sabato 28 dicembre 2019

Film del decennio 2010-2019

In sprezzo del pericolo e con gli auguri di buon 2020 a chi legge, a chi guarda e a chi ascolta.

Film del decennio: una proposta, in ordine cronologico.


Caterpillar (Wakamatsu, 2010)
Cave of Forgotten Dreams (Herzog, 2010)
Inception (Nolan, 2010)
La piel que habito (Almod
óvar, 2011)
Drive (Refn, 2011)
Faust (Sokurov, 2011) 

Weekend (Haigh, 2011)
Shame (McQueen, 2011)
Bir zamanlar Anadolu'da (Ceylan, 2011)
A torinói ló (Tarr, 2011)
The Master (P. T. Anderson, 2012)
The Act of Killing (Oppenheimer, 2012)
Amour (Haneke, 2012)
Holy Motors (Carax, 2012)
Her (Jonze, 2013) 

Die andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht (Reitz, 2013)
Only Lovers Left Alive (Jarmusch, 2013)
Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) (Iñárritu, 2014)
Adieu au langage (Godard, 2014)
Louisiana or (The Other Side) (Minervini, 2015)
Mad Max: Fury Road (Miller, 2015)
Silence (Scorsese, 2016)
Neruda (Larra
ín, 2016)
Phantom Thread (P. T. Anderson, 2017)
The Killing of a Sacred Deer (Lanthimos, 2017)
Roma (Cuarón, 2018)
Parasite (Bong Joon-ho, 2019)
La mafia non è più quella di una volta (Maresco, 2019)

domenica 8 dicembre 2019

"Tosca" alla Scala






«Com’è la Tosca in teatro»
 
Abbiamo assistito ieri sera ad una Tosca sorvegliatissima per quanto attiene alle dinamiche e al rapporto tra buca e palcoscenico, scrupolosissima anche nei riguardi della più piccola forcella. L'intelligibilità del testo musicale si conta certo fra le qualità della Tosca inaugurale, ma ci si dovrebbe sforzare per dimenticare la quadratura che ha restituito l'opera con un eccesso di didascalicità, specialmente laddove si vorrebbe che musica e teatro trovassero imbattibile punto di fusione, senza eloquenze compassate e disinneschi involontari. Una tensione che, laddove generata, lo era soprattutto per pause d'espressività intimistica che non tramite risorse drammatiche e musicali compiutamente provocate. Messa in valore, infatti, è stata una chiave di lettura che si potrà giudicare meno avvincente di altre, ma che è altrettanto legittima, e che potrebbe trovarsi sintetizzata nella formula di naturalismo sentimentale temperato dal contesto del dramma d'ambientazione storica. Non è impossibile che allora, lasciata la sala, allo spettatore resti in bocca un sapore curiosamente massenetiano.
I bagliori che precorrono la temperie espressionista e i tratti che più sinceramente arruolano il capolavoro pucciniano in un Novecento che appare miracolosamente già avanzato, sono per una volta consegnati alle retrovie rispetto alla valorizzazione di un commento sonoro sensibile, ben più che alla scansione temporale accelerata degli eventi caratteristica di Tosca, al loro paziente dipanarsi attraverso la trama compositiva. 
Si tratta di scelte interpretative impostate in prima istanza da Riccardo Chailly, il quale ha guidato la compagine milanese lungo volumi di suono misurati al millimetro - non mi è mai capitato di ascoltarne così in almeno trent'anni di Tosche europee (un paio quelle Oltreoceano); volumi tutti distribuiti secondando agogiche assolutamente prudenziali, anche scrupolose rispetto alle indicazioni in partitura. Come scrupoloso è coi segni, così Chailly lo è nel nitore di un suono orchestrale dai contorni morbidi e arrotondati. E se altrove sta la duttilità mobilissima che assortisce i gesti musicali, il direttore milanese è molto interessato ad equilibrare costantemente le sezioni, anche senza temere il rischio di una certa omogeneità d’espressione. Ben più che a incitare frizioni drammatiche, anche quelle che percorrono da parte a parte lo squarcio sinfonico sulla piattaforma di Castel Sant'Angelo, Chailly consegna proprio questa pagina ad una dimensione di sincera introversione mahleriana; ed è un passo che resta nella memoria. 
Sono letture pucciniane che, come già nel caso della Ur-Butterfly, sono calibrate con attenzione sulle caratteristiche degli interpreti convocati a cantarle. E sono letture che parte del pubblico ha imparato a gradire, parte a mal sopportare e parte ancora a rubricare fra quelle possibili.
In una logica quasi indugiante sembrano allora trovar senso le pagine, perlopiù inserti, contenuti in appendice all'edizione critica. Sono quelle che Puccini scartò del tutto, o rimaneggiò subito nell'orchestrazione, per far guadagnare alla partitura prontezza ed efficacia fulminanti che contribuiscono in modo determinante a farla applaudire quale capolavoro assoluto. Mancavano, appunto, proprio quei piccoli e indispensabili colpi di scalpello per consegnarcelo, come fece, perfetto.
Potremmo credere che nel contesto di un duetto soprano/tenore all'atto primo che sotto la bacchetta di Chailly non teme certo la fretta, possa pure trovar posto un inserto modulante per far cantare al pittore «Non è arte [quella di far sì che tu mi ami], è amore» (con la diva che lo rassicura: «Sì, sì ti credo»). Verso davvero antipatico, però. Ciò vale per chi col cuore senta tanto le cose del mondo quanto le forme dell'arte, anche di quella amatoria. E così vogliamo credere valga pure per Cavaradossi, passionale e politicamente sovversivo.
D'altro segno qualitativo, mi pare - ma sempre troppo indugiante, almeno stando alla stringente logica teatrale di un compositore che per un istante valutò persino l'ipotesi di cassare «Vissi d'arte» - è il salmodiare di Spoletta su altri tre versetti del Dies irae. Questa, infatti, mi parrebbe aggiunta tollerabile anche in una Tosca svelta all'atto secondo, specialmente se a vestire il ruolo c'è Carlo Bosi; nella distribuzione dei comprimari è lui quello assolutamente inattaccabile. 
L'evoluzione nel gusto interpretativo e l'impiego degli stilemi espressivi esercitati sul ruolo della cantante romana protagonista del capolavoro pucciniano durante cento vent'anni di storia è argomento amplissimo e che, già solo limitandosi alla Scala, muoverebbe dalla Burzio all'ultima diva del verismo, Magda Olivero, transitando poi sino ad una fraseggiatrice modernissima come la Kabaivanska.
Trent’anni fa la Scala poteva contare, allora - anche con un direttore soccorrevole ma non certo indimenticabile - su un’artista del calibro di Ghena Dimitrova per traghettare l'elegante spettacolo di Benois/Faggioni (recite Marton/Kabaivanska) e proporre in assoluta sicurezza un titolo fra i più amati dal pubblico. Passarono poi parecchi anni prima che la Scala si cimentasse con una nuova produzione dell'opera, affidandosi a voce russa di esteso volume (Gorchakova): una serata che finì a caldi fischi, col basso Raimondi unico festeggiato (ma sul suo Scarpia, tolto l'attore, molto davvero ci sarebbe da appuntare). L'impianto scenico inventato da Margherita Palli era invece un'assoluta meraviglia, invenzione memorabile per impatto visivo e potenza evocatrice di un mondo in imminente disgregazione. Molti spettatori lamentarono che la processione del Te Deum non si svolgesse in ampio spazio, fronte al pubblico; come invece è avvenuto ieri sera, nella più consueta delle soluzioni. Ma la forza sprigionata proprio là in orchestra da Bychkov, ben più che il magma sonoro quasi uniformemente steso altrove, era anch'essa incancellabile; effetto potentissimo e di autentica modernità da godere dal vivo fra stordenti effluvi d'incenso (quelli che manco al Don Carlo zeffirelliano). Ricordo, fra le altre, una serata interessante con "un'esotica" Aprile Millo. 
Muti offrì all'opera di Puccini il suo ipertrofico contributo di concertatore, per implicito omaggio al sinfonismo italiano contemporaneo all'autore. Fu una Tosca ostinatamente riversata in disco e con protagonista la Guleghina, cui l'esposizione prolungata a ruoli drammatici manifestava chiari segni di cedimento.





Prima che prendesse piede l'orrendo spettacolo di Bondy, inflitto per ben tre serie di recite (rimasta impressa per volume ragguardevolissimo fu però la Floria della Radvanovsky), la Tosca nel nuovo millennio della Scala portò il nome di Daniela Dessì; pure sotto la bacchetta di un Maazel già negli anni dello svelto mestiere. Il soprano ligure arrivò al ruolo a Milano certo in parte usurato dalla frequentazione di ruoli sovradimensionati per il proprio mezzo. Ma la voce era sonora e piena in zona centrale e centro-acuta (conquistava bene anche l'Arena di Verona), artista di autentica grandezza e di solidissimo impianto vocale. Per natura, Tosca di cesello ben più che di timbro (basti ricordare l'inflessione insinuante e leggera su «Non la sospiri la nostra casetta»). Forse l'ultima esponente della tradizione del canto all'italiana. 
Ad Anna Netrebko, dunque, la Scala si è affidata per riproporre il titolo in posizione tanto visibile nel cartellone. Un'artista che ho ritrovato solida nell'amministrare i mezzi del mestiere e che ha mietuto autentici successi in teatro; uno è quello davvero grande e destinato a far storia (Giovanna d'Arco). Si valuterà certo che le risorse migliori della Netrebko siano apparse in buona misura appannate al confronto diretto con un ruolo che impegna al grado massimo l'artista tanto vocalmente quanto nel costante tentativo di coniugare le seduzioni del fraseggio a quelle della recitazione; fattore quest’ultimo che richiederebbe il contributo di un regista ben più sensibile. Non sono mancate prese di fiato e accomodi poco invitanti nel consegnare le frasi, già all'atto primo, ed è segno di una consuetudine non matura nei riguardi del ruolo. Ma la prestazione va anzitutto misurata sulla corda lirica, quella del soprano russo. Se la zona fra il centro e il grave, quella attorno alla quale la voce della Netrebko tende ad impastare il suono, è la stessa su cui insistono le frasi più attese per definire i tratti plastici del personaggio, ecco allora che la cantante è assai più invitante quando la linea è quella del languore e dell'abbandono. Sono accenti ed inflessioni di una Tosca in cui, se certo non arde un folle amore, è perché trova posto una passione addolorata, quella che si è riconosciuta appieno nelle dinamiche e nelle smorzature del «Vissi d'arte», cantato dopo aver superato con onore gli scogli nel cuore dell'atto secondo, terreno d'elezione di voci autenticamente spinte. Le si potrà perdonare, allora, l'attacco sporcato della romanza, certo dovuto all'occasione in una cantante che in zona acuta è apparsa ieri sera particolarmente prudente.
Francesco Meli si è confermato quale fraseggiatore sensibile e generoso tanto nelle mezze voci quanto nei filati; qualche oscillazione in zona acuta nei passi più spinti è davvero poca cosa a fronte di una prestazione ragguardevole e che certo lo iscrive fra i Cavaradossi della Scala che si ricorderanno con affetto. La caratura del personaggio? Si protesterà forse che nel suo Mario prevalga il versante romantico-amoroso (prossimo agli eroi un poco coturnati del primo Verdi) rispetto a quello baldanzoso e irriverente di un'artista che sfida il potere col piglio del volterriano dissacratore. Ma io trovo che l'efficacia nel mantenersi in equilibrio fra lirismo e passionalità, sia chiave di volta nella definizione di un ruolo che Meli tornisce parola per parola con una maestria sconosciuta a troppi suoi colleghi.
Davvero inopportuno ho trovato, invece, il fatto che il baritono Salsi si sia venduto a mezzo stampa quale Scarpia insinuante e nobilmente perverso. Per restituire al pubblico quel profilo è necessaria un'ampliezza di mezzi tecnici, un variegato respiro delle frasi a mezza voce sostenute sul fiato e una allure affatto particolare. Era quella, ad esempio, di Bruson, anche Jago di vaglia pure alla Scala. 
La prestazione di Salsi, infatti, lo arruola nel lunghissimo filone degli Scarpia robusti e tracotanti, che ha una sua storia e dignità anche se il baritono sembra non potersi liberare pure qui di quell'inflessione arcigna che rimpicciolisce all'ascolto un mezzo generoso per natura e amministrato in virtù di quella; col Mi bemolle («Bramo») ecco, là, la conquista della sala. Se non sono mancati suoni strascinati (in gergo si dice "mugghiati"), Salsi ha offerto un personaggio assai più indovinato che altrove (in Ernani e Chénier) e la resa scenica, assitendo allo spettacolo dal vivo, è convincente.
Il contributo registico di Livermore poggia su riferimenti diretti che investono la componente figurativa, quella cui sembra essersi dedicato con maggiore attenzione rispetto ad una conduzione dei cantati-attori davvero generica e distratta. Questi riferimenti mi paiono stare per prima cosa nel cinema. Se la cappella degli Attavanti, che si muove troppo in scena, riesce solo quando ruota su se stessa per lasciarsi perlustrare come sotto l’occhio di un piano-sequenza, ben più indovinato è il backward al finale atto secondo. Poi i tributi, come è inevitabile forse, stanno anche in quella che a tutt’oggi è l’unica riuscita “attualizzazione” di Tosca (1986) ad opera di Jonathan Miller, scomparso pochi giorni fa: pistole, cappottoni, atmosfere anni '40 pure suggerite da applique al neon nel palazzo dei Farnese.
Da dove stavo io, non ho visto né gettarsi né precipitare Tosca nel vuoto, ma ho scorto un bagliore in cielo. Dunque sarà come per la Leonora della Forza: salita a Dio. Ma qualcuno obietterà che ai suicidi almeno un po' di Purgatorio si dovrebbe pur farlo scontare.


martedì 3 dicembre 2019

"Tosca" e la modernità

Dopo aver assistito alla prova generale, aspettando la prima, mai posso stare lontano dal titolo; quindi riascolto Tosca.
Oggi questa edizione mi trova nuovamente sorpreso per modernità, concetto da intendere come fa il filosofo quando evoca in essa le categorie di razionalizzazione e di disincantamento. La Tosca di Dallas mi sembra indovinare, infatti, aspetti fra i più prepotenti nella novità a cifra tondissima del catalogo pucciniano. Parte essenziale qui la giocano gli interpreti che, maestri fra i grandi, sono da sé in primo piano, anche festeggiati dal pubblico alla prima uscita in scena. Floria Tosca al quadrato - anzi al cubo (come morde il veleno della sua gelosia!) - corre lungo un filo nervosamente teso per indovinare frasi e accenti in ogni diverso luogo emotivo. C’è anche una spiccata vena ironica e disincantata, molto americana (ma Tajo esagera), convocata all’inizio per il dramma di verità e finzione. Del resto, quali intuizioni fanno di Tosca un apripista nel cosiddetto “universo della contraddizione” in rapporto alle avanguardie novecentesche e alle utopie del teatro!
Immediatezza sveltissima è quella della più romana delle opere; un’immediatezza direttamente proporzionale alle immense risorse del genio che l’ha creata. È una prossimità che diventa frettolosa nelle esecuzioni trascurate; fecondamente bruciante, invece, in quelle sensibili al dettato del compositore.
Così i tocchi comici e quelli di carezzevole leggerezza consegnati ai protagonisti nell’atto primo altro non sono che il risultato della desolazione che li aspetta. Creature musicali tutta scena, assediate da negazione e disperazione quanto più si dibattono in fronte al pubblico.

domenica 10 novembre 2019

Melville poeta

Una ricorrenza (i duecento anni dalla nascita di Melville) è onorata per bene quando chi vi contribuisce lo fa con ciò che mancava. E Mondadori ristampa la raccolta di Roberto Mussapi facendo tradurre al poeta italiano altri componimenti del titano, quasi tutti tratti da “Timoleon” (1891).
È una sorpresa ed è bellissima.

[...]
Poi le sue labbra mi trasmisero un brivido
baciandomi, la sua fredda ghirlanda
mi passò sul ciglio le piccole radici
ritorte, umide di terriccio.
Svanì lasciando un respiro profumato
e il caldo e il gelo di vita e morte congiunte.

(“Pontoosuc”)

Lo so: la gioventù favolosa fugge e svanisce:
ma tu non guardare il mondo con occhi mondani,
non adeguarti al ritmo delle stagioni.
Anticipa e precludi la sorpresa,
sta’ dove staranno i Posteri,
sta’ dove son stati e sono gli Antichi,
e immerse le tue mani in fonti solitarie,
bevi l’essenza del sapere immutabile:
saggio una volta, sarai saggio per sempre.

(“Lone Founts”)



giovedì 24 ottobre 2019

Rolando Panerai (1924-2019)






Era il 2010 e fu un incontro ben riuscito perché Rolando Panerai, toscano verace e simpaticissimo (trascinante!), è stato un grande artista, anche fonte inesauribile di ricordi ed aneddoti.
L’avevo conosciuto un paio di anni prima, sempre a Milano, dove ci aveva raggiunti per farsi intervistare riguardo alla sua collaborazione con Karajan.
Un viaggio a proprie spese. Uomini di una volta.

sabato 19 ottobre 2019

“Giulio Cesare in Egitto” alla Scala

Ho assistito alla prima di Giulio Cesare in Egitto alla Scala e continuo a immaginare quale invincibile godimento estetico dovesse spingere gli spettatori del King's Theatre ad affollare per mezza giornata una sala grande la metà della Scala, illuminata e riscaldata da un migliaio di candele. Continuo a credere che si trattasse essenzialmente del godimento del canto, quello con la c maiuscola. Quello senza minima traccia d’inflessioni naturalistiche, ottenuto mediante il dominio della tecnica e del suono dello strumento voce, mimesi del reale e non riproduzione o copia di essa. 
Non ho trovato, insomma, ieri sera l’ingrediente fondamentale e sarebbe il mio più che altro un elenco di suoni chiocci, fissi, sfuocati e di ricorso al parlato; dunque non una critica ma un papier de doleance che è facile risparmiare a me stesso prima ancora che agli altri.
Mehta resta forse adatto (pur nella prassi antistorica del controtenore in ruoli da contralto castrato) come Tolomeo, per via di quella inflessione malevola che ha nel timbro; e infatti il Tolomeo di ieri sera (Dumaux) lo imitava a tutto spiano. 
Della de Niese non ho sopportato principalmente sforzi e strilli in acuto, come il registro grave per nulla risolto; e poco anche la Mingardo con solita voce incollata alle tavole del palcoscenico. Davvero inappropriato Jaroussky che pareva precipitato in scena credendo dover cantare certi personaggi del teatro di Cavalli; penso all'Endimione della Calisto
Forse un compromesso accettabile, in tempi recenti, è stata l’incisione con la von Otter (Sesto) e la Mijanović (Cesare); là al controtenore Mehta è, appunto, affidato il ruolo di Tolomeo.
Sarebbe stato opportuno, allora, trovare alla Scala la giusta distribuzione. Perché non la Pratt come Cleopatra? Ma poi ci si ricorda che le esigenze registiche hanno del tutto rimpiazzato, anche nella testa della maggior parte degli spettatori, quelle della musica.
E lo spettacolo di Carsen è infatti intelligente perché attrae l'attenzione degli ascoltatori coniugando suggestioni mediorientali attualizzanti, fra tv e cinema, a spunti di mezzo carattere e sottolineature politiche. La direzione di Antonini è stato elemento di sicura qualità; nel duetto Cornelia/Sesto ecco i colori e il tono dolorosamente solenne della pagina. 
Non ho capito perché Cleopatra cantasse a Tolomeo in recitativo «lussurioso amante» al posto di «effeminato amante», così come ho sentito sempre fare. Che si trovi variante in qualche versione del libretto? Oppure si trattava di una premura politically correct pensando che qualcuno potesse offendersi?



 

venerdì 18 ottobre 2019

Martin Eden

A Carax occorsero ben dieci tentativi di scrittura prima d’espugnare il Pierre di Melville; tanto che la X dopo l’acronimo Pola sta ad indicare proprio il numero romano. Per sceneggiare il non meno articolato romanzo di London sarebbe forse occorsa a Pietro Marcello qualche versione in più (o il trovare presto quella inattaccabile).
Il romanzo è fondamentale (attuale? certo! come tutte le cose grandi) e bisogna tornare a leggerlo se ancora non lo si è fatto perché le pagine più ispirate - credetemi - restano dentro per sempre, come fanno i migliori racconti altrettanto californiani di Sinclair.
Nonostante qualche inciampo nella gestione di un materiale politico molto sfaccettato, il Martin Eden di Marcello mi ha complessivamente conquistato, soprattutto nella sua prima metà quando indovina i registri per sposare narrazione e contesto italiano meridionale. Gli inserti d’archivio amplificano ovunque il racconto, come fa il finale aggiornato fra fascisti e africani.
Ingrediente fondamentale è Marinelli, bravissimo quanto bello per immedesimarsi nella giovinezza fiera e tormentata del marinaio manovale e letterato.
La colonna sonora è la selezione migliore che abbia ascoltato da tempo. Include e serve con uguale perizia Martucci e le canzoni; una è raffinata versione strumentale di Lu cardillo.
Comunque ho già in testa il Giulio Cesare di domani alla Scala...


giovedì 17 ottobre 2019

Il diritto del più forte

 
 
 
 
 
 
«"Contanti, contanti." Quando si continua a ripetere una parola poi non si capisce più il suo significato.»
 
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte), regia di Rainer Werner Fassbinder, 1975

domenica 29 settembre 2019

Classi (sociali) e merendine

Mi sono fatto un’idea forse antipatica e tacciabile di malcelato classismo, ma coloro che mi vogliono bene capiranno.
Per comprendere le motivazioni che in Italia spingono tanta gente a dileggiare le battaglie ambientaliste - capaci di mettere in discussione il sistema di sviluppo - come del tutto assurde e foriere di pauperismi nocivi alla salute dell’economia mondiale, bisogna ricorrere all’insensibilità etica e civile che è andata ovunque maturandosi nel tempo.
Cresciuto in seno alla società del consumo nel corso di almeno tre decenni (‘80-‘00), e oggi giunto forse a un punto di crisi tale da lasciarne intravedere il superamento, questo distacco sostanziale dal bene comune è parente del rampantismo e del carrierismo che hanno travolto logiche e visioni capaci di orientare lo sguardo ben oltre il proprio naso. Testimonianze varie di questo distacco si trovano anche oggi in un ventaglio di opinioni che va da Cottarelli a Feltri passando per il rag. Cerasa, sulle colonne del suo quotidiano. Giocano molta parte, certo, almeno nella massa, cinismo e fatalismo deresponsabilizzante; tutte cose che precludono in partenza la capacità di pensare l’altrimenti. Ma c’è di più, o di meno, a seconda di come lo si guarda. C’è, io credo, la paura piccolo borghese di vedersi togliere, come individui - misura unica della società - non ciò che si ha ma ciò che si vorrebbe avere in più: tutto quello che alimenta le proprie fantasmizzazioni, le proprie aspirazioni materiali e che dà forma, appunto, alla piccola (o micro) borghesia urbana, sempre più estesa e indifferenziata. I fenomeni sono complessi ed intrecciati e non sarebbe giusto additare parte di una classe sociale come “responsabile”. Non lo è affatto, almeno non in questi termini. Eppure è soprattutto in questo milieu sociale che non mi stupisco stia la mancanza di “visioni” capaci di suggerire una via.
Fra la borghesia alta e istruita, di quelle pienamente realizzate, mi sembra di capire che le istanze ambientaliste facciano breccia più facilmente, almeno a parole. Non solo perché una migliore condizione economica predispone a immaginarsi diversamente (e in meglio) ma anche perché, credo, si tratta di fette di popolazione interpreti e a loro modo emuli, per ragioni storiche, di quella che fu l’aristocrazia (viene in mente il d’Ormesson di A Dio piacendo): strati sociali, insomma, che sembrano aver metabolizzato nel tempo, meglio di altri, forza e pericoli del consumo indiscriminato di beni materiali.
Mi riferisco a quella borghesia che all’ultimo gingillo in voga preferiva acquistare beni di valore; ma solo perché, intendiamoci, il gingillo poi - se ritenuto in qualche modo utile - lo comprava comunque; non regalandolo, però, specialmente ai figli.
Per giustificare cose di questo tipo, un certo ramo del pensiero marxista ricorre alla distinzione tra capitalismo e borghesia, intesa come classe sociale dialettica che ha dato vita al capitalismo ma i cui valori sono nel tempo divenuti incompatibili con la mercificazione totale dell'esistente tipica del capitalismo assoluto (Preve). Sono parole che possiedono il dono della sintesi ma che rischiano d’imprigionare il ragionamento. La verità, infatti, è che quella stessa borghesia (alta o medio-alta) cui prima sono sembrato lisciare il pelo è stata gravemente responsabile negli anni di connivenza diretta con un sistema consumistico del tutto disvaloriale, talvolta assecondandolo per moda e altre per convinta adesione. Oggi rimettere il dentifricio nel tubetto non è affatto facile, specialmente agli occhi di chi quei disvalori si ostina, pure nel proprio piccolo, a perseguire.
La questione merendine mi pare a suo modo emblematica. È una faccenda che scalda soprattutto il piccolo borghese: colui che riterrebbe riprovevole mandare a scuola il figlio con un cartoccio contenente una fetta di pane casereccio spalmato di marmellata (o magari accompagnato da un pezzetto di stecca fondente). “Roba da poveretti!” tuonerebbe allora, laddove il borghese alto locato, invece, intendendo fare un complimento, direbbe: “roba da contadini”. Ed era proprio un figlio di contadini quello che alle scuole medie (anni ‘80) veniva prestissimo ogni mattina fino a Milano col pullman - "per studiare meglio”, diceva - e che si scopriva, reciprocamente, assai più in sintonia coi gusti estetici del borghese benestante che non con quelli del figlio del piccolo commerciante in carriera. Ma, già al ginnasio (anni ‘90), un compagno di classe proiettato stabilmente dalla provincia a Milano rinunciava a leccornie di qualunque sorta (di qualunque!) in previsione dell’acquisto di una nuova camicia a firma americana, laddove lo studente che abitava un palazzo disegnato dal Piermarini indossava senza troppe paturnie la Lacoste del padre ancora in buone condizioni dopo trent’anni di servizio.
Del resto, aveva già detto tutto Seneca a Lucilio:

«Divitias iudicabis bonum: torquebit te paupertas, quod est miserrimum, falsa.»
(«Riterrai la ricchezza un bene: ti tormenterà una povertà falsa, il che è penosissimo.»)

Non so di preciso cosa augurarmi. Forse che, insieme ad azioni di sconvolgente forza politica ed economica - quelle di cui abbiamo urgente bisogno - passi a livello di coscienza comune, agendo noi tutti in una società d’immagine e di fuffa, il concetto che “di buona immagine” e “alla moda” è ben più la frugalità che persegue ricchezze autentiche, durature e volenterose verso il prossimo che non una prepotenza cafona, irrimediabilmente triste.

venerdì 27 settembre 2019

Articolare la ricchezza (Terzo Sciopero Mondiale per il Clima)

Bisognerebbe intendersi sul significato di “ricchezza” in un mondo che si avvicina a contare 10 miliardi di esseri umani (nel 2050).
Per me il definirsi “ricchi” (condizione che pretendo indispensabile ad ogni uomo sul pianeta) dovrebbe comportare quattro condizioni:

1/ il mangiare e bere prodotti prossimi al proprio luogo di residenza (minore impatto ambientale e maggiori possibilità di controllo e sicurezza);
2/ l’usufruire di trasporto pubblico regolare e sicuro per spostarsi senza essere costretti a farlo su mezzi propri, con impatto e fatica maggiori;
3/ l’opportunità d’istruirsi in istituti pubblici avendo a disposizione al contempo i principali mezzi della conoscenza (internet, biblioteche, musei);
4/ l’usufruire di un servizio sanitario efficiente e gratuito per tutte le necessità insopprimibili.

Due cose, per me, rientrano nella sfera del “lusso”:

1/ l’abitare una casa più ampia e confortevole (purché costruita senza alcun impatto nocivo sul territorio) rispetto a quella che è giusto considerare necessaria per ciascuno e per ciascun nucleo familiare;
2/ l’avere a disposizione una certa quantità di abiti e ninnoli che confortino la propria sensibilità estetica.

Tutto il resto appartiene alla categoria dell’eccedenza. Non a quella dell’inutile o del dannoso, ma a quella che raggruppa tutto ciò che per desiderarsi e pretendersi nel possesso avrebbe bisogno d’essere da noi stessi - e da chi è politicamente chiamato a rappresentarci - considerato in rapporto a due fattori fondamentali:

1/ le risorse limitate del pianeta;
2/ la considerazione di quanto, anche nell’immediato presente, manca agli altri.

In un mondo che è in grado di costruire in luoghi improbabili migliaia di km quadrati di serre automatizzate che producono tonnellate di frutta e verdura, d’impartire lezioni via Skype, di effettuare tramite internet operazioni chirurgiche complesse e di spostare persone e oggetti su mezzi privi di conducente (tutte cose irrealizzabili sino a vent’anni fa), dico che la questione essenziale non sta nel “come produrre ricchezza” ma nel come articolarla. È una cosa che si fa mediante il lavoro (sicuro e per tutti) orientato allo sforzo di comunità nazionali, coordinate pure nei rapporti con gli Stati esteri, affinché mezzi e conoscenza siano destinati dove servono e resi disponibili al maggior numero di abitanti della Terra.
A “lusso” per tutti penseranno altri uomini nel secolo venturo. Se dopo il nostro presente arriveranno vivi.

Vasyanovych, Tarantino, Larraìn, Dia, Martone, Lou Ye

Nel giorno del Terzo Sciopero Mondiale per il Clima non posso che cominciare da Atlantis, visto ieri sera e per ultimo alla rassegna dei film "veneziani" a Milano. Nel suo rigore formale fatto di inquadrature fisse ed essenzialità dialogica, ben restituisce il raggelante contesto di una Ucraina dell'immediato futuro. Fra i riferimenti che mi paiono più diretti c'è quello a Il tempo dei lupi (Haneke). Ed è significativo il fatto che, ancora una volta, il futuro - prossimo certo (2025) - appaia sullo schermo del tutto sovrapponibile al nostro presente. Nel film sono protagonisti corpi che per trovare scaldati al nostro sguardo hanno necessità d'illuminarsi con luce termica. E poi, non meno raggelati, sono i cadaveri mummificati pronti alla catalogazione e al tavolo obitoriale. 
La noia, invece, è protagonista indesiderabile del nuovo film di Tarantino (Once upon a time... in Hollywood): il solito giocattolone cinefiliaco (dove finisce la venerazione e dove comincia il parassitismo?) infarcito di déja revu con quarto d’ora di splatter finale e attori al posto giusto, tirati a lucido per l'occasione (e il botteghino). Si tratta di cose che, se una sceneggiatura siffatta fosse affidata ad un regista meno noto, con attori e budget meno sfavillanti, nessuno farebbe la fila per vedere il film. Mi domando, infatti, chi possa impazzirci e magari rivederlo varie volte. Forse qualche studente del primo anno, ancora completamente a digiuno di grammatica e storia del cinema: un adolescente che non conosce gli spaghetti-western e che non sa chi siano stati Charles Manson o Dennis Hopper? Meglio per lui, allora, il guardarsi altri film di "cinema sul cinema", per nulla pretenziosi e ben più interessanti di questo. Se penso, del resto, all’abisso che pure sul terreno di quegli anni Settanta stacca Tarantino da Anderson/Pynchon, riconosco che solo autentico merito di questo film è il fatto che ti faccia venir voglia di riguardare (per me sarebbe, credo, la quinta volta) Inherent Vice.  
Insomma, è oggi opportuno andare in sala per Saturday Fiction (Lán xīn dà jùyuàn) allo scopo di trovare il cinema vivo, quello rivitalizzante ingredienti e sintassi nientemeno che del noir-mélo. Qui, a me, è stata sufficiente l’idea del possesso di una copia originale del Werther con annotazioni di Nietzsche per provare un orgasmo bibliofiliaco.
Ema invece meriterebbe sicuramente una seconda visione, tanto è spiazzante anche in rapporto alla precedente produzione di Larraìn. Si tratta di spaesamento positivamente spiazzante. E dunque lode maggiore ad un ottimo regista che sperimenta nuove vie. Suggestioni formali e contenutistiche intense sono quelle che lo animano, per di più maturate attorno ad un quartetto di personaggi "antipatici"; elemento di non immediata presa sul pubblico, in particolare su quello che ignora certi aspetti sociali della realtà cilena.
Se Il sindaco del rione Sanità di Martone dimostra una volta di più la qualità della recitazione degli attori partenopei che frequentano il teatro eduardiano, l'opera prima del regista senegalese Mamadou Dia (Baamum Nafi) illumina una realtà di estremo interesse ma lo fa senza il fuoco sacro dell'ispirazione cinematografica; quella capace di tradurre la storia in immagini che si conservano negli occhi. 


mercoledì 25 settembre 2019

Madrigale senza suono

Non si giudica un libro dalla copertina. Questa è piuttosto bruttina (quegli spartiti in un libro su Gesualdo?). Pure il titolo non conquista al primo sguardo; per afferrarne il significato bisogna arrivare alle ultime pagine. Ma è lettura intrigante e le ho raggiunte in fretta. Ha vinto il Campiello pochi giorni fa.
Per testo e interpretazione che convivono, la struttura ricorda quella di Fuoco pallido (Nabokov). Qui, però, il ruolo di esegeta spetta a Stravinsky, presto alle prese col Monumentum. Il russo scopre per le vie di Napoli - e legge in traduzione col lettore - un apocrifo (falso? autobiografia?) della vita del principe assassino, dal convento alla morte. E si ritrova come noi tuffato in rabbuiamenti gotici e riverberi caravaggeschi: quelli più adatti a restituire vita, mito e musica di Gesualdo. Nella sua come in quella di Stravinsky - ma anche nella prosa di Tarabbia - «c’è in scena il mondo che la precede e che la avvolge». Ed è felice intenzione anche quella di dialogare coi padri «dando loro un linguaggio nuovo che ce li renda vicini»; sono tutte parole di un fervente stravinskiano che ha ricevuto dal Maestro lo stesso libro raro che l’autore inventa per noi.
Le fonti sono molto ben amalgamate per costruire invenzioni e sciogliere dialoghi.
Se antipatiche sono le troppe lodi riportate sul retro copertina (l’industria culturale predilige lo strillo), il romanzo merita attenzione specialmente laddove, senza smarrire l’itinerario di senso, accende con stile e registri adeguati i molti luoghi che sanno di umore, di sesso, sangue, budella, fra stridio di catene. È così che il protagonista guadagna statura da Enrico VIII, circondato com’è da concubine e fattucchiere, preti e servi, consumato dalla memoria del delitto, dalla tirannia dell’erede e dal vagheggiamento di un VII libro. Ah - vuol dirci - non fosse stata strappata al noviziato la vita mia consacrata alla musica! 


[fra gli appunti, prima di morire]

«Si cade in un pozzo, si continua a cadere, si ripercorre la propria vita al contrario e si chiede perdono mentre si incontrano le persone che hanno avuto una parte nella vita nostra, anche coloro che abbiamo incontrato per un solo momento, coloro che non abbiamo veduto ma che ci hanno pensato, e della cui vita abbiamo occupato una piccola porzione di spazio, di tempo, ci si confessa e si chiede perdono, ma lo si dona, anche, perché tutti si cade, tutti si scende, tutti ci si incontra e tutti si chiede scusa, mia madre, il padre mio, Luigi fratello, Emanuele e Alfonsino figli amati, Giulio, Carlo di Milano, Maria Maria Maria Maria»



venerdì 13 settembre 2019

La mafia non è più quella di una volta

Solo Maresco può far convivere una chicca come il Monk's Point (Take 1) di Thelonious coi latrati di un cantante neomelodico, così come fa sovrapponendo l'immagine venerabile dei due martiri della patria ai tanti mostriciattoli che cava dal ventre molle di Palermo. Il suo è il nichilismo autentico, salutare, ostinatamente dissonante - anzi, coltivato a distanza siderale - dalla società dello spettacolo; quella che appiattisce sguardi e coscienze, che tutto digerisce e dimentica.
Ma Maresco non si sogna neppure un istante di ricorrere alla retorica, perché quella la tiene lontana come l'aglio con le streghe. Meglio, piuttosto, il compatire con un poco d'affetto i picciotti e i poveri cristi che ha portato davanti alla macchina da presa.
L'amica Letizia Battaglia gli rimprovera di essere "scettico", semplicemente; ma gli amici, si sa, ci guardano sempre sotto le luci che preferiscono. Noi, invece, abbiamo proprio bisogno dell'acume urticante di Maresco e della sua dolorosa intelligenza; bisogno di lui, irriducibile, che cede solo un momento per regalare all'amica nonostante tutto ottimista uno splendido fermo immagine, con sorriso e dita alzate a V.
Raccomandarvi il nuovo film (La mafia non è più quella di una volta) è far poco, perché le ragioni non stanno in un post. Ma andateci - oltre che per ridere bene e pure amaramente - anche per rincontrare un regista che col proprio arricchisce l'autentico amore per il cinema. E che difende un'idea d'immagine e di realtà alimentandola quanto più il materiale è povero, fragile, ma trattato con mano da grande manierista, ricordandoci che nulla è più difficile che fingersi trascurati.


lunedì 12 agosto 2019

Addio a Piero Tosi

L’altro ieri, in silenzio, mentre eravamo distratti dalle tante bruttezze e volgarità del presente, se n’è andato Piero Tosi, maestro del bello.
Scorrere l’elenco dei film per i quali - spesso complice la sartoria Tirelli - realizzò i costumi vuol dire fare un viaggio attraverso una civiltà dello sguardo e del sentire che va da Visconti alla Cavani, da Ferreri a Zeffirelli, da Matarazzo a Bolognini. Insomma, attraverso gran parte della storia del cinema italiano.
Ma a testimoniare l’altissimo magistero dell’artigiano Tosi basterebbero forse le creazioni di Medea, nella quale fece convergere in geniale rilettura tutte le tradizioni popolari affacciate sulle sponde del Mediterraneo.


giovedì 18 luglio 2019

Riguardando "Crash"

«Secondo me lo fai troppo pulito.»
«I veri tatuaggi devono sempre essere puliti.»
«Questo non è un tatuaggio normale. Questo è un tatuaggio profetico, e le profezie sono lacere e sporche. Quindi fallo lacero e sporco.»
«Profetico? È una profezia personale o universale?»
«Non c'è nessuna differenza.»

Crash (Cronenberg, 1996)



Se non si era in sala quando uscì non si può avere idea di quale fu l’accoglienza: un misto di risate imbarazzate e di disgusto tali da rendere incomprensibile parte dei dialoghi. Il tempo per comprendere appieno questo film stupendo, fondamentale, è il nostro. Oggi, adesso. All’epoca, anche a quella del romanzo di Ballard, sarebbe stato impossibile capirlo e apprezzarlo sino in fondo. Il film di Cronenberg è nostro contemporaneo perché alla tecnologia conferiamo oggi un’oggettività estremamente avanzata rispetto a quella delle automobili che quindi adesso, nel film, riusciamo a leggere bene pure nella loro accezione metaforica.


mercoledì 10 luglio 2019

Wagner d'estate

Ordine d’ascolto personalmente preferito quando ci sono l’estate e il gran caldo che, come si sa, per antinomia climatica propiziano l’addensarsi di nebbie nibelungiche:

Die Götterdämmerung
Die Walküre
Siegfried
Das Rheingold


Poi si ricomincia ma nell’ordine giusto, però alternando gli ascolti con Die Meistersinger von Nürnberg e Tristan und Isolde. Parsifal sempre a maggior distanza temporale rispetto agli altri titoli.


lunedì 8 luglio 2019

The Dead Don't Die

Sulla lapide della tomba dalla quale è saltato fuori lo zombie di Iggy Pop c’è scritto il nome di Samuel Fuller: Sam, il grandissimo Sam, il cineasta per palati sopraffini. Perché va bene sì Romero, ma Jarmusch parla a molti per rivolgersi davvero solo ai più attenti. È anche per questo motivo che il suo nuovo e divertente film meriterebbe almeno una seconda visione, denso com’è - più che di omaggi e di rimandi da inventariare - di veri e propri clin d’œil fatti in amicizia; gli stessi che una persona considerata vicina nel gusto ti indirizzerebbe sapendo che tu già sai, dal momento che ami oppure ameresti le stesse sue visioni, musiche e letture.
Aristocratico nel gusto Jarmusch lo è sempre ma non sbarra mai la porta. Se sopravviveva al nostro presente insieme ai vampiri Adam e Eve, ora sta tutto dalla parte dell’eremita Bob perché la catastrofe totale è già in atto nella realtà infestata da zombie del conformismo e della religione del consumo. Quella è la peste nera che ha reso impossibile fare la cosa più importante: apprezzare il mondo così com’è godendosi i dettagli.


martedì 25 giugno 2019

Too Old To Die Young




«Una volta c’erano soltanto l’uomo e la natura. Poi arrivarono uomini che portavano le croci. Credevamo di essere il centro dell’universo. Che il sole e le stelle ruotassero intorno a noi. E abbiamo passato gli ultimi 500 anni, da Copernico in poi, in una lenta salita per arrivare dove siamo ora, a questo culmine della conquista umana. Dove finalmente abbiamo piegato la natura al nostro volere. Abbiamo scisso l’atomo. Abbiamo decifrato la struttura della realtà. Ecco quanta strada abbiamo fatto. Ora le luci delle nostre città arrivano più lontano delle stelle in cielo. Ma più la società è perfetta, più diventiamo psicotici. Ci siamo evoluti grazie alla brutalità. Per questo avevamo denti e artigli. L’auto-conservazione era la legge più forte. Ma, col passar del tempo, il branco ha iniziato a provvedere a noi e noi abbiamo abbandonato la nostra natura violenta. Ma non è scomparsa del tutto. Ci stava accanto quando dormivamo, in attesa. E, mentre aspettava, siamo diventati schiavi dei sistemi che avevamo creato. Ora sta crollando tutto. Presto le nostre città verranno spazzate via dalle inondazioni, verranno sepolte dalla sabbia, incenerite. Per questo hai trovato me. Perché ora vedi tutto questo. [...]
Mentre il mondo si spezza, qualcuno... qualcuno deve stare qui a proteggere l’innocenza.»



Too Old To Die Young, di Nicolas Winding Refn (stagione 1, episodio 4; La Torre)



Non guardo le serie tv, o meglio: prendo in considerazione solo quelle dirette da registi che fanno cinema d’autore. Per le altre mi fido di Alessandro Borghi, che le recita: «Le serie tv hanno fatto solo una cosa: hanno abituato il pubblico a vedere delle cose più belle.»
Del resto, non è la forma “a episodi” a suggerirmi giudizi negativi, dal momento che subito penso a Berlin Alexanderplatz di Fassbinder; dunque a cose importantissime.
Chi ama soggetti forti e storie torbide troverà in Too old to die young pane per i propri denti e coloro che apprezzano il cinema di Refn ne avranno qui declinazione certo non limitata al compendio. L'autore possiede un'identità fortissima ed è un manierista che si fa riconoscere anche da un singolo fotogramma. Il ritmo richiede una visione paziente perché è calibrato attorno alla costruzione di personaggi le cui identità possono mostrarsi diverse tramite un singolo cambio di luce.
Il contesto estetico nel quale agiscono (anche suono e musiche) è curato in modo maniacale e per ciascuna singola inquadratura; un contesto fatto per svuotarsi di ogni residua moralità quanto più a lungo è consentito guardarlo nella sua pura forma di colori, materia. E gli antieroi della serie alimentano una tensione morale arcaica quanto più agiscono in un contesto figurativo che lotta per fiaccarla.
Ci sono le ossessioni di Refn, a cominciare dal rapporto con la madre, e una California che nello sguardo del cineasta danese conserva più di un'eco del Dumont di 29 Palms. Ma anche una Los Angeles che si offre nella sua reale e spaventosa oscurità serale, così come negli interni rischiarati da luce tersa e impassibile.
Il respiro di ogni episodio è quello calmo e rituale dell'epica, intessuta di abbagli e ferite insanabili che condannano i personaggi all’accettazione del proprio destino. Anche perché «il tempo è un fiume che scorre in entrambe le direzioni» come ricorda Diana, che deve aver letto i Purāṇa della tradizione induista e abita un mondo pervertito al male nel quale un abbraccio, uno soltanto, sopravvive per testimonianza di una lacerante umanità.

giovedì 20 giugno 2019

Nell'anniversario della nascita di Jacques Offenbach (1819-2019)






È questa la casa in Griechenmarkt nr. 1 nella quale a Colonia, oggi, esattamente duecento anni fa, nasceva Jacques Offenbach (nato: Jakob Eberst). Per la verità non è proprio la stessa, perché dopo il 1870 i vecchi edifici furono abbattuti o ampiamente rimodernati per far posto al nuovo quartiere. Ma il luogo è esattamente quello.
Albert Wolff, futuro critico di Le Figaro, conosceva bene la famiglia del grande compositore e così ricorda: «La casa in cui è nato Jacques era piccola. La vedo ancora, sulla destra del cortile, all'estremità più lontana dalla quale si trovava la mia scuola. La porta d'ingresso era bassa e stretta; la cucina, pulita e luminosa, si trovava sotto il corridoio; pentole di rame appese alle pareti stavano in ordine bellissimo; la madre impegnata nel proprio raggio d'azione; sulla destra, dopo aver attraversato la cucina, un salotto affacciato sulla strada. Il padre si adagiava nella sua grande poltrona vicino alla finestra, quando non dava lezioni di musica; aveva una bella voce e suonava il violino. Il signor Offenbach era già un uomo anziano. Ho conservato un duplice ricordo del brav'uomo; talvolta, lasciando la scuola, io facevo troppo chiasso nel cortile e il signor Offenbach usciva per allungarmi qualche scappellotto; altre volte, nei giorni di festa, mi riempiva le tasche di pasticcini nei quali mamma Offenbach non aveva rivali in tutta la città.»
Sono ricordi simpatici ma bisogna tener presente che l'avventura artistica del grande compositore non fu affatto una passeggiata, figlio della prima generazione di musicisti ebrei emancipatisi grazie ad uno fra i tanti meriti della Rivoluzione francese. E teniamolo a mente anche quando ascoltiamo i capolavori di malizia, intelligenza e genio che ci ha lasciato Offenbach.

mercoledì 19 giugno 2019

"I masnadieri" alla Scala






Verdi è inesauribile perché capace di rivelarsi meravigliosamente problematico ad ogni approccio, sia nuovo del tutto (è il caso di un'esecuzione fresca fresca) oppure ritrovato. Penso, per iniziare, a questo ascolto che potrebbe essere sfuggito ad alcuni fra coloro che si preparavano ai Masnadieri aspettando la prima di ieri sera: il Preludio (magari si eseguisse qualche volta in sala da concerto!) affidato a un grande virtuoso e a un musicista d’indimenticata sensibilità. Qui il generosissimo fraseggio guadagna un'eloquenza fedele alla cantabilità schiettamente lirica, italiana, ma per meglio scaldarsi ai tepori della Romantik così da suggerirci che sì, il violoncello protagonista è proprio il registro tenorile e attorno a quel profilo drammatico il brano strumentale pretende da subito porre l’accento; porta d’accesso, dunque, ad un titolo che sfugge - ma quanto altri nel catalogo verdiano - a sbrigative rubricazioni.
Il compito divertente ma impossibile d'introdurre I masnadieri in poco più di un’ora è stato chiesto anche a me nelle scorse settimane. Come gli argomenti, anche gli approcci possibili sono moltissimi per un'opera tanto sfaccettata quanto ingiustamente poco rappresentata. E pure quando se ne parla al pubblico bisogna fare molta attenzione perché rischiosissimo è proporre a schemi la grammatica verdiana nel tentativo di profilare, gravitando attorno al primo titolo tratto da Schiller, un itinerario di riflessione politica ed etica che non soppesi passo a passo il dato congiunturale e storico facendolo intersecare con libere esegesi ed approfondimenti analitici; rischio è l’inciampo ogni qual volta si tenti di avvolgere Verdi in assunti di comodo pronti sempre all'eccezione. Ad esempio: il violoncello solista ricorre proprio in tutti i momenti di solitario desespoir dei personaggi verdiani, come sostenuto da altri? Don Alvaro avrebbe molto da obiettare. E ancora: cercando interazioni col nostro presente, è cauto parlare di "cosmopolitismo europeista" (categoria problematica a meno di non tirare in ballo, da remoto, Herder) per la ragione che Verdi scelse lavori di Hugo, Shakespeare e Schiller? E la dimensione valoriale del Risorgimento, anche quella da musica del cannone, si può rubricare a retaggio interpretativo del passato? Nell'organigramma bisognerebbe allora trovare un posto appropriato almeno per La battaglia di Legnano. E come leggere la scrittura verdiana nel rapporto coi suoi primi interpreti assoluti (anche il coro, attenzione, perché il caso dei Masnadieri è esemplare)?
Quando si è in teatro bisogna, poi, abbandonarsi al piacere dell'ascolto con la stessa contemporanea determinazione con la quale si ricordano alla propria mente dati e conoscenze. E ci si troverà allora confermati nel fatto che il teatro di Verdi alle soglie del fatidico '48 saggia la propria vena corrosiva sino ad attitudini autenticamente nichiliste, tanto nell’Attila quanto - e massimamente - nei Masnadieri. E taccio del Macbeth.
Ma per sfuggire alle semplificazioni sempre in agguato, bisogna al contempo ricordare quanto pathos tragico e vocazione retorica ispirate da Schiller continuino a preservare il credo morale e civile verdiano da distruzioni irredimibili.
In un clima tradizionalmente carico di tensione se in scena c'è Verdi alla Scala, sono allora stati eseguiti I masnadieri. Chi vuole potrà riconoscere soprattutto nelle prime due parti (l’opera si dava con un solo intervallo fra le quattro in cui è divisa) un direttore d'orchestra ancora piuttosto squadrato nell'accompagnamento dei cantabili (si veda in particolare quello del duetto Francesco/Amalia, momento davvero infelice nella serata) e prevedibile, talvolta sino allo scolastico, nel replicare agogiche e dinamiche delle cabalette. Già a suo tempo coccolato e sovradimensionato da una critica tanto affrettata quanto sciocca e giuliva, Mariotti ha però riservato risorse migliori per la seconda metà della serata scaldandola di felici intuizioni (come nel finale della parte terza) e da un passo adeguato a restituire prima l'atmosfera della notte ebbra e ruvida dei Masnadieri e poi il monologo di Francesco, laddove il baritono Cavalletti - in evidente difficoltà sin dalla sortita in un ruolo che lo eccede grandemente - ha trovato miglior fuoco, coadiuvato da un'orchestra che nei diversi rilievi analitici ha ben predisposto la dannazione del personaggio portando il numero all'apice drammatico con autentico climax.
La Oropesa è soprano molto sorvegliato negli acuti che suonano un poco stretti e non smaglianti, con mezzo penetrante per davvero nella grande sala solo quando la cantante sta al proscenio; non sembrano quelli, insomma, la risorsa migliore di una voce lirica di media dimensione. È duttile nel primo e secondo cantabile, anche se le volatine (da «E terra e ciel parevano») meriterebbero autentica scioltezza per suggerire il bagaglio stilistico della Lind; sarebbe molto interessante ascoltare la Pratt alle prese col ruolo. Di timbro decisamente accattivante, la Oropesa ricorda nell'amalgama del suono certe inflessioni della Popp al cui repertorio il soprano statunitense dovrebbe forse orientarsi. A lei il compito di scaldare, finalmente, con una buona esecuzione della cabaletta un pubblico sempre guardingo ma anche alla ricerca di nuovi beniamini.
Il momento forse più riuscito della serata è stato il duetto di Carlo col padre: un Pertusi che qui trova la linea giusta e un'orchestra di affettuose premure. Le virtù vocali di Sartori sono conosciute quanto certi suoi limiti che risiedono essenzialmente in alcuni suoni “indietro” e in frasi risolte con accento generico nei passi “alla Fraschini” («da quant'armi?» - «Non temete di gente che teme!»). Anche in queste premure, certo, Meli gli è decisamente superiore. Ma, se pure il nobile cogitare di Karl Moor gli è più lontano che non gli accenti dolenti di Foresto, Sartori è professionista che ha gudagnato nel tempo un modo più ammaliante di consegnare all'orecchio le frasi anche sul piano; un fatto che lo avvantaggia nel restituire gli abbandoni sentimentali del personaggio.
L'impianto scenico allestito per la regia di McVicar ancora una volta non rinuncia alla Storia per volontà di non consegnarsi subito alle attualizzazioni e così, nei momenti meglio riusciti, permette di far interagire col trapassato elementi figurativi a noi prossimi. Se assai più avvincenti risultavano i suoi Troyens, come là però ritroviamo identica fiducia nelle risorse della storia, quella con l'esse minuscola, anche se il regista sceglie di non ritracciarla alla lettera ma di evocarne le atmosfere in un unico ambiente destinato a disfarsi sotto i nostri occhi. I luoghi, talvolta, sono schilleriani assai più che verdiani, specie quando richiamano il Wallensteins Lager al posto della funéraille gotica della parte seconda. Enjambement drammatico chiamato a saldare l'insieme è un mimo che accompagna da cima a fondo i personaggi per condividerne vizi e virtù, quelli che il teatro del drammaturgo tedesco tanto amava urtare fra loro: costrizione coercitiva, autorità del potere, amor sublime, violenza sanguinolenta e così di seguito. Soluzioni sceniche e registiche non inedite ma che consentono di uscire da teatro con l’impressione - complici alcuni aspetti positivi dell'esecuzione – che sia stato complessivamente preservato l'itinerario drammaturgico dell'opera verdiana. E forse, si spera, nuovamente capace di solleticare nel pubblico riflessioni adeguate all'importanza del titolo.

venerdì 7 giugno 2019

Interludio bolognese


La sua vigorosa vecchiaia ha i volti e le forme del gotico. Bologna è nel Medioevo quello che Pompei è nell'Antichità: un monumento ai costumi e alla domestica esistenza dei secoli. 

Lady Morgan, Italie, Parigi 1821



Io, toscano e fiorentino di razza... io amo anzi tutto e soprattutto e per tutto tutta Italia e poi dopo Bologna. 
Amo Bologna, per i falli, gli errori, gli spropositi della gioventù che qui lietamente commisi e dei quali non so pentirmi. L'amo per gli amori e i dolori, dei quali essa, la nobile città, mi serba i ricordi nelle sue contrade, mi serba la religione nella sua Certosa. 
Ma più l'amo perché è bella. A lei anche infocata nell'estate, torna il mio pensiero dalle cime delle Alpi e dalle rive del mare. 
E ripenso a momenti con un senso di nostalgia le solenni strade porticate che paiono scenari classici e le piazze austere, fantastiche, solitarie, ove è bello sperdersi pensando nel vespero di settembre o sotto la luna di maggio, o le chiese stupende ove sarà dolce, credendo, pregare d'estate, i colli ov'è divino essendo giovani, amare di primavera, e la Certosa in alcun lembo della quale, che traguardi dal colle al dolce verde immenso piano, si starà bene riposare per sempre.
Bologna è bella. Gli itialiani non ammirano quanto merita la bellezza di Bologna: ardita, fantastica, formosa, plastica nella sua architettura trecentistica e quattrocentistica di terra cotta, con la leggiadria delle logge, dei veroni, delle bifore, delle cornici. 
Che incanto doveva essere tutta rossa e dipinta nel cinquecento! I secentisti spagnoli e gli arcadi settecentisti la guastarono mortificandola di lividori, mascherandola e mettendole la biacca. 
Oggi a mano a mano i lividori spariscono alla luce delle libertà, la maschera e la biacca si spasta. 
E le bellezze di Bologna sorridono al sole.

Giosuè Carducci, Il centenario dell'Università, in Bologna nel 1988, Supllemento Straordinario del Secolo, 10 giugno 1888



I tesori della Pinacoteca bolognese non stancano di certo, anche se bisognerebbe migliorarne molto la fruibilità cominciando dalle didascalie. Da non mancare è pure una visita agli altri musei bolognesi: quello “della città”, ad esempio, che è scenografico.
Nella collezione delle Belle Arti - accanto a Giotto, Raffaello, ai Carracci, a Reni - stanno nientemeno che un ultimo Tiziano e il feroce El Greco, che in pochi centimetri di tavola ti trasporta a Toledo.
Ma al Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell’Arca, in Santa Maria della Vita, è bello tornare a distanza di pochi giorni, anche di poche ore, per una necessità che si precisa ad ogni approccio. Le opere scultoree capaci di chiamare alla partecipazione più viva non mancano altrove; penso, ovviamente, alle presenze marmoree di Bernini. Certo, la terracotta non è il marmo e le ragioni che chiamano ad interrogarsi sul capolavoro di Niccolò dell'Arca risiedono assai nei misteri dell'opera e delle sue fonti dirette; ma si trovano pure altre suggestioni, assecondando il privilegio dell'interpretazione.
Trovo che la dimensione a grandezza naturale delle sette sculture, disposte fronte agli spettatori nascondendo i piedistalli, consenta d'instaurare tra il gruppo e i presenti (non mi è ancora capitato di esserci da solo, al massimo con quattro o cinque visitatori) un rapporto di sudditanza relazionale: vince su chi guarda chi in terracotta è guardato.
Il fatto che, in questo genere di opere, la ricerca di coinvolgimento emotivo sia anzitutto parte dell'intento artistico e devozionale è cosa risaputa. Eppure non saprei valutare quanto Niccolò dell'Arca, per espressioni e gesti così prossimi al vero, avesse considerato appieno le diverse implicazioni. L'elevatissimo grado d'intensità drammatica generata dal gruppo scultoreo è nota anche alla sua letteratura; si va dalle Marie «sterminatamente piangenti» di Malvasia (scrisse così nel secolo barocco, quello che lo scultore pugliese-bolognese aveva anticipato in modo tanto preveggente) al «Dolore furiale» di D'Annunzio. Ma, stando fronte alle statue, esse ci conducono forse a prender parte ai sentimenti altrui per farli nostri? Mi pare, invece, che per esorbitante trasmissione d'affetti ricevano da noi una muta gravità che solo allontanandosi è possibile determinare nelle ragioni e a parole. Timore deferente è il nostro davanti a morte e dolore così impetuosamente scontrati, inscenati nell'atto affliggente che si consuma sotto lo sguardo e che ci pone nello stato di un sincero imbarazzo. La partecipazione emotiva si misura allora, forse, nel suo contrario: l'esclusione, l'assenza.
L’azione riprecipita difronte a chi guarda con tale immediatezza che subito ci si sente come "di troppo". Si crea, per diversi istanti, un disagio attrattivo; a sorpresa, il gruppo ci restituisce il nostro impedimento, la nostra inadeguatezza a prendere parte alla tragedia. E fra visitatori ci si trova immersi in un silenzio reciprocamente contagioso, proprio davanti ad un Compianto fatto di urla e grida. In un istante fulmineo e inesauribile la Maddalena piomba nello spazio neutro in cui abita il gruppo; uno spazio che, dopo diversi minuti, riguardiamo per pensarlo vestito di elementi architettonici. La nostra attenzione è ogni volta chiamata per prima da lei, da Maddalena; e forse ancor più dal panneggio che corre in scena portando un dolore declinato con attitudini diverse dalle pie donne. È davvero il Compianto del grido e dell’urlo? Mi pare lo sia se letto attraverso i molti vividi particolari, perché l'atteggiamento ricettivo al quale dispone potrebbe invece definirsi prossimo a quello che distingue San Giovanni, incagliato al centro in uno stato d'animo che non è ancora capace di articolare.
Si consuma a un passo da noi, che guardiamo da dietro una piccola inferriata, un evento consumatosi due millenni fa per esserci restituito con immediato realismo e una porzione scomposta di verità capaci d'instaurare una relazione fra spettatore e Tempo che trovo davvero enigmatica. L'opera, infatti, per via dell'eccesso d'esattezza nel consegnarsi allo spettatore, marca la distanza temporale mediante la partecipazione muta e grave di chi la fruisce; ed è quella stessa feroce mimesi statuaria che, per intrinseca verità, dispone all'immediatezza del presente.
C’è poi il mistero di quale fosse l'originale posizionamento di ciascuna delle sette figure. A me questo, che è novecentesco, convince molto (quella centrale sta un passo esatto dietro alle donne), anche se ho imposto a me stesso d'immaginarne un altro possibile.
Giuseppe d'Arimatea invita allo sguardo lo spettatore, ma solo per ricordargli di continuare a tacere; da vicino è insostenibilmente ammiccante. Le tracce di colore si vedono molto bene dal vivo, in particolare il blu pavone. Ma quali erano gli altri colori delle statue? Per la verità non vorrei che continuare a guardarle così, con quel dominante e terragno incarnato che suda alla luce.


Alfonso Lombardi, Compianto sul Cristo morto (circa 1524) in Cattedrale di San Pietro
Alfonso Lombardi, Compianto sul Cristo morto (circa 1524) in Cattedrale di San Pietro
“Panis vita, canabis protectio, vinum laetitia”, ovvero: “Il pane è vita, il vino è allegria, la cannabis è protezione”. Questa scritta, che fa riferimento alla ricchezza che la coltivazione della canapa ha portato a Bologna la si trova in via Indipendenza, quasi all’angolo con via Rizzoli, sotto la Torre Scappi, sulla volta del Canton de’ Fiori.
“Panis vita, canabis protectio, vinum laetitia”, ovvero: “Il pane è vita, il vino è allegria, la cannabis è protezione”. Questa scritta, che fa riferimento alla ricchezza che la coltivazione della canapa ha portato a Bologna la si trova in via Indipendenza, quasi all’angolo con via Rizzoli, sotto la Torre Scappi, sulla volta del Canton de’ Fiori.

La fontana del Nettuno e la facciata di Palazzo d'Accursio in Piazza Maggiore

Il Nettuno della fontana in Piazza Maggiore, opera di Portigiani, Laureti e Giambologna (1566)

La Porta Magna di Jacopo della Quercia (Basilica di San Petronio), dal 1425

Le volte della Basilica di San Petronio, 1390-1663

Nella navata centrale della Basilica di San Petronio, 1390-1663

Il ciborio dell'altare maggiore è opera del Vignola (1547) e il crocifisso ligneo è quattrocentesco, nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

Il Giudizio Universale della Cappella dei Re Magi (Cappella Bolognini) affrescato da Giovanni da Modena (circa 1410) nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

L'Adorazione facente parte delle Storie dei Re Magi nella Cappella dei Re Magi (Cappella Bolognini) affrescate da Giovanni da Modena (circa 1410) nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

Polittico ligneo con ventisette figure intagliate e altre dipinte, opera di Jacopo di Paolo (XV secolo)
nella Cappella dei Re Magi (Cappella Bolognini), nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

Pavimento a maioliche della Cappella di San Sebastiano, nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

Guardando la Cappella dei Re Magi (Cappella Bolognini) affrescata da Giovanni da Modena (circa 1410) nella Basilica di San Petronio, 1390-1663

Nella navata centrale della Basilica di San Petronio, 1390-1663

Pulpito ligneo nella navata centrale della Basilica di San Petronio, 1390-1663

Pannello centrale del rosone (appena restaurato), opera di Giacomo da Ulma su disegno di Michele di Matteo, nella Cappella della Santa Croce (Cappella Rinaldi) della Basilica di San Petronio, 1390-1663
Sotto i rilievi della facciata, verso la Porta Magna di Jacopo della Quercia (Basilica di San Petronio), dal 1425

Parte della facciata della Basilica di San Petronio, dal lato della porta sinistra con le sculture e i rilievi di Jacopo della Quercia, dal 1425

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)
Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)

Stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori sulle volte dell'Archiginnasio (1563)
Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando i colli

Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando la città

Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando la città: la cupola del Duomo di San Pietro e le due torri più celebri.

Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando la città: la cupola del Duomo di San Pietro e le due torri più celebri.
Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando verso Santo Stefano

Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando verso i colli

Sul tetto della Basilica di San Petronio, guardando verso i colli si scorge il Santuario della Madonna di San Luca

La Torre degli Asinelli (1109-1119)

Palazzi nei pressi della Torre degli Asinelli (1109-1119)
Interno della Chiesa del Crocefisso (VIII secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)
Interno della Chiesa del Crocefisso (VIII secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)
Interno della Basilica del Sepolcro (V secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Interno della Basilica del Sepolcro (V secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Interno della Basilica del Sepolcro (V secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Interno della Basilica del Sepolcro (V secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Interno della Basilica del Sepolcro (V secolo) nel complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)
Interno della Basilica dei protomartiri San Vitale e Sant'Agricola, la più antica del complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)
Interno della Basilica dei protomartiri San Vitale e Sant'Agricola, la più antica del complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Interno della Basilica dei protomartiri San Vitale e Sant'Agricola, la più antica del complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)

Sarcofago altomedievale nella navata di destra della Basilica dei protomartiri San Vitale e Sant'Agricola, la più antica del complesso di Santo Stefano (dal IV secolo)
Il cosiddetto "Cortile di Pilato", uscendo dalla Basilica del Sepolcro, con vasca in pietra calcarea: opera longobarda 737-744
I porticati in stile romanico che affacciano sul cosiddetto "Cortile di Pilato", uscendo dalla Basilica del Sepolcro, con vasca in pietra calcarea: opera longobarda 737-744

Nel chiostro del complesso di Santo Stefano, su due piani: quello inferiore (probabilmente anteriore al Mille) è impostato su ampie aperture ad arco preromaniche; quello superiore è colonnato in stile romanico, probabilmente opera di Pietro d'Alberico (metà del XII secolo).

Nel chiostro del complesso di Santo Stefano, su due piani: quello inferiore (probabilmente anteriore al Mille) è impostato su ampie aperture ad arco preromaniche; quello superiore è colonnato in stile romanico, probabilmente opera di Pietro d'Alberico (metà del XII secolo). Campanile del XIII secolo.

Nel chiostro del complesso di Santo Stefano, su due piani: quello superiore è colonnato in stile romanico, probabilmente opera di Pietro d'Alberico (metà del XII secolo)
Nel chiostro del complesso di Santo Stefano, su due piani: quello inferiore (probabilmente anteriore al Mille) è impostato su ampie aperture ad arco preromaniche; quello superiore è colonnato in stile romanico, probabilmente opera di Pietro d'Alberico (metà del XII secolo).

Decorazioni sulla parete esterna della Basilica del Sepolcro (V secolo)

La tomba del glossatore Ronaldino de' Passeggeri (1305), al fianco della Basilica di San Domenico
L'Arca di San Domenico, dal 1267 opera di Nicola Pisano nella Basilica di San Domenico cui seguirono Niccolò dell'Arca, Michelangelo Buonarroti, Alfonso Lombardi e Jean-Baptiste Boudard.

Sull'Arca di San Domenico, dal 1267 opera di Nicola Pisano nella Basilica di San Domenico, a destra il San Procolo scolpito dal giovane Michelangelo Buonarroti
Nella Basilica di San Domenico, La gloria di San Domenico di Guido Reni (1613) nella Cappella del Santo
Nella Basilica di San Domenico, La gloria di San Domenico di Guido Reni (1613) nella Cappella del Santo. Al centro l'Arca di San Domenico.

L'organo della Cappella del Rosario sul quale Wolfgang Amadeus Mozart, nella Basilica di San Domenico, studiò come allievo di Padre Martini. L'organo è del 1760, opera di Giovagnoni.

Nella cappellina Casali, a destra dell'altar maggiore, nella Basilica di San Domenico, Il Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria di Filippo Lippi (1501)
Nella cappellina Casali, a destra dell'altar maggiore, nella Basilica di San Domenico, Il Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria di Filippo Lippi (1501)

Spaghettoni al ragù di agnello
Cotoletta alla bolognese

La finestrella di Via Piella che affaccia sul Canale delle Moline

Facendo tortelli sotto la Torre degli Asinelli

La Torre degli Asinelli (1109-1119) e la Torre della Garisenda (1109-1110)
Lippo di Dalmasio, Polittico, 1390 circa (Pinacoteca Nazionale)
Giotto, Polittico di Bologna (1330-1334). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Rinaldo di Ranuccio, Crocefisso (1265). Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Francesco da Rimini, Quattro figure in costume laico (1320-1325). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino (1490 circa). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Ercole Roberti, Volto di Maria Maddalena piangente (14780-1486). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Antonio e Bartolomeo Vivarini, Polittico (1450). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Raffaello, Santa Cecilia in estasi con i santi Paolo, Giovanni evangelista, Agostino e Maria Maddalena (1518 circa). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Il Parmigianino, Madonna col bambino e i santi Margherita, Girolamo e Petronio (1529). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

El Greco, Ultima cena (1567-1568). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Tiziano Vecellio e aiuti, Gesù Cristo e Il buon ladrone (1563 circa). Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Guido Reni, Gesù Cristo in pietà pianto dalla Madonna e adorato dai santi Petronio, Francesco, Domenico, Procolo e Carlo Borromeo (1616). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Guido Reni, Sansone vittorioso (1617-1619). Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Annibale Carracci, L'Arcangelo Gabriele. La Vergine annunziata (1588). Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Affresco staccato da Palazzo Torfanini ed opera di Niccolò dell'Abate, Alcina riceve Ruggero nel suo castello (XVI secolo)
Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita
Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita
Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

Compianto sul Cristo morto (1463-1490) di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita

La ex-ghiacciaia del XIV secolo nell'Hotel "I Portici"

La terrazza dell'Hotel "I Portici"

Alla stazione di Bologna