domenica 28 febbraio 2016

"Mara" (Blasetti/Pratolini)




A quelli per i quali Vasco è soprattutto il nome di Pratolini

[Mara, episodio da Tempi nostri - Zibaldone n. 2 di Alessandro Blasetti (1954); con Danièle Delorme ed un raggiante Yves Montand, doppiato con forte accento toscano anche in omaggio alle sue origini]

domenica 21 febbraio 2016

Fuocoammare

Quella di Fuocoammare a Berlino è una vittoria che deve riempirci di orgoglio; Gianfranco Rosi ha diretto un film importantissimo.
Tutti sappiamo di essere parlati dal linguaggio; ebbene, oggi lo siamo altrettanto dalle immagini. Ci possiedono fino ad assuefarci, capaci di aderire alla mente sino a plasmarla, specie tramite i mezzi di comunicazione; non per essere rese visibili a un occhio esterno, ma trasparenti a loro stesse. L'esibizione continua dell'immagine non è che l'altro suo modo di sparire.
Ciascuno di noi ha intorno alla tragedia dei migranti a Lampedusa un proprio bagaglio di visioni attorno alle quali ha organizzato pensieri, aspettative; ha tirato somme e, nei casi peggiori, sputato sentenze. Ebbene, la visione “in tempo reale” non ha fatto che aggiungere irrealtà alla cosa. Nessun voyeurismo della morte e del dolore, invece, nel film di Rosi, anche quando sale sulla Cigala Fulgosi; il suo occhio trova il valore di ciò che ha perso l'illusione della realtà, la sua forma simbolica forte: è realtà allo stato dell'arte; sono le vite sull'isola e sul suo mare; sono il loro senso, quello che risiede in immagini lontanissime dalla pura ed infedele oggettività documentaria. Densissimo, invece, è il dialogo del regista con lo spettatore, anche attraverso il montaggio; senza paternalismi, senza dita levate per impartire la lezione (molto simile in questo a Minervini, all'Oppenheimer di The look of silence). La sua macchina da presa non prende il mondo per oggetto, ma lo fa diventare oggetto; fa riesumare il suo essere altro nascosto sotto la sua pretesa realtà; ne provoca il senso e lo fissa in immagine. Perché la strada da percorrere se si vuole cogliere la verità è lunga quanto quella che intraprende Samuele, il giovane protagonista del film; lui, come noi - abituati ad una visione limitata sulle cose perché assuefatti da bulimia di immagini - soffre di occhio pigro; deve passare da un decimo a nove. Il premio sarà un radicale mutamento di prospettiva: dalla fionda per puntare sugli uccelli notturni, ad un piccolo San Francesco che gioca col loro canto. Attorno la Lampedusa che, una volta nella vita, bisogna aver visitato fuori stagione coi suoi silenzi che lasciano posto al vento sferzante, al mare che a est dello scoglio del Sacramento s'infrange sulla costa.                                                                                              


mercoledì 3 febbraio 2016

"Il trionfo del Tempo e del Disinganno" alla Scala

Pochi appunti sulla première dell'oratorio haendeliano alla Scala, avvenuta pochi giorni fa. Ed un pensiero scaturito subito al termine dell'esecuzione dell'ultima aria: «Tu del ciel, ministro eletto»: in fondo si tratterebbe soltanto di mettere la voce oltre quella sorta di ostacolo (Do#4 - La4), centrando l'intonazione dell'Adagio e possibilmente quella del recitativo che precede. Ma alla Bellezza spetta il compito di chiudere l'ultima parte dell'oratorio dopo un'infilata di arie che, insieme ai fiati lunghi, richiedono grandissima varietà di colori e accenti per rendere giustizia non soltanto alla scrittura ma anche alla conversione che si prepara: sono, insomma, le suggestioni e la magia del canto. È impossibile farlo se si possiede una voce che non corre e che perlopiù sfarfaleggia (Janková); soprattutto in un grande teatro e se si possiede un mezzo di assai modesta ampiezza. Invece, la registrazione della Dessay, che ha in lei il punto di forza, è molto superiore pure a quella con la York, che però è diretta con grandissima sensibilità da Alessandrini.
Il quartetto vocale che si è proposto alla Scala possiede mezzi di tale cabotaggio da trovarsi paragonabile al volume della ventola che muove in scena la neve, secondo le indicazioni del regista. Si sono sentiti, nel corso della recita, solo due applausi convinti: alla Mingardo (Il Disinganno), di gran lunga la migliore, dopo «Se la bellezza perde vaghezza», e alla Cirillo (Il Piacere) al termine di «Lascia la spina»; ma altrove è parlante in prima ottava e strillacchiante nella ripresa di «Come nembo», variata in modo tale da mettere l'interprete in ulteriore difficoltà. Anche nella pagina che tutti conoscono stanno le differenze fra direttori d'orchestra. Alessandrini fa di quest'aria un malizioso invito a godere, tutto indugi e promesse, che mi sembra proprio adatto al momento; non è, infatti, col languore che il Piacere gioca la sua ultima carta ma con un consiglio franco, disinvolto e dietro il quale nasconde la propria inquietudine. È il proverbiale sprone a prendere la rosa e a lasciar la spina; un momento drammaturgicamente perfetto per parodiare in musica il celebre tema.
Il direttore d'orchestra Fasolis - impegnato a condurre un complesso scaligero che, da qui in avanti, si propone di rileggere in formazione ridotta e su strumenti originali alcuni lavori del barocco - è apparso invece intenzionato a marcare il passo nelle pagine più scopertamente drammatizzanti («Urne, voi che racchiudete» ed il Quartetto che chiude la parte prima).  
Da dove ho assistito allo spettacolo, era tutto un messaggiare, un navigare, uno sbadigliare, un cambiar di posto e, dopo l'intervallo, sono state consistenti le defezioni del già non folto pubblico; infatti, quando lo strumento (trenta in tutto) arriva molto meglio della voce in un'opera in cui la scrittura poggia sul canto è fatale che questo succeda. La questione degli spazi in cui eseguire certi capolavori è essenziale e lo è ancor più quella che riguarda la scelta dei cantanti; ma, del resto, a parte gli "specialisti" chi frequenta questo repertorio nei grandi teatri? Mi pare una frattura insanabile, almeno al momento. 


Bisogna ricordare, sempre a proposito di luoghi e di volumi sonori, che trent'anni dopo il Trionfo si dava presso il gigantesco Teatro di San Carlo Achille in Sciro, con la musica di Domenico Sarro, e non è difficile immaginare che la voce di Angelo Amorevoli non faticasse affatto nel correre in sala. Quando la tecnica è poca, invece, e ci si affida ad una sorta di Sprechgesang con aggiunta di agilità bofonchiate non si può pretendere di far suonar la voce in ampi spazi.
A questo si aggiunga che al tempo di Händel non esisteva alcuna buca dell'orchestra e dunque il suono dello strumentale era percepito in sala con maggiore nettezza rispetto ad oggi. Come avrebbero fatto gli odierni "specialisti" ad intrattenere col proprio canto il pubblico che, beninteso, affollava la sala (anche quella del più grande teatro di Napoli) nonostante il caldo infernale generato dall'illuminazione a candela? Non immagino per questo genere di artisti alcuna pioggia di sonetti.
Restano benemerite oggi le registrazioni fatte (più o meno) come si deve: in assenza di una prassi esecutiva operistica che, dal vivo, sia all'altezza del compito, i CD ci permettono un affaccio su musica di sconfinata bellezza.
L'allestimento mi è parso assai poco risolto, come del resto tante cose di Flimm, affetto da horror vacui che cerca di sanare con controscene perlopiù didascaliche: davvero kitsch gli inserti settecenteschi, con tanto di Händel all'organo che gira le pagine (cose che, sino a un decennio fa, si credevano confinate in certa provincia tedesca). Ho rimpianto l'intelligenza e il gusto di Franco Ripa di Meana che allestì alla Scala Ascanio in Alba. E, del resto, mi è mancato pure Antonini, che diresse con grande varietà d'accenti.
Ma l
a scelta di rappresentare il Trionfo mi pare coerente anche con la natura drammaturgica dell'oratorio (non più statica di diversi libretti d'opera suoi contemporanei) e giustificata dalla relazione strettissima che esisteva all'epoca del compositore fra i due generi musicali. Certo, si vorrebbe un disegno registico stimolante mentre questo spettacolo di Flimm, come altri suoi (Wozzeck, ad esempio, proprio alla Scala per l'ennesima volta qualche mese fa), resta perlopiù un pot-pourri di situazioni eterogenee. E dire che i concetti di Bellezza, Tempo, Piacere e Disinganno sarebbero capaci, a chi volesse indagarli, di spalancare lo sguardo su territori figurativi di vastità immensa, a cominiare da quelli che si conservano nel luogo in cui l'oratorio vide la luce a Roma.