cominciare dalla scelta dei titoli (i più popolari possibili) - il mezzo televisivo influisca grandemente sul prodotto. E, del resto, il modo in cui guardiamo le cose non è forse parte delle cose stesse cui miriamo? Possiamo intendere, specialmente nel nostro tempo, come neutri i mezzi di riproduzione? Oggi che essi possiedono dimensione a tal punto inglobante da pretendere di render superflua persino la presenza fisica del fatto artistico? 
Sarebbe bello se si riuscisse a trovare, un giorno o l’altro, il giusto amalgama e sarebbe forse il seguente: spettacoli per pochi, fruiti da molti ma accessibili a tutti. Mi pare infatti che nella spietata frazione che sovrappone il pochi al tutti manchi il più cordiale “molti”.
C’è troppo ottimismo, però, nel mio “un giorno o l’altro”. Non vorrei passare per ingenuo come ha fatto un commentatore di cose musicali convinto, sino a poco tempo fa, di abitare in una specie di Atene del V secolo, pronto ad avventurarsi in epoche di altro splendore già alle porte.
Quando scrivo che il modo di vedere fa parte delle cose stesse cui miriamo non intendo che si tratti di “una parte” soltanto, capace ad esempio di semplificare. Intendo invece che il tutto (cioè prodotto e visione) stanno assieme, al punto da confondersi, capaci di diventare altro da sé. Le pagelle sui giornali, i commenti scritti dagli utenti del web a trasmissione in corso, la critica pagliaccesca ecc. ci parlano di approccio superficiale e rammollito a un materiale che non è altro: è lo stesso. Però spesso i pervasivi mezzi di riproduzione digeriscono e ritornano anche ciò che appartiene alla storia dell’interpretazione, insieme a quello che ancora si fa di buono e nobile. Il tutto a portata di clic. Queste sì sono le cose per pochi, fruibili da molti e accessibili a tutti.

lunedì 7 dicembre 2020

Mank


Si rimprovera al cinema sul cinema il peccato di autoreferenzialità. Ma in questo caso si avrebbe torto perché il film è immerso in vasta dimensione politica senza tradire - e perché dovrebbe - la propria identità tributale. Chissà se è andata davvero così, ma sarebbe bellissimo: Orson disintegra una cassa di bottiglie permettendo a Mank di trovare ispirazione per le sequenze di Kane che distrugge la stanza di Susan. Se è falsa, invece, - come credo - è ben pensata, capace quanto il resto di far parlare l’opera attraverso le biografie dei creatori. 
L’adagio gobbelsiano della bugia è qui fuoco amico: il gotha che muove attorno a Mayer e Thalberg nella straordinaria età delle case di produzione in mano a ebrei hollywoodiani in gradi diversi turbati dalla barbarie nazista. 
Mai si è visto sinora in una pellicola un tributo più sentito a nome e carriera di Upton Sinclair, inquadrato solo di spalle e da lontano per ingigantirne la presenza. E allora il film va ben oltre Hearst e il fattore umano che mosse la sceneggiatura del capolavoro wellesiano. 
Quello di Fincher non è film per tutti, però. Volendo si trascorrono due ore piene in compagnia di un’opera che è tutta scrittura. Al punto che per gustarla appieno bisogna possederla per bene la lingua originale, senza farsi distrarre da sottotitoli stringati per necessità tanto fitti sono i dialoghi e le battute con understatement da antologia. Meglio ancora se si mastica già un po’ pure la storia cinematografica dei ‘30. 



sabato 5 dicembre 2020

Una piccola morte


A breve sarà l’anno di Dante. Si può anche riavvicinarlo tramite Ibn ‘Arabī, mistico e poeta che, secondo alcuni, avrebbe influenzato il Nostro per il matrimonio di intelligenza, amore e conoscenza. Questo romanzo percorre vita e pensiero del Doctor Maximus in lungo, in largo e in prima persona. Obiettivo ambizioso, certo, con stile letterario forse un po’ troppo dimesso per i miei gusti ma il passo è avvincente e le interpolazioni dei manoscritti sono un diversivo che incuriosisce. Il romanzo è pluripremiato e pluritradotto. Sono folgoranti certe massime di Ibn ‘Arabī («Il tempo è un luogo liquido e il luogo è un tempo solido») così come è ben tratteggiata la Siviglia multietnica e multiculturale a cavallo fra XII e XIII secolo: 

 «Oltre a noi, c’erano nove uomini e due donne. Al centro stava seduto un uomo che leggeva un libro mentre gli altri ascoltavano. Osservai le loro facce e notai subito che avevano occhi e capelli di diversi colori. Arabi, meticci, franchi e berberi. Prendemmo posto vicino alla porta, come indicatoci da Frideric. Si parlava di Pitagora. L’uomo seduto al centro leggeva in greco e traduceva in arabo. Andò avanti per un bel po’, poi si alzò e venne a sedersi accanto a noi. [...] «Soltanto la logica è eterna, tutto il resto è transitorio». Io bisbigliai all’orecchio di al-Hariri: «Scommetto che è questo quel che seduce Averroé!».



martedì 1 dicembre 2020

"Otello" in tv dal Maggio Musicale Fiorentino

 

«Poscia, più che ‘l dolor...». E pure io mi sono accontentato della differita di ieri sera, quella di “Otello”. Mi è sembrato di non aver perso tempo ed è già qualcosa, anche perché ho respirato aria di palcoscenico seppure a distanza. Merito della bacchetta premurosissima di Mehta (ricordo serate difficili come la “Jérusalem”) che ha offerto una lettura il cui pregio sta nella trasparente leggibilità, ma pure nella morbidezza di certi affacci Liberty e nella sofferta intimità di abbandoni calibrati sulle facoltà tutto fuorché titaniche dei cantanti.
Però non posso certo contare quello di ieri fra i migliori “Otello” ai quali abbia (avrei) assistito. Ma sono molti i migliori? No davvero. Metto in fila Thielemann e Caetani. Eppure il canto di Sartori ci ha risparmiato l’ennesima riproposizione dei tanti orchi e orchetti che in questi ultimi decenni si sono avvicendati nel ruolo del Moro.
Sartori è un Otello che trova espressioni di partecipata malinconia, scrupoloso quanto a dinamiche, offre nei momenti felici un legato di qualità. Se il limite del tenore resta l’atteggiamento compassato, qui ha trovato un linea di canto attraverso la quale specchiare una sincera partecipazione laddove non si può domandare certo all’attore di fare altrettanto. Quando il ruolo insiste sul passaggio superiore della voce Sartori risolve meglio di altri colleghi e la sostanziale assenza di squillo lo avvantaggia qui nella brunitura di certi passi. Se resta lontano mille miglia dalla profondità ragionatrice di un “Dio mi potevi”, lo scoglio del “Ora e per sempre addio” è superato semplicemente... cantando. Non è poco. Sono debutti, certo, da ridiscutere e che avrebbero trovato luogo più adatto che non la tv nazionale; ma i tempi che viviamo consentono anche questo.
Non pari distinzione spetta a una sostanzialmente anonima Rebeka, davvero periclitante nell’atto quarto. È la stessa cantante che vorrebbero spacciarci quale detentrice di una tecnica di ferro. Invece il mezzo s’incrina per tre volte in cinque minuti compitando l’Ave Maria (mica Leonora o Amelia). Se questa è una star...
Salsi mi è parso la solita maschera identica a se stessa, pressoché ovunque. Il canto di strozza e l’attitudine arcigna di ogni frase sono un poco occultate soltanto dalla figura e dalla naturale disposizione all’azione scenica.
Mi sono parsi buoni sia Cassio che Emilia.
Lo spettacolo che si sarebbe voluto allestire se le norme anti Covid non lo avessero menomato nei movimenti delle masse sembra un tale dejà revu da far sospettare l’intenzione di un tributo al kitsch, appena scaldato da timide velleità: un tulipano fa da bacchetta a Jago-direttore e qualche straccione compare in scena.
Poi l’opera è finita e ho letto una mezz’ora.