venerdì 22 dicembre 2017

D'Ormesson, Tiziano, Allen, Mozart

Qualche cosa sulle ultime ventiquattr'ore.
La conversazione di D’Ormesson si legge con quel piacere che non fa star fermi sulla poltrona. Sono frasi autentiche di Napoleone che il grande scrittore anima nel dialogo insieme a Cambacérès con vivo istinto della parola teatrale; un gioiello di acume e leggerezza. Le attenzioni del primo console che sta per proclamarsi imperatore vanno al dominio di un mondo mai abbastanza vasto per la propria ambizione così come allo scialle armeno («d’un goût affreux»!) oggetto di contesa per la nouvelle noblesse dei Bonaparte. Come fu a Carqueiranne qualche anno fa, speriamo venga in mente pure ad una compagnia italiana d’inscenare il testo.
Sacra è la Conversazione del Tiziano in prestito a Palazzo Marino, dove non si possono staccare gli occhi dalle macchie cangianti della luce crepuscolare accesa di tepore e quiete riflessiva attorno alla Vergine.
Prodigi che si cercano sullo schermo quando il colore è affidato ai pennelli di Storaro. Il cinema di Allen è forse il più identitario fra quelli dei pochissimi grandi vecchi in attività. L'impressione è di trovarsi difronte a sempre nuova variazione di un tema fatto di motivi differenti che gravitano attorno allo stesso polo; non senza orgogliosi riferimenti bibliografici (qui Ernest Jones). Ben oltre il frustro meccanismo metateatrale (il bagnino drammaturgo racconta e fa la storia) sono i personaggi ad essere agiti dal cinema, proposti come paradigmi filmici, proiezioni su cellulosa di desideri e aspirazioni, tutt'uno con la vita e il grande schermo; dunque Storaro con retroilluminazioni e virate al seppia, al verde. La ruota delle meraviglie (quella di Coney Island come il circo di Ombre e nebbia) è cinema di scrittura ma assai più di attori: qui l'omaggio è alla Winslet, per nulla seconda a Jasmine (Blanchett) di qualche film fa. Il congedo è amaro al punto giusto perché ai nostri tempi l'autoillusione genera mostri.
Antonini alla Scala per Mozart vuol dire applaudire ancora un direttore capace di trovare la quadra fra nitidezza dei profili melodici e amabilità del suono, ragion pratica negli accompagnamenti e senso dell'insieme: una lettura della K427 alla ricerca d'intima tensione, emotiva e musicale nel cuore del capolavoro (il rigore severo del Qui tollis benissimo cantato dal Coro). Sono questi gli ascolti capaci di tener viva l'attenzione con ingredienti sapidi, pur in assenza di una componente basilare: il canto della coppia di soprani è, infatti, davvero impari al compito. Prima c'è la Rae, con il Mottetto, quale prototipo della cantante presunta “stilista” che passa dallo studio di registrazione alla sala per rivelare la natura di un canto fatto di suoni e suonini flautati, ridicolmente ingrossati quando trovano la nota “di forza” laddove altrove sono direttamente emessi indietro. Alla sua prestazione si è poi aggiunto il malcanto della Invernizzi con un'organizzazione vocale ripartita nel campionario di suoni spoggiati, tubati e fissi.



domenica 10 dicembre 2017

Una testimonianza su Maria Callas in "Andrea Chénier"


Un fatto simpatico sulla Maddalena della Callas. Me lo raccontò un amico che purtroppo non c’è più, callasiano scaligero “tessera numero uno”. Il soprano interpretava Andrea Chénier a Milano nel gennaio 1955. All’incontro col protagonista sotto l’altare di Marat, quando cantava «Ognora il mio destin | Sul mio cammin vi sospingea», teneva il palmo delle mani premuto sul bacino per farle poi scivolare con lentezza ed espressione verso l’inguine. Alcuni maliziosi pensarono che la Callas volesse connotare sessualmente l’incontro col poeta e che, insomma, di un particolare destino si trattasse. Il mio amico ed altri, dopo la recita, presero in disparte la Callas in via Filodrammatici per raccontarle il pettegolezzo. Lei al principio non capiva l’equivoco ma quando le fu spiegato nel dettaglio cadde dalle nuvole. Portando la mano in fronte disse: “Per carità, ma cosa mi raccontate... figurarsi se pensavo a questo!”.
Il testimone del fatto me lo riferiva a riprova dell’ingenuità della donna; prima di conoscere l'armatore greco, ovviamente.
Abbiamo davvero alle spalle, oggi, certe pruderie anni ‘50. È così che la Netrebko mai si è vista - vado a memoria - in una produzione nella quale non figurasse un letto su cui trovar modo di stendersi o di esser stesa. E non soltanto per morire di tisi, perché esplicitare i riferimenti sessuali non è più tabù.

venerdì 8 dicembre 2017

"Andrea Chénier" alla Scala




«Giustamente Marat aveva notato che i giornalisti sono i primi dispensatori di reputazione»; così Brissot nel fare il ritratto dell'Amico del popolo. Si legge nella bella antologia di Emil Cioran recentemente pubblicata da Adelphi che cura per l'Italia l'opera dello scrittore rumeno. A noi, invece, la fantasia d'immaginare Marat vivente mentre, dalla bella effige disegnata da Margherita Palli per innalzarlo sull'altare nel quadro secondo, assiste all'Andrea Chénier della Scala e forse indovina le virtù degli artisti e dell'opera assegnate con eccesso di zelo ed aggettivazione bombastica da promozione e giornalismo, l'un con l'altro armati. Del resto non è più di moda certa temperanza; troppo laconica nella comunicazione - è vero - eppure indice di umiltà e concentrazione adatte ad appuntamenti artistici d'interesse culturale. Ma oggi qui, prima di cominciare, occorre ribadire ovvietà: i trionfi si fanno con le uscite singole e l'opera si giudica dal vivo. E questo con buona pace tanto degli incensatori quanto di certe tricoteuses che attendono di veder scorrere il sangue degli artisti, magari a favore di canale nazionale. 
Come sempre il titolo, anzitutto. Nel repertorio cosiddetto verista, alla riproposta del quale promette dedicarsi il direttore musicale, Chénier è certamente lavoro fra i più amati: all'assenza trentennale dalla Scala si è dunque posto rimedio. Un ritorno che non è però tassello per la nuova valutazione del Verismo sulle tavole del palcoscenico dal momento che, provarci con Chénier, sarebbe come ristimare la letteratura fin de siècle offrendo al lettore Il piacere al posto del Trionfo della morte o dei romanzi di Vallès. Altri titoli del teatro del periodo, infatti, chiederebbero il focus del 7 dicembre: ad esempio Louise e La Wally, oppure restando al compositore foggiano Siberia, e andando ancora ad opere con prima assoluta milanese Gloria di Cilea. Eppure la presenza di Francesca da Rimini nel corso della nuova stagione è indizio di una prospettiva che il titolo di Giordano - tutt'ora fra le cento opere più eseguite al mondo - s'incarica di suggerire.  
Come l'altro maestro milanese che fu direttore musicale alla Scala, Chailly ama, più ancora che ampliare il repertorio, ricalcare i propri passi approfondendone il solco. Per questa ragione il suo Chénier si richiama a quello dell’85 che vantava cast decisamente più solido, specie nelle accensioni melodrammatiche a garanzia della complessiva tenuta narrativa. Oggi l'ottima prova dell'orchestra, che è magnificamente equilibrata dal grande concertatore, sfoggia un suono ricco e dai contorni ancor più arrotondati. Da riascoltare la levità trasparente e trasognata del concertato quadro secondo nella quale il direttore mette a decantare il lungo motivo degli archi; pure molto belli i colori sulle tinte calibrate ai legni quando si fa notte al biancastro chiarore di lampioni e lanterne. Ma anche tutto lo squarcio processuale del quadro terzo è restituito da Chailly con gravità oratoriale e dal coro con partecipazione vibrante; qui la riapparizione del tema del duetto Maddalena/Chénier guadagna un nitore modernissimo, forse addirittura inedito. Quanto ad urgenza drammatica è certo uno Chénier non poco disinnescato, che ci avvantaggia piuttosto nella comprensione della scrittura giordaniana mai incolta o trascurata. Più in generale, sta in altre interpretazioni quella duttilità - non dei contorni sonori - ricercata fra l'assortimento di gesti musicali capaci di rendere in continuazione stimolante il rapporto tra buca e palcoscenico.
Il capolavoro di Giordano è opera composta un po’ con quella febbre che scalda molti personaggi nei romanzi e sulle scene in quello scorcio di secolo XIX; individualità che debordano dalla trama per farsi paradigma, e poi paradigma al quadrato come sono le interpretazioni di cantanti entrati nella leggenda. Difficile è riconoscere un comune denominatore ai compositori del Verismo. Piuttosto esiste una intensità verista; una febbre che, nel tempo, ha condotto certi effetti al parossismo. Laddove Puccini costruisce con logica drammatico-musicale ferrea e pervasiva, in Chénier la narrazione avanza mediante stimoli di segno diverso che in più momenti, per reggersi, hanno bisogno di trovarsi in contrasto. È un procedimento che mantiene in tensione differenti registri drammatici; caratteristica della scrittura giordaniana che conduce, negli esiti più felici, fino alla Cena delle beffe e che è pure cifra musicale alla quale soccorre la brevità nel taglio degli atti. Cito, ad esempio, quell’effetto cercato già al principio nell'invettiva di Gérard che, rapidissima, diventa il molle sguardo di Maddalena sul tramonto cui risponde l'«Eterna canzon»: ragione principale del dramma, posta qui in dialettica col suo romantico alter ego (la morte evocata dal baritono). 
Un altro direttore nemico degli applausi a scena aperta, Antonino Votto - che certa vulgata vorrebbe sia stato poco più che un ragioniere del podio - sorprende come fa spesso quanto a ricezione della strategia drammatica cercata da Giordano, offrendo una direzione febbricitante proprio nella pagina che dà abbrivo all’azione (sarebbe splendido possedere il passo anche nella registrazione di De Sabata). Laddove il Settecento dei salotti è frivolo e distaccato per lo sguardo deformante del fin de siècle - si pensi al tocco nervoso ed abbreviato che ritroviamo in Chénier durante l'attesa degli ospiti come nei soggetti ispirati a Boldini dal secolo dei Lumi -, quel Settecento è pure capace di farsi (la varietà, gran pregio!) mollezza vaporosa nel Coro di Pastori e Pastorelle. Con Votto, ecco la punta secca e nervosa del disegno, poi l'acquerello ed infine un'esecuzione satirica e ammiccante del passo di gavotta che chiude il quadro primo.
Ieri sera il palcoscenico rispondeva alla buca dell'orchestra con il personaggio eponimo affidato a Yusif Eyvazov. Il suo mezzo incapace di guadagnare penetrazione in sala è adatto ad altri teatri o magari ad una terza distribuzione, quando alla Scala era dato ascoltarne più di una. La voce del tenore latita al centro in cui la parte del poeta dovrebbe cercare i punti di forza dell'espressione e dell'accento; è di timbro infelice e a tratti morchioso al quale si aggiunge un'attitudine interpretativa generica sino allo scolastico che non riesce a cancellare l'impressione di trovarsi costantemente in agguato. Se certo non lo soccorrono le doti sceniche, lo studio gli ha fatto però guadagnare acuti sicuri che testimoniano una natura da tenore leggero. Se è impossibile domandare a Eyvazov una caratterizzazione musicale a tutto tondo del ruolo, i momenti di medio respiro sono ben legati e proposti con un garbo che meriterebbe provarsi in altra musica che non sia, ad esempio, la difesa al tribunale o lo slancio del duetto quadro secondo
La scrittura di Maddalena pone la voce di Anna Netrebko a contatto scoperto con la zona tra centro e grave attorno alla quale, già da Fa, il suo generoso mezzo tende a impastarsi. Se il fatto è evidente pure nel canto di conversazione del quadro primo (in cui anche l'articolazione lascia a desiderare), il soprano possiede però quei ferri del mestiere che le consentono di puntare sulle risorse migliori del proprio canto: ed ecco le belle smorzature nei duetti con l'amato e le dinamiche trovate nella «mamma morta». Si dirà, a ragione, che gli acuti non possiedono lo splendore di qualche anno fa e che fraseggio e accento non sono indimenticabili. Eppure c'è nell'artista una saldezza tecnica e di mezzi davvero sconosciuta a molte, troppe, sue colleghe; quella robustezza che consente alla Netrebko di adattarsi anche quando certe prese di fiato compromettono la linea delle frasi e l'intonazione non è immacolata.
Tutto fuorché pura è anche l'intonazione del baritono Salsi, Gérard che si colloca nel filone di quelli più parlati che cantati, anche se il mezzo è tutt'altro che di limitata estensione. Ma il cantare sul respiro come, ad esempio, bisogna fare nella sezione centrale di «Nemico della patria», richiederebbe una ampleur che solo un'amministrazione rigorosa della tecnica permette e un mezzo grosso di natura definisce, quello che in teatro Salsi non fa ascoltare. Quando la dinamica sfuma, non mancano irrigidimenti e nasalità («gigante mi credea», «io della redentrice figlio» e «il sognato destino»). Già nella sortita del quadro primo, Salsi profila un Carlo arcigno ben più che adirato, lontano dai tratti di un personaggio le cui ripulse siano ben temprate dall'esperienza e dalla letture, modellato più dallo sforzo che dalla definizione musicale; a tali mancanze s'incarica di sopperire la figura scenica capace d'imporsi, più avanti, difronte alla specchiera in stile impero (libertà concessa al regista dai tanti anacronismi del libretto). 
Nel ricco comprimariato risalta l'Incredibile di Bosi mentre non sarebbe guastata una Bersi con acuti (quelli medi della parte) che suonassero più "avanti" e una Madelon meno sorvegliata nell'espressione; lo squarcio saprebbe commuovere con pochi accorgimenti.
La regia di Martone si avvantaggia dalle scene della Palli, disegnate con tratto elegante e stilizzato nemico del bozzettismo, e dalla restituzione priva di forzature di un senso della Storia ammalato di disillusione: si apprezzava nel bellissimo Noi credevamo (2010). Il cinema suggerisce al regista qualche soluzione che ben si adatta al palcoscenico come i fermo-immagine per imprigionare gli invitati, fantocci di un mondo trapassato. Non è quello il giardino d'inverno ma un salotto in cui le boiseries dorate attorno ad ampi specchi non rilucenti contribuiscono a definire un clima antiquato che il palcoscenico in rotazione, come la Storia che passa e travolge, ci sottrae lasciando gli aristocratici all'ultimo giro di gavotta. Davvero troppo poco affollato per restituire la foule animée è invece il principio del quadro secondo, forse allo scopo di privilegiare l'impatto visivo del quadro seguente con una gradinata frontale molto bene infervorata e poi arrestata sullo stop-motion. Se il lavoro di recitazione pare aver lasciato al terzetto dei protagonisti ampio margine di manovra, Martone ha scommesso sulle suggestioni che l'ambientazione rivoluzionaria del libretto sollecita piuttosto che sui luoghi originari, fino a indirizzare al proscenio (sipario chiuso e mezze luci in sala) l'attenzione di un pubblico chiamato a far proprio l'appello patriottico e poi congedato sulla livida alba parigina un momento prima che il boia faccia accomodare sulla ghigliottina i figli della Nazione.





   

mercoledì 29 novembre 2017

Detroit

Nei suoi nuovi 143 minuti (da guardare rigorosamente in lingua originale) la Bigelow è ancora una volta capace di stare dentro alla storia, sia quella con la esse minuscola che quella con la esse maiuscola. Ed è allo stesso grado maestra nel convincere lo spettatore di trovarsi in una realtà che per essere compresa ha bisogno non soltanto di essere attraversata ma di fare prigionieri.


lunedì 23 ottobre 2017

"Der Freischütz" alla Scala



Per fuggire i miasmi del capoluogo lombardo ci si può rifugiare per un po' nel Wald di Weber affidato alle premure di Myung-Whun Chung. È una cura attenta a mettere in valore non il caratteristico d'atmosfera e il diavolesco ma invece l'abbraccio con una natura che ci si trova portati a comprendere (e si tratti pure del sovrannaturale) in entrambe le accezioni: contenere in sé stessi, penetrarne il senso. Si tratta di un lettura che, con tutta evidenza, si inserisce nel filone che fa capo a Furtwängler ma possiede altresì caratteri autenticamente personali. 
Qui di seguito una breve nota sull'interprete Chung dal momento che la grandezza del musicista è a tutti conosciuta. Comincio con un'impressione. Venerdì sera un momento dell'Ouverture mi ha riportato alla mente il Thundersorm della Pastorale beethoveniana diretta da Giulini al Teatro Lirico di Milano; il suo testamento musicale, credo. Quel senso inclusivo e conciliante, fondato su un approccio religioso all'elemento naturale inteso come manifestazione del divino in ogni sua forma, mi è parso riconoscerlo in Chung. Già la prima sezione dell'Ouverture evocava, infatti, una dimensione perfettamente in grado di trascendere la mimesi del risveglio montano sulla tonalità genuina di Do maggiore per abbracciare col mondo incontaminato cantato dai corni una ben più profonda, intima e morale visione della natura. Il brano introduttivo all'opera, sintesi dell’avventura del protagonista con l'insinuarsi del demonio nel cuore fragile e puro, accoglieva poi in luogo dello scatenamento tellurico delle forze del male (esposizione del primo tema congiunto ai motivi tratti dall’aria di Max), un ritardando molto marcato al culmine del crescendo a poco a poco che lungo la forcella conduce al fortissimo sull'accordo in minore; un gesto trattenuto, lasciato sospeso per far disinnescare invece che amplificare la detonazione del tuono che suona così come domato da una volontà superiore, iscritto in una logica unitaria (il repiro lungo del legato direttoriale). La vittoria del bene, infine, incarnata nel secondo tema (Agathe che accoglie l’amato cacciatore) suona in orchestra saluto indulgente ben più che festosa epifania liberatrice; un porto sicuro, conseguenza naturale di un attraversamento doloroso di cui, al principio, si è accettata e compresa la ragione. A suggello di questa lettura, l'episodio (bb. 279-287) che porta alla coda del brano - in Furtwängler, ad esempio, è apparizione mitica e creazionale (Weber ha certo guardato ad Haydn) - da Chung è adagiato su un'orchestra di morbida sonorità e placido incedere: un'opera divina che è soprattutto benevola, indulgente.
Il ragionare intorno alla grazia e alla giustificazione quale accoglienza della giustizia di Dio e riconciliazione con l'uomo nella visione cattolica e in quella luterana porterebbe troppo lontano; ma mi pare chiaro da quale parte Chung ci ricordi stia il cattolico Weber. 
Anche le pagine "caratteristiche" si trovano iscritte dal direttore in una logica di respiro unitario: quello ampio di un legato di gran classe che abbraccia le pagine d'insieme e che distingue già la Bauern-Marsch ed il Walzer (più eleganti acquerelli che disegni coi tratti stilizzati del folklore) come la ballata di Kaspar e più ancora la sezione centrale dell'aria, specie per venire incontro ad un interprete in difficoltà. Romanticismo maturo è quello nel quale il direttore ha collocato l'opera; la gustiamo però senza forzature estetiche ma come bagaglio di suggestioni musicali a venire (il Bruckner di Chung merita attento ascolto) e con una "Gola del lupo" d'impeccabile tenuta drammatica.
Una lettura siffatta avrebbe meritato distribuzione ben più adeguata e messa in scena assai più sensibile. Con la consueta incoscienza del pericolo - che sempre fa rima con ridicolo - la pagina online della Scala invita ad apprezzare lo squillo da Heldentenor di Michael König forse ignorando il significato del termine o avendo evitato di ascoltarlo: un timbro infelicissimo e un cantante in difficoltà nella scrittura centrale, quella sulla quale insiste tutta la parte. Meglio i due soprani alla sortita ma, nell'atto terzo, tanto gli acuti fibrosi della Kleiter (Agathe), filati lungo una linea di canto già poco ammaliante, quanto il ricorso al parlato da parte della Liebau nella bellissima «Einst träumte meiner sel`gen Base» contribuiscono a compromettere la resa di un cast insufficiente pure nelle parti di contorno (fa eccezione il Kuno di van Hove) e risollevato solo al termine da Stephen Milling (Ein Eremit).
Conservo un bel ricordo dello spettacolo di Pier’Alli (1998) allestito con prezioso gusto figurativo e un'indimenticabile "Gola del lupo" percossa da proiezioni di forte impatto emozionale; davvero nulla a che spartire con lo spettacolo di Hartmann tutta goffaggine del costume, cachinni e siparietti su un'impianto scenico tra l'usato e il convenzionale. 



lunedì 9 ottobre 2017

Blade Runner 2049

                                                          


                                                            Lo spazio è uno sciame dentro gli occhi; e il tempo  
                                                            un canto nelle orecchie. Sono rinchiuso
                                                            in questo alveare. Pure, se in precedenza
                                                            questa vita ce la fossimo mai immaginata, 
                                                            quale folle, impossibile, indescrivibilmente 
                                                            strano mirabile nonsense ci sarebbe sembrata! 
                                                            (Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, vv. 215-220)







Se sposiamo la tesi di coloro che nel cognome del cacciatore di taglie Rick Deckard leggono un'allusione a Descartes - suggerendo che Philip K. Dick abbia voluto riassumere così e in alcuni tratti del personaggio la propria urgenza gnoseologica - possiamo forse compendiare K, il protagonista assoluto di Blade Runner 2049, in una parafrasi del motto cartesiano: «ricordo quindi sono». O, forse, vorrei essere.
K un nome vero e proprio non lo possiede; la lettera è soltanto l'inizio di un numero di serie che distingue una nuova generazione di replicanti ancor più sottomessi al fabbricatore, privati d'identità nominale. La sua lotta per l'emancipazione comincia laddove inizia quella di Deckard, suggellata dal miglior finale di Blade Runner e quindi a partire dal Director's Cut 1992. Non è un caso che tra i tanti espliciti rimandi alla pellicola di Scott ci sia Gaff (Edward James Olmos): nel 2049, a colloquio con K nei primi passi dell'indagine, fabbrica ancora origami ma in una casa di riposo. L'imbeccata, pure all'indirizzo dello spettatore, è sempre la stessa: realtà del ricordo oppure innesto? E, ancora una volta, dickianamente, è la natura flessibile della realtà. 
In maniera assai più radicale di Deckard, però, K è protagonista che esemplifica sino alle estreme conseguenze il conflitto che risiede nella percezione del reale; la sceneggiatura è calata in profondità nel mondo poetico e nella biografia dello scrittore (che portava Kindred come secondo nome). Allora non possono esserci risposte definitive, piuttosto molteplici piste da percorrere. Forse, fedeli all’impiego frequente che Dick fa nei propri romanzi e racconti della lingua tedesca, gli sceneggiatori hanno evocato in K il Knecht, servo (come il protagonista dell'ultimo romanzo di Hesse, ma è un fatto che pare del tutto involontario). Oppure è Knight, come il Sebastian di Nabokov, o forse Kinbote, il nobile decaduto di Fuoco pallido, libro che fa fugace ma significativa apparizione sullo schermo di Blade Runner 2049: l'agente K ne sconsiglia la lettura a Joi perché, dice, la rattristerebbe. Alcuni versi del lungo poema (non le «Cells interlinked within cells interlinked» citate pari pari nel film) sono qui sopra riportati come intestazione e forse d'ispirazione per una delle sequenze più suggestive del film (Roger Deakins prodigioso alla fotografia): K cammina pensieroso fra arnie miracolosamente popolate in una Los Angeles post-apocalittica nel bagliore di un sole nebbioso giallo ambra e si prepara all'incontro con Deckard.
I nomi, ancora quelli. Estensione non soltanto temporale dell'originale, il sequel ne accoglie uno per dilatarne il riferimento: è quello di Rachael, ora evocazione del personaggio biblico tormentato dalla preoccupazione di non riuscire a dare un figlio al marito che la predilige e poi, esaudite le preghiere a Dio, madre di Giuseppe (Gen. 30, 1 ss.). La famiglia, dunque, evocata anche nella prospettiva religiosa la cui irruzione è frequente nella poetica di Dick; fra l'altro, quella sacra raffigurata sul Tondo Doni s'intravede con chiarezza nel palazzo in cui ha trovato rifugio Deckard. E ben presente agli autori è certo il fatto che Dick nacque di parto prematuro insieme alla gemella Jane Charlotte, morta a sole sei settimane. Alla memoria della defunta lo scrittore restò sempre legato in maniera morbosa alimentando nei suoi riguardi tanto un sentimento di colpa quanto un bruciante senso d'incompletezza.
E, poi, due solitudini: quella di K che tenta placarla ogni volta che risuona il tema di Pierino e il lupo per portargli l'immagine virtuale e amorevole di Joi; l'altra, quella di Deckard l'eremita che cita Ben Gunn, marooned sull'Isola del tesoro di Stevenson (capitolo quindicesimo) in attesa di Jim. E arriva Joe perché K ha finalmente guadagnato un nome.
L’architettura di questo Blade Runner è, come nel 1982, quella solida del più tradizionale noir. Ma qui cacciatore e preda convivono nella stessa figura oppressa da dolorosa rivelazione per via di un passato che, nella visione di Dick, è nebulosa composta di reale ed irreale. 
K è uno sbirro, «una pelle» che abita la Los Angeles affollata da un'umanità residuale. È «uno di quelli che non scappano», come gli ricorda in modo sarcastico Sapper Morton prima di venir freddato. E Ryan Gosling è perfetto nel rilevare sulla propria maschera, con precisione mercuriale, il percorso che gradatamente conduce l'androide alla presa di coscienza offrendo espressioni che mutano sempre e sempre sono sfumate perché marcarle (tranne che durante il colloquio rivelatore con Stelline) significherebbe umanizzare un personaggio che dalla propria ambiguità trae ragion d'essere fino a farsi poi, ai nostri occhi, «più umano dell’umano»
Il desiderio come l’amore - parola troncata sulle labbra di un ologramma - è in Blade Runner 2049 fra i sentimenti che si fuggono oppure, una volta provati, si nascondono gelosamente; pensiamo a Luv (incarnazione delle donne autoritarie e distruttive note alla penna di Dick) ma soprattutto al tenente Joshi, colei che, da essere umano, compie silenziosamente il proprio sacrificio anticipando quello di K al quale al principio, per un tacito rifiuto, aveva negato il possesso di un'anima.
Anche chi conosce in maniera superficiale il primo Blade Runner (o per nulla la letteratura di Dick) sarà certo a proprio agio nel lavoro di un regista che da quelle sorgenti ha fatto scaturire il proprio lavoro e che, al tempo stesso, ha raccolto a piene mani situazioni ed ispirazioni figurative dei film di fantascienza degli ultimi venti anni, o giù di lì; quella produzione cinematografica, insomma, che dal mondo dello scrittore statunitense non può prescindere. Nessuna sorpresa, dunque, che Blade Runner 2049 sia infinitamente meno "rivoluzionario" del primo. 
Villeneuve conferma la propria affinità col genere fantascientifico, con tutte le implicazioni che il termine oggi porta con sé. Della grammatica dell'originale il regista canadese s’impossessa con appropriatezza nei luoghi più attesi lasciando invece che il retrofuturismo mediato attraverso i polizieschi anni Trenta e Metropolis ceda il posto ad ambienti e design degli anni Cinquanta (epoca di Dick e di maccartismo) coi suoi fantasmi a intermittenza. 
In Blade Runner 2049 fonti e suggestioni convergono, come già anticipato, in un unico grande estuario: quello che, magari in maniera indiretta, ha spesso la prima origine nella poetica dickiana di cui il capolavoro di Scott fu formidabile rivelazione sul grande schermo. Si va, dunque, da A.I. (la triste caduta del bambino-robot che vuol credersi figlio) a Her (l'amore tanto virtuale da diventare reale), da Mad Max: Fury Road (le sabbie di un cielo in cui campeggiano statue colossali) a certe atmosfere del più convenzionale Oblivion; da Moon (il replicante e la scoperta che nega la sua presunta unicità) a District 9; da I figli degli uomini agli echi della trilogia di Matrix
Se l'operazione di Villeneuve è filiazione diretta dell'originale fatta per porsi al suo seguito con assoluta dignità, Tron: Legacy (2010) surclassava invece, di gran lunga, il film di Lisberger (stessa data di Blade Runner, 1982). Quale ridefinizione radicale dei rapporti che umano e tecnologico intrattengono nella narrativa cinematografica, il film di Kosinski, infatti, pone prima in netto contrasto il reale ed il virtuale, poi lo spirito con la materia, e si spinge sino ad additare una possibilità di conciliazione a metà strada tra religione e misticismo originata nel cuore della tecnologia stessa; un umanesimo niente affatto manicheo, insomma, che abita una dimensione altra da sé eppure in grado di comprenderlo ed esaltarlo. Mentre Tron: Legacy, film sulla ricerca di una perfezione costellata d’errori e sulla limitatezza della copia immutabile di un’idea, è capace di ricondurci con rinnovata coscienza alla dimensione del reale, il nuovo lavoro di Villeneuve, invece, ci trattiene in quell'interstizio, disperante ben più che risolutivo, a metà tra immaginazione e sentimento, reale ed eventuale.
Negli ultimi trenta minuti Villeneuve rischia moltissimo per un pubblico già a lungo tenuto in sala. Ma ha da raccontare la nuova consapevolezza del protagonista e la scelta del suo sacrificio, forse per «la grande causa». Qui i destini di Deckard e K si separano temporaneamente; il primo preda di Wallace che intende sfruttare la riproduzione dei replicanti a fini espansivi ed ignora l'essenzialità del dettaglio (Ana a K), anima del sentimento. I due si ricongiungono dopo sequenze che sono una concessione troppo convenzionale all’action movie, anticipo però di un finale degno di nota.
Nel caos tutto dickiano di nato e creato, reale e replicabile, infatti, è la percezione del sentimento a fare la differenza; uno scarto che nelle ultime sequenze trova pacificazione instabile, mutevole, nella capacità immaginativa e quindi creatrice, forse persino salvifica, del ricordo che è molto simile alla funzione dell'arte. È un itinerario - si è già detto - che comporta il sacrificio di K; ed è di Dick l'ammirazione per la dignità dell'uomo capace di opporsi nei momenti cruciali alla prevaricazione dei potenti. Sacrificio, miracolo, anima. Luoghi disturbanti fra le gelide relazioni interpersonali che scontrano gli uni con gli altri i soggetti del film; e dunque parole rare in momenti che così guadagnano forza epifanica, umanissima.  
K addita a Deckard Ana Stelline, prima di veder sciogliersi in un istante sulla propria mano fiocchi di neve, fragile realtà. Ed è anche l’ultima magia creata in un'odierna star cave (la scatola empatica del Cacciatore di androidi) dalla creatrice di ricordi che domanda al padre, forse, ritrovato: «Stupendo, no?». Sta allo sguardo che risponde in sala a quello di lui, interrogativo, scegliere un sì accordato col proprio sentimento. La percezione di un affetto, altro non resta.



sabato 16 settembre 2017

Nel quarantesimo anniversario della morte di Maria Callas

Per ricordare Maria Callas c'è anche, una volta oltrepassate le strade più battute del mito, la sua Armida.
Penso agli ultimi giorni del soprano in quel triste appartamento di Avenue Georges-Mandel. Chissà se avrebbe voluto ascoltare (ma con quale stato d'animo!) la registrazione fiorentina del '52; forse le sarebbe stato impossibile, da perfezionista, trovare qui difetti, imprecisioni.
I miti autentici come la Callas non hanno bisogno che si calchi la mano attorno alle loro "epifanie" e "rivoluzioni". La Callas appartiene dunque alla Storia, specie a quella che l'ha preceduta e nella quale ha iscritto la propria avventura artistica.
In questa pagina rossiniana c'è un saggio di quella restaurazione (rivoluzionaria, ça va sans dire) che apparenta la Callas alla secolare tradizione del bel canto italiano. Questo ascolto è un affaccio sui secoli passati e sul modo di praticare un'arte antica: quella che, svincolata da preoccupazioni di naturalismo drammatico, è capace con i mezzi del canto di creare una magia che si propone di conquistare anche
«Chi, misero, non sente / La fiamma sua possente». 

venerdì 25 agosto 2017

Volta à terra


Volta à terra di João Pedro Plácido (Portogallo/Svizzera/Francia, 2014, 78')



Nelle stagioni del sole e della nebbia
di Francesco Gala





Volta à terra possiede il ritmo ed il respiro delle storie senza tempo, eterne come il significato delle parole che compongono il titolo: in italiano, Ritorno alla terra. Ha, insomma, il passo delle stagioni che si succedono, della fatica del lavoro nei campi, della vita che si svolge in un paese rurale: Uz è il nome deciso ed aspro dell'aldéia (villaggio) in cui è girato il film, nel distretto di Braga all'estremo nord del Portogallo.

Eppure António Guimarães, l'anziano protagonista del documentario di Plácido, ci riporta ad un presente di bruciante attualità grazie ad una dura dichiarazione che ascoltiamo al principio, a lui strappata nel buio di una stalla. Là il vecchio contadino ci rammenta il tempo di crisi in cui viviamo: «Tutti i milioni sono laggiù», afferma, «con i sindacati europei e non so cos'altro. Nei tempi passati il denaro non mancava: circolava avanti e indietro da solo, condiviso tra tutti i cittadini. Tutto quello che desiderano oggi, invece, è sedersi al tavolo. Un tavolo ricco e grasso […]. Sono tutti un gruppo di truffatori. Questo è il nostro Paese. Colui che lavora di più guadagna il minimo. […] Salazar disse: "Voi dite che Salazar è fascista, che è in questo modo o in quest'altro; ma Salazar morirà e il fascismo rimarrà radicato in Portogallo per sempre". E così è stato.»

Non vogliamo dare torto o ragione ad António e, del resto, le sue mani piegate dal lavoro come la sua schiena invitano al rispetto. È più saggio, forse, pensare che anche questo tempo - il nostro tempo - s'iscriva fra quelle epoche nelle quali sopraffazioni ed iniquità non rendono affatto giustizia del lavoro di fatica: quello del contadino, del pastore, dell'artigiano.

Nel Portogallo morso dalla crisi, la televisione in casa di António rimanda le notizie delle alchimie finanziarie tramite il linguaggio tecnico che le contraddistingue. Una realtà lontana anni luce dalla vita eterna del villaggio; una realtà così distante da quell'Europa delle piccole comunità e dei villaggi che arricchiscono l'identità multiforme del nostro continente da sembrarci persino aliena.

Volta à terra non ci risparmia sequenze di forte impatto visivo perché la vita del villaggio si specchia senza troppi infingimenti nella macchina da presa di Plácido. E sono anche gesti e parole arcaiche come quelle che accendono in paese la festa della mietitura; oppure i sorrisi, la tenera malinconia che si legge negli occhi di Daniel, l'altro indimenticabile protagonista del film.

Daniel Xavier Pereira ha ventun anni e possiede uno di quei visi, di quei portamenti, che tanto mancano al cinema di oggi e specialmente a quello di finzione. A proprio agio con la vita contadina, il giovane non esprime alcun desiderio di lasciare Uz, regalando a chi lo interroga in proposito un ennesimo sorriso genuino, canzonatorio. Non si può che ritornare con la mente ai molti interpreti dal fascino ingenuo e spontaneo prediletti da Pasolini, e forse direttamente al più celebre e celebrato fra essi: Ninetto Davoli. Lui, come Daniel, un sognatore ad occhi aperti che rimprovera di essere tale al bue Lancillotto in sequenze dal registro che vira al fiabesco e che chiudono il film laddove l'inverno ci porta con António su strade imbiancate da percorrere stanco, ancora una volta, quando sugli stessi sentieri ora cammina il nuovo pastore.

La cucina; il matrimonio; i campi assolati ed il terreno brullo pronto per essere arato e seminato oppure battuto dal vento e dalla pioggia nella stagione autunnale; la religione vissuta in casa con la benedizione della tavola nei giorni di festa o per le strade in processione al lume delle candele; i contrasti e la solidarietà di una comunità che decide collegialmente anche sui tagli al bilancio; la monta dei buoi, la tosatura delle pecore scandita dalle chiacchiere dei pastori e ritmata dal suono di un'armonica a bocca. Dopo aver vissuto per un po' davanti allo schermo insieme ai protagonisti del film, si prova un rinnovato senso di purezza, di umanità. Difronte ai nostri occhi si è aperto e chiuso un ciclo di stagioni come quello che scandisce la vita: l'età che pian piano consuma gli anni di un vecchio dal passo sempre più incerto e gli occhi incantati di un giovane che scopre l'amore e la lontananza.






Les sauteurs




Les sauteurs di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé (Paesi Bassi/Danimarca, 2016, 82')



Al di là del limes
di Francesco Gala


L'Europa è scomparsa dietro all'occhio di una camera di sicurezza che in un bianco e nero surreale ed implacabile perlustra lo spazio circostante. Al centro dell'immagine un mirino; presto dà la caccia a punti bianchi che muovono nel fitto della boscaglia. Il dispositivo che altrove permette di scegliere e di comporre l'inquadratura sembra qui strumento di punta da arma da fuoco. Lo accompagna, nel sonoro, un brusio grave e minaccioso, impersonale come quello prodotto da un generatore elettrico. È notte e les sauteurs, accovacciati sotto alberi di fico d'India, sono pronti a tentare l'ennesimo assalto alla barriera.
Nella ormai nutrita filmografia attorno alle migrazioni di questo inizio millennio - nella quale il cinema italiano ha giocato un ruolo primario, da De Seta a Rosi passando per Crialese - questo documentario prodotto in Olanda e Danimarca occupa un posto particolare perché testimonianza condotta, sin dalle proprie fondamenta, in maniera decisiva, radicale. La questione centrale è, infatti, quella relativa al punto di vista e, quando, come in questi casi, il soggetto concerne il limite, la frontiera, bisogna riconoscere che la posizione nella quale l'occhio e quindi la macchina da presa si trovano per guardare assume un carattere assolutamente determinante.
I documentaristi Siebert e Wagner hanno donato, così, una videocamera al giovane maliano Abou che da quindici mesi tenta di valicare il confine europeo rappresentato da Melilla, la città autonoma spagnola su suolo marocchino: «il nostro grande amore, l'Europa in terra d'Africa», salutata all'alba dai migranti, in una dolce sequenza del film, con i versi di una celebre canzone della Houston.
In un'attesa che sembra non poter aver fine, Abou vive, filma ed è filmato sulla montagna Gurugu. «La famosa, la santa. La divina. La speranza o la disperazione. La vita così come la morte», sono le parole con le quali il giovane abbraccia il luogo. «Un nuovo mondo». La montagna della paura e dagli atti vandalici compiuti dalla polizia marocchina, ma anche quella del conforto e della compagnia, magari portata dai cani accolti come «fratelli e sorelle».
Il lungo assedio alla frontiera ha assunto carattere di normalità, così come ha fatto con le rigide regole e le gerarchie in vigore fra i suoi abitanti. Intanto, aspettando e preparandosi agli assalti, si commercia, si ascoltano canzoni, si gioca a pallone, si desidera l'amore, si sogna intensamente, si canta: «Ognuno va via per un luogo lontano da qui. / Questa terra lontana è chiamata America / Ognuno va via per un luogo lontano da qui. / E questa terra si chiama Europa. / Ognuno ha il proprio destino e se non hai mai sofferto / Non sai niente della vita. / Ognuno ha il proprio destino e se vuoi conoscere la sofferenza / Devi lasciare la tua casa. / Ognuno vuole aiutare le proprie famiglie. / Ognuno vuole diventare un africano in Europa.»
E, ad ogni nuova apparizione delle immagini in bianco e nero registrate dalla camera di sicurezza alla frontiera, la nostra scomparsa dallo schermo - quella di noi europei in un film interamente africano - torna ad essere presenza ingombrante che chiama ad attenta riflessione.
Dapprima timida ed impacciata (addirittura pudica rispetto a certe realtà sulle quali posa il proprio sguardo), la videocamera di Abou si fa poi sempre più scaltra e selettiva. Il punto di vista sul contesto muta attraversando la lente dell'obiettivo che lo riflette; e il piacere di creare immagini porta alla scoperta di una bellezza inaspettata che acquista significato personale pronto per essere consegnato al prossimo, a chi guarda. «Sento che esisto quando filmo», confessa Abou.
Ora le immagini si fanno messaggio, tramite di pensieri, istanti, emozioni. Ed è così che la materia aderisce, con rinnovata coscienza, al proprio trattamento: l'orizzonte desiderato è uno zoom come il futuro che si guarda tutti i giorni in fronte a sé ma che non si riesce a raggiungere se non stringendo il dettaglio dell'immagine; la corsa nella boscaglia è una camera a spalla che cattura porzioni di corpi, piante, cielo; e l'intervista in stile televisivo è un primo piano stretto su sorrisi o lacrime.
Una confessione del protagonista/regista filtra fra le immagini con parole che bruciano lentamente come i roghi sulla montagna dell'attesa: «Per decenni il mio paese è stato sfruttato. E ora che voglio venire in Europa me lo impediscono? No, no, no. Così non va. Ho il diritto di raggiungere l'Europa. Non potete prenderci tutto e poi escluderci. Certo, sappiamo che il paradiso non comincia dietro alla barriera. Abbiamo visto alla TV come l'Europa tratta i migranti. Mio fratello mi ha telefonato e ha detto “c'è la crisi in Spagna”. Ma quando sono sulla montagna e guardo la barriera so che saltare nuovamente sarebbe molto doloroso e allora devo credere che dall'altra parte della barriera si trovi l'El Dorado. E a coloro che mi attendono alla barriera conviene che sia proprio così.»








Silence Radio





Silence Radio di Valéry Rosier (Francia/Belgio, 2013, 52')



Je chante sur mon chemin
di Francesco Gala


Qual è il nostro rapporto con la canzone? Anzi, con le canzoni preferite, quelle che si cantano a fior di labbra perché le parole si conoscono a memoria?
La canzone è una forma musicale breve, agile. Ciascuno possiede le proprie, che conserva sue, per sempre. Ci appropriamo delle canzoni come facciamo con pezzi di vita vissuta ed esse sono spesso veicolo del nostro gusto, delle emozioni che lo formano.
Succede che sia la nostalgia a plasmare un repertorio di greatest hits e, senza rendersene conto, il rimpianto di un periodo trascorso - rivissuto nel presente grazie all'ascolto di una canzone amata - è capace, quasi per magia, di trasformare la mancanza in istanti di gioia e nel sorriso di un momento. E quindi anche nel sorriso di tutti i momenti in cui abbiamo ascoltato proprio quel brano, intrecciando così una catena di reminiscenze in grado di arrestare il tempo su tre o quattro minuti di parole e musica. Questo accade spesso anche se la canzone ci racconta e ci riporta ad un passato triste, perché l'arte possiede virtù lenitiva se arresta momentaneamente lo scorrere del tempo per farcene percepire la profondità; pure quando il dolore è grande e le perdite sono irreparabili. O magari, appunto, si tratta solamente di malinconia, quella che si conosce prima in età adulta e si possiede del tutto in una vecchiaia già impegnata a combattere contro la solitudine.
La canzone racconta, insomma, dove aver suonato per molte volte. Ed è così anche per i personaggi che sono protagonisti di Silence Radio: utenti ma anche dipendenti dell'emittente della locale Radio Puisaleine che si ascolta fra i dipartimenti dell'Oise, dell'Aisne e della Somme e la cui programmazione musicale è in massima parte francese e francofona, spaziando dagli anni Venti del secolo scorso per arrivare ai nostri giorni. Insomma, da classici come Berthe Sylva, Tino Rossi, Marie-José ai nomi contemporanei della canzone melodica.
I protagonisti del documentario di Rosier sono ripresi molto spesso in un piano medio che è capace di farli dialogare con l'inquadratura fissa nella quale sono inscritti per raccontare attraverso l'ambiente che li caratterizza la loro identità, fra carte da parati a fiori, tende di pizzo bianco, soprammobili e cornici che rimandano ad un mondo di affetti; merito anche di una fotografia sensibile affidata alle premure di Olivier Boonjing e Mathieu Cauville. Gli utenti di Radio Puisaleine sono qui uomini e donne parlati dalla musica. Ascoltatori, insomma, che si dichiarano per il tramite di emozioni musicali vissute per la prima volta da altri, e cioè da musicisti e parolieri, le cui creazioni costituiscono oggi come ieri un patrimonio comune capace d'intercettare attraverso le antenne radio il vissuto di un'ampia comunità di persone.
La radio mette in relazione gli ascoltatori grazie alle dediche per gli anniversari e a quelle spese per meglio affrontare i giorni difficili; o magari quando si ascoltano i consigli di un'indovina da modi e tono spicci (più vicina di casa che cartomante in contatto coi misteri dell'ignoto). Ma è soprattutto la trasmissione, nel senso ampio del termine, ad essere il soggetto del film. Se, infatti, le interferenze che disturbano Radio Puisaleine rischiano di interrompere il flusso di relazioni che connette ascoltatori ed emittente, canzoni e memoria, il documentario continua ad alimentare questa sorgente per merito di un montaggio molto attento agli equilibri formali e di senso, anche quando lo sguardo affettuoso del regista indugia sul viso di un poliziotto per leggere negli suoi occhi sognanti mentre canta La Complainte de la Butte in un ennesimo interno di Piccardia. La ragione di quello sguardo malinconico ci resta ignota, eppure la sentiamo cantare perché la musica ed il cinema se ne fanno testimoni.
«Tu est une chanson française», ci ricorda Claude François. Se la radio s'interrompe per una nuovo problema di trasmissione c'è sempre un modo per evitare il silenzio: «j'ai tout et j'ai rien / je chante sur mon chemin».