lunedì 8 dicembre 2014

"Fidelio" alla Scala

Affascinante è constatare, ancora una volta, quanto un capolavoro come Fidelio vibri in maniere così differenti, interessanti, se consegnato nelle mani di grandi direttori d'orchestra capaci di specchiare soprattutto qui la propria sensibilità, formazione. Ecco un fatto, però: le tappe che hanno marcato la fortuna del titolo beethoveniano alla Scala sono solamente quelle della scuola storica (Toscanini, Karajan, Böhm) e quelle che alla stessa tradizione esecutiva si sono richiamate (Bernstein, Maazel). Questo filo, come si è dimostrato ieri sera, è teso ancora oggi. 
È vero che Muti, già interprete di Lodoïska, riconduceva l'unico lavoro operistico di colui che ritenne Cherubini il maggior compositore di musica drammatica del proprio tempo nell'alveo più rassicurante dell'opéra à sauvetage; ma il suo Fidelio - non solo per via della conservazione di Leonore n. 3 a sipario chiuso prima dell'ultimo quadro - restava intrinsecamente allacciato a quella corrente che sempre apparentò il Beethoven operistico al Musikdrama, facendone anzi, in diverse misure, il suo prototipo. 
Al posto dell'Ouverture di Fidelio, Barenboim propone la Leonore n. 2; ho l'abitudine di non inseguire pubblicità, indiscrezioni e, quindi, alla prova generale, la sorpresa è stata grande. Per dialettica delle opposizioni e sostanza morale, questa pagina è - quasi quanto la più celebre sorella - sintesi talmente pregnante della vicenda da imporsi, se posta al principio, quale nucleo generativo dell'opera che di essa appare, così, naturale estrinsecazione; nel brano sinfonico, infatti, il dramma sorge a partire «dal suo nocciolo ingigantito». Sono parole di Wagner.  
Prediletto dal compositore del Ring era, oltre alla Leonore n. 3, anche il finale dell'opera ed il giudizio intorno a Fidelio, al ruolo del suo creatore - divenuto ambasciatore inconsapevole del dramma dell'avvenire - è particolarmente interessante, altrove esaminato tenendo saldo il contesto storico-estetico in cui l'opera beethoveniana vide la luce. Qui preme solo ricordare quanto la critica wagneriana all'opera - vincolata ad uno dei tanti teoremi del compositore-teorico (l'impianto di Fidelio è troppo spesso disperso nelle "piccole aggiunte" che nascondono il nucleo drammatico) - partisse non dal Singspiel ma dallo spirito della sinfonia di cui Beethoven rappresenta la quintessenza. Con le orecchie di Wagner, dovremmo intendere, dunque, anche la Leonore n. 2 come più drammatica del dramma di cui funge da introduzione; Barenboim ha raccolto la sfida di servirsene per generarlo.
Le interpretazioni più riuscite di questo direttore (in modo particolare quelle wagneriane) possiedono, oltre a contorni dalle linee smussate, liricizzate, il fatto che sommano nitidezza dell'ordito strumentale a duttilità, quella che rende l'orchestra mobile nel far fluttuare lo sviluppo armonico su quello melodico; e, al tempo stesso, capace di flettersi ora tesa e incalzante, ora pensosa e trasognata lungo i momenti della narrazione, calibrandoli su colori e agogiche differenti. C'è sempre un indefinibile distacco emozionale in Barenboim che serve - quando si esprime al meglio - per governare la forma anche nel rapporto col palcoscenico. È in essa che il direttore lascia deflagrare, in questo Fidelio, la ricchezza d'invenzioni e di sviluppi musicali della partitura, sollecitati con dovizia; e il risultato è completamente diverso, ad esempio, da quello che provocava l'analitico Abbado, chiamatosi volontariamente fuori dal tracciato della scuola storicaQuella di Barenboim, sensibile alle proporzioni e ai rapporti di forza tra i numeri, è una concertazione che non lascia tregua, ora indugiando sui rilievi cameristici (bellissimo è soprattutto l'Andante con moto del duetto Rocco-Leonore), ora lavorando il grande affresco dell'Ouverture e il Finale atto primo. 
Governo della forma: mi ha colpito, fra le altre cose, il modo in cui, nel duetto Rocco-Pizarro, Barenboim ha riassorbito nell'ordito strumentale e nella logica del pezzo un gesto cui spesso si conferisce rilievo addirittura plateale: il ff di legni e ottoni («ein Stoss und er verstumt!» - «un colpo, ed è spacciato!»). 
Quanto alle deflagrazioni del materiale musicale, un passo merita di essere approfondito: è l'Introduzione all'atto secondo, che per fraseggio amplissimo e uso del legato suona come riproposizione letterale dell'interpretazione che Barenboim ha consegnato nella scorsa stagione dirigendo il Vorspiel della Götterdämmerung. E, del resto, a questo passo, Wagner guardò componendo la propria pagina, che principia con quello stesso spaventoso accordo di Mi bemolle minore (omise solamente i flauti e sostituì i fagotti con la tromba bassa). Barenboim pare così consegnare Florestan alla dimensione che si addice a colui che è preda di una condizione tragica, esistenziale, ben più che della ferocia di un singolo uomo. Bisogna ascoltare bene, in questa introduzione all'atto, gli affondi dei contrabbassi e quanto sono sgranate le biscrome, p e crescendo su arcate lunghe che si attorcigliano come spire e sono legate tra loro come i fili che, nel Ring, compongono la fune d'oro. Stupendo davvero; è raro che due pagine sappiamo dialogare tanto intensamente tra loro grazie alla bacchetta di un direttore. 
Manca forse un senso di teatralità rettilinea in questo Fidelio, quella che rende giustizia all'orizzonte finalistico della trama? O, forse, una messa a fuoco dei numeri di musica dialogata, quelli à la Mozart? Io non credo davvero. Ma è certo che i tratti salienti della lettura di Barenboim si apprezzano soprattutto laddove il tempo drammatico è congelato e, più in generale, dove si manifesta con chiarezza quella caratteristica di marca francese (vedi il Finale atto primo) che si andava definendo pure attraverso il capolavoro di Beethoven e che si può sintetizzare come 'tendenza al tableau'; è stato bellissimo, in questo 2014, ascoltare alla Scala anche il Berlioz di Pappano, ultima tappa di quel percorso. Su un altro versante, non quello delle masse, la produzione si trovava scoperta. 


Si capisce che la Erdmann (Marzelline) è cantante di scarsa esperienza e la voce è quella di una comprimaria cui è affidato un ruolo da seconda donna; qui ha difficoltà a proiettare il proprio mezzo già sul Sol («wie glücklich will ich werden») per sbiancarlo, poi, negli ensemble. È una cantante la cui presenza pare calibrata su quella del Tamino da secondo cast: Klaus Florian Vogt, dall'accento bambinesco e dal fraseggio sostanzialmente inerte. È impressionate il contrasto tra l'introduzione strumentale levigata da Barenboim e il sopraggiungere della voce di colui che dovrebbe essere l'oppositore del feroce Don Pizarro. Insieme a quelle di Hoffmann (Jaquino) e di Mattei (Don Fernando), è buona la prova di Youn (Rocco), corretto e lontano da certi tratti caricaturali che poco si addicono al personaggio. Il mezzo di Struckmann (Don Pizarro), invece, appare usurato ben più che nella Frau ohne Schatten di due anni fa; il ricorso al parlato e i suoni scoperti sono frequentissimi e poco si riconoscono i segni dell'artista che in passato ha offerto, proprio alla Scala, un Jochanaan di assoluto rilievo. Resta insufficiente la prova della protagonista, Anja Kampe, tanto per peso specifico quanto per difficoltà evidenti nel salire (sarebbe il meno) e nel legare, soprattutto il cantabile della grande scena dove, fatte salve le intenzioni, la voce rimane indietro, neppure compensata - qui e altrove - da un accento capace di essere qualcosa più che genericamente accorato. Non mancherà certo, ancora in questa occasione, chi ripeterà l'imbecillità che la colpa sia di Beethoven; e noi non finiremo di ricordare che questa musica è destinata a grandi cantanti. È in Komm, Hoffnung una Leonore supplice, che canta in ginocchio e a mani giunte; vengono in mente le parole di Romain Rolland ed il celebre episodio beethoveniano del "Uomo, aiutati da solo!", ma forse la regista non ne è a conoscenza. Nel ruolo dei consorti avrei visto meglio la Herlitzius e Botha.
Se trascuriamo la minzione di prammatica, qui al levar del sipario, non sono certo i cascami del Regietheater a costituire il tratto peculiare dell'allestimento della Warner; piuttosto, un calligrafismo tanto ingenuo quanto innocuo, refrattario a provocare le risorse del testo per misurarsi, invece, attorno ad un naturalismo didascalico e ben confezionato. Proponendo l'ambientazione contemporanea, sarebbe stato stimolante rapportare all'oggi la lotta tra idealismo e dogmatismo, facendo tesoro di una visione (anche beethoveniana) della Storia, intesa come serie indeducibile degli atti della libertà soggettiva (e dell'intera umanità) oggettivata in forme sempre più razionali, coerenti con la ragione umana. Resta qui, invece, un aggiornamento dei tratti più tipici del teatro borghese e della commedia di quel genere, poco amalgamati con il resto (Leonore che spazza il pavimento mentre Rocco canta la sua aria); elementi cui la regista non rinuncia neppure nel finale dell'opera con la coppia Marzeline-Jaquino in risalto sul proscenio, stemperando così, uteriormente, una già annacquata celebrazione laburista armata di elmetti da operaio e drappi rosso porpora. Spettacolo che è, dunque, in nulla disturbante e sostanzialmente privo di gesti da ricordare. In ciò si contano, ad esempio, le differenze con quello del duo Herzog-Frigerio, ultimo in ordine cronologico alla Scala: era allestimento più d'intuizione che di luoghi, nel quale i prigionieri, da porte piccole e basse, strisciavano come larve per cercare la luce al centro del pozzo; e l'uscita di scena di Don Pizarro, con cappello a due punte, scortato dai gendarmi mentre teneva una mano con l'altra dietro la schiena, era il fantasma di Napoleone Bonaparte. 


 

giovedì 4 dicembre 2014

Adieu au langage

Immagini, parole e musica cui viene pervicacemente impedito da Godard di costituirsi in forma linguistica organica e, di per ciò stessa, pertinente il linguaggio cinematografico tout court, la sua ideologia ed un'estetica che non sia una non-estetica. L'estetica di Adieu au langage, infatti, sta proprio nel negarsi a se stessa, nel deflagrare sotto lo sguardo dello spettatore reso attivo per costruire attraverso le pieghe della non-estetica un individuale percorso di senso; già imploso è l'orizzonte di senso rettilineo del farsi trama, a patto di non ricadere nel già visto, nella ripetizione, nel dotazione di sensi uniformanti e tiranni, di indirizzi estetici definiti in forme claustrofobiche (la tv ed il cinema omologati al pari delle loro sorgenti, come ci mostra Godard). Siamo qui, invece, nella dimensione dell'oltre-segno, in quella di un'avvenuta soppressione della capacità relazionale espressa tramite il linguaggio. Un giorno avremo bisogno d'interpreti per capire noi stessi, ci intima Godard; quel giorno è già qui.
I settanta minuti del primo lavoro 3D del padre della Nouvelle Vague (la linea è quella tracciata a partire da Histoire(s) du cinéma) sono, insieme, una promessa e un atto di rivolta: avvitamento, rovesciamento e rigurgito di ogni sovrastruttura, di ogni coscienza estetica. Cinema che si nutre del suo stesso svuotamento, cinema-saggio aperto; insieme, opera poetica e saggio di semiotica.
Gli interrogativi godardiani sono animati da riflessioni che erano, nel 2002, anche quelle di Jean Baudrillard in merito alla morte dell'arte (di hegeliana memoria) e dell'arte moderna come storia di una scomparsa: «il processo è arrivato al di là del suo termine e siamo anche al di là della fine. [...] ma il vero problema del passaggio oltre l'estetica è questo: che cosa c'è al di là dell'estetica? C'è ancora altra illusione che l'estetica?». Tra il cristallo ed il fumo, insomma. E ancora: «Se qualcosa vuol diventare immagine non è per durare, è per sparire meglio. [...] L'intensità dell'immagine è commisurata alla sua negazione del reale, all'invenzione di un'altra scena. [...] È al prezzo di questa disincarnazione che l'immagine acquista questo potere di fascinazione, che diventa medium dell'oggettività pura, che diventa trasparente a una forma di seduzione più sottile». 



Il cane di Adieu au langage è incarnazione del conflitto tra coscienza naturale (quindi, a-verbale) e narrazione, una contesa che oppone autenticità e falsificazione. Nella complessa partitura organizzata da Godard, infatti, solo al cane si addice la parola tendresse, la stessa con la quale la mdp lo insegue con un rispetto addirittura traboccante, che consente di cogliere l'animale nella sua sacra identità (in un film tanto iconoclasta!) proprio mentre l'immagine fugge a se stessa; un fatto filmico che, secondo me, non ha eguali sino ad oggi e che trascende l'omaggio a Jack London (uno dei moltissimi autori citati nel film) per trovare ragione, certamente, anche nella dimensione personale, umana di Godard. Forse proprio qui si dimostra che pure il grado zero del linguaggio è, comunque, linguaggio: forma e contenuto, insomma, persistono dopo la loro deliberata distruzione.
La coppia uomo-donna, poi, non è tale perché ciò significherebbe dotarla, e quindi dotarsi - sebbene in abbozzo - di un senso narrativo, di un plot; è, invece, incarnazione di maschile e femminile, nella dialettica ermeneutica di soggetto/oggetto, portata dalla dimensione ancorata ai frammenti di libri e parole a quella della nudità che cancella i visi, in un tracciato ellittico: dalla Metafora alla Natura. 
L'esperienza sensoriale del 3D del Godard ricercatore, eternamente moderno, è soprattutto un'aggressione alla visione: immagini sovraesposte, distorte, saturate, percezioni dissociate che si scontrano e annullano con musica e dialoghi capaci di sottomettere l'immagine correndo su piste diverse. Partitura impossibile da cogliere con una sola visione; forse è questa la più sincera rivalsa del linguaggio nel corpo a corpo che sulla tela del cinema ha ingaggiato Godard.
Ah Dieux, oh langage!


lunedì 24 novembre 2014

Interstellar


                                                                                                          GURNEMANZ
                                                                                                                       Du siehst, mein Sohn,
                                                                                                                                 zum Raum wird hier die Zeit.

                                                                                                               Tu vedi, figlio mio,
                                                                                                                              spazio qui diventa il tempo.

                                                                                                                                         (Richard Wagner, Parsifal, Atto I)


La prima immagine che il nuovo film di Nolan consegna allo spettatore è quella del modellino impolverato di un'astronave, appoggiato ad una libreria: varrebbe come epitaffio del genere fantascientifico, se non fosse - ma lo scopriremo alla fine - che quei libri nascondono il mistero tanto indagato. A tutta prima, però, sappiamo che anche la scienza aerospaziale, con le sue idealità e i sogni d'avventura, è subordinata alla ben più realistica e urgente salvezza del pianeta, malato terminale. Pure quando la vicenda si sposta nello spazio per inseguire una missione impossibile, i luoghi più caratteristici del genere sono temperati in maniera sensibilmente differente rispetto alla tradizione: mai visti prima d'ora (ancor più che in Gravity) tute e strumenti tanto sporcati, antiretorici nel trattenere con se la fotografia sabbiosa della prima parte del racconto sulla terra, fra i campi di mais. E mai si era visto, prima d'ora in un film americano, negare così platealmente l'allunaggio. 
Che il lavoro sia ambientato in un futuro non troppo lontano è fuori di dubbio; ed è altrettanto evidente che la storia, profondamente solcata da un pessimismo radicale (tra le citazioni, Cuore di tenebra), sia in qualche modo già trapassata, additando una salvezza per pochi, in un improbabile altrove; certo, nel tentativo di scuotere le coscienze degli spettatori intorno alle drammatiche trasformazioni climatiche alle quali ci prepariamo. A rischiarare la vicenda, di tanto in tanto, gli interventi di due simpatici robot, tributo a un certo filone del genere fantascientifico, nel tentativo di equilibrare temi, tempi e registri stilistici di una sceneggiatura straordinariamente complessa; produzione imponente, dunque, ma dalla fortissima identità. 


 
Scolpire lo spaziotempo, si potrebbe affermare parafrasando il titolo del meraviglioso libro di Tarkovskij: è un invito alla quinta dimensione, all'amore, anche quello per il cinema, unica realtà che per ora sappiamo in grado di assolvere al compito di porre in relazione simbiotica le due dimensioni; le stesse nelle quale congeliamo in pochi istanti le emozioni irripetibili della nostra vita - padre e figlia in alcune tra le sequenze più intense del film, anzi direi sezione aurea dell'intero lavoro - restando aggrappati ad affetti, situazioni ed errori destinati, però (anche sullo schermo), a perdurare per sempre; quando il per sempre è da intendersi come il limite delle nostre esistenze.
I riferimenti cinematografici - e, implicitamente, letterari - di Interstellar sono altissimi: si va da 2001: Odissea nello spazio (tra l'altro, il precipitare cosmico del protagonista) a Solaris (il rapporto tra Kris e Hari, mutatis mutandis, è centrale quanto quello tra Cooper e Murphy), fino a Sul globo d'argento (l'arrivo dall'acqua sul pianeta di Mann). E, più recentemente, Contact, Sunshine, Prometheus, sino al poco riuscito Cloud Atlas
Come sono simili alla Terra i nuovi pianeti! Quella di milioni di anni fa, sconvolta da maremoti e glaciazioni; il pensiero va nuovamente ad una fantascienza che ha cessato d'immaginare l'altrove ed il “marziano” per vedersi ricondotta, foss'anche nell'iperspazio, all'inquietante realtà del nostro prossimo futuro. 
Già il remake di Solaris (Soderbergh, 2002) citava una poesia di Dylan Thomas: And death shall have no dominion. Qui, ad infuriarsi contro il morire della luce, è ancora una volta il poeta di Do not go gentle into that good night. Nella fantascienza di Nolan non c'è spazio né per fatalismi né per tentazioni aliene ("Loro? Loro chi? Noi!”) e ci riconduce così verso un umanesimo sano e responsabile, riscaldato tanto dalla metafisica dei sentimenti quanto dalla luce della ragione applicata, anche se tardivamente, alla salvezza.

martedì 4 novembre 2014

Il regno d'inverno - Winter Sleep




Il regno d'inverno (Kış Uykusu, distribuito anche col titolo inglese Winter Sleep) mi pare, sino ad ora, il lavoro più compiutamente riuscito di Ceylan; un film importante, nell'accezione con la quale s'intende necessaria, indispensabile la visione e poi lo studio. Accanto ai rimandi shakespeariani e volterriani, è ancora una volta Čechov la principale fonte d'ispirazione del regista. Opera che vibra di tante risonanze esterne, ed è quindi anche politica, nel senso più intimo del termine, in accordo con la dimensione cameristica nella quale agiscono i personaggi: essenza politica che scaturisce da identità che configgono tra loro perché ferite nella carne viva delle proprie coscienze e delle proprie umanissime miserie. 
Quello che si legge, neppure troppo in trasparenza (emblematico, a questo proposito, il rapporto tra il possidente Aydin e la famiglia dell'Imām del paese), è un quadro sociale d'inquietante aderenza, nel quale, cecovianamente, le vicende di singoli uomini acquistano una risonanza polifonica e, insieme, l'ampiezza del destino di un'epoca, la nostra. Ceylan è diventato un sensibile osservatore, poeta dell'uomo medio, delle sue speranze, dei suoi "miraggi"; quello temperato in questo film è un alto lirismo che è, insieme, di spietata desolazione. Ma l'autore, dopo aver messo anche in ridicolo la vanità e la stupidità degli uomini con accentuazioni persino farsesche (la maschera dell'attore, luogo shakespeariano per antonomasia) e frammiste a patetica tristezza, pare essersi ricordato che, fra gli appunti di Čechov, si legge: «L'uomo diventerà migliore quando gli farete vedere com'è». Come Ivanov, infatti, Aydin (Haluk Bilginer) è un "uomo superfluo" alle prese con il vuoto che lo circonda; le sue aspirazioni intellettuali, unite al senso d'impotenza che cerca di contrastare - da principio negandone le intime ragioni (la giovane moglie non lo ama più) - fanno di lui un eroe negativo, e l'inverno del suo scontento sembra negargli la speranza. Come fa la natura, romanticamente in accordo coi personaggi e ben altrimenti provocata che non in Iklimler (2006). 
Il bellissimo, lungo dialogo tra fratello e sorella è, ancora una volta, tributo al drammaturgo russo (fonte è la novella Brava gente): le amare e non confessate contrapposizioni; le ferite inferte da chi pure non nutre, o non dovrebbe nutrire intenzioni ostili; le piccole cose che corrodono la vita; i personaggi delusi da un'esistenza nella quale ognuno ha mancato i propri obiettivi e trascina stancamente i giorni nel grigiore e nella noia. E la fotografia, sempre affidata a Gökhan Tiryaki, amplifica a dismisura la suggestione lirica che avvolge la tristezza dei personaggi, che siano illuminati dai riflessi di un camino o che incedano faticosamente tra le nevi della Cappadocia. Binari morti di vite senza svolte e senza riscatti, imprigionate in azioni imperfettive: qui la città del Sole non è Mosca, come nelle Tre sorelle, ma Istanbul, sognata da un lontano angolo di provincia. Meglio continuare a parlarne piuttosto che ritornarvi; meglio una grottesca finzione, quella di Aydin. La poetica di Ceylan - ed è questo un tratto nuovo - appare qui non poco refrattaria a lasciarsi incasellare nel genere drammatico; la forte eco rohmeriana rimanda, piuttosto, ad una compresenza tra cose profonde e in superficie, grandi e futili, tragiche e risibili. La vita, insomma.




lunedì 3 novembre 2014

Toscanini interprete della "Messa da Requiem" di Verdi




Al pianoforte sedette il Toscanini, ed il vecchio maestro ed il giovane direttore non tardarono ad intendersi. Verdi era ammirato dalla prontezza di percezione del Toscanini. Dal mio canto ammiravo quel vegliardo ottantacinquenne che ritrovava al piano l'antica energia. La voce prima velata ridiventava chiara ed imperiosa, gli occhi sfavillavano, nessun particolare dell'esecuzione gli sfuggiva. Egli spiegava i proprii intendimenti con frasi breve, precise, pittoriche, eppure dicevano assai più di un lungo commentario. Me ne restò impressa una che ci fece sorridere tutti, il maestro compreso. Verso la chiusa del Tedeum [sic] affidato al coro, una voce sola di donna invoca ad un tratto misericordia. Quest'assolo di poche battute in un pezzo essenzialmente corale desta una certa sorpresa. Ad accentuarne l'impressione Verdi raccomandava di collocare l'artista il più lontano possibile, nascosta al pubblico, quasi una voce dell'al di là, voce di sgomento e di supplicazione. «È l'ümanità che ha paüra dell'inferno», finì per dire a meglio spiegare il concetto appoggiando sulla ü di umanità e di paura, alla francese come anche in Piemonte usavano i nostri vecchi.

Giuseppe Depanis ci ha lasciato questa testimonianza, raccolta durante una visita genovese a Palazzo Doria in compagnia di Arturo Toscanini nell'aprile 1898; pubblicò memoria di quel giorno in una miscellanea di appunti e ricordi del Teatro Regio di Torino (1914-15). Il giornalista e critico musicale, infatti, si era recato da Verdi insieme al direttore parmigiano per concordare con l'autore l'esecuzione dei tre Pezzi sacri che Toscanini avrebbe diretto all'Esposizione torinese di quell'anno (le pagine verdiane erano già state tenute a battesimo a Parigi il 7 aprile sotto la bacchetta di Paul Taffanel). È noto che il primo contatto tra il giovane maestro e l'anziano compositore era avvenuto alla Scala nel 1887, durante le prove di Otello; ma fu di quel pomeriggio nella residenza invernale che Toscanini parlò ogni volta che fu interrogato intorno ai suoi rapporti con Verdi, accennando in modo particolare ad un'osservazione da questi rivolta in merito all'esecuzione di un allargando non scritto.
Testamento spirituale verdiano, il Te Deum è con la Messa da Requiem il capolavoro sacro nel quale si misura, certo, con maggiore intensità e su molteplici livelli, la dimensione conflittuale tra espressione della religiosità rituale e voce dell'autore, chiamata quale elemento estraneo alla sintassi liturgica a sconvolgerne gli intendimenti. È la voce di una coscienza niente affatto pacificata - né tantomeno pacificante - impegnata, nel lavoro dedicato alla memoria di Alessandro Manzoni, a scatenare le paure, le angosce, i terrori e le suppliche disperate, intese non più come ingredienti trascendibili della medesima liturgia, ma come sostanze vive ed umanissime di un itinerario emotivo a giusto titolo definito “teatrale”.
Conserviamo cinque incisioni discografiche della Messa da Requiem dirette da Toscanini, tutte dal vivo durante i tre lustri a cavallo della seconda guerra mondiale, anni che videro il maestro impegnato su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico; i complessi sono quelli della BBC Symphony Orchestra and Chorus, NBC Symphony Orchestra and Westminster Choir, Orchestra e Coro del Teatro alla Scala. Sono quattro, invece, le registrazioni del Te Deum, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1954; in diverse occasioni e ancora nel 1950, dopo il ritorno alla Scala, il programma del concerto era composto da entrambi i capolavori verdiani.
Ma qui è solo alla Messa che voglio prestare attenzione, con lo scopo di analizzare un itinerario interpretativo concentrato su una partitura che Toscanini affrontò anche in occasioni particolarmente significative per la propria folgorante carriera: il capolavoro verdiano, infatti, dopo l'Aida che segnò il debutto operistico a New York nel novembre 1908, era in programma il 21 febbraio 1909 per il primo concerto del maestro al Metropolitan (con indicibile concorso di pubblico, come testimoniano i giornali). E, ancora, la Messa figura nella terza serie di concerti dei Wiener Philharmoniker da lui diretti nella capitale austriaca (autunno 1934); l'esecuzione fu in memoria di Engelbert Dollfuss, il cancelliere assassinato l'estate precedente.
Se si volesse sintetizzare in un'asserzione lapidaria il percorso interpretativo di Toscanini sulla Messa da Requiem, certo si potrebbe riassumere riconoscendo come ad una progressiva asciugatura dei tempi e dei tratti sonori più marcatamente enfatici corrisponde una nuova e diversa organizzazione del materiale musicale che tende ad una compattezza sintetica, nelle forme, nei significati e nel fecondo rapporto tra essi. Ma è necessaria un'analisi degli ascolti, anche al fine di dimostrare quanto l'approccio toscaniniano al capolavoro di Verdi si dimostri vieppiù orientato verso una 'laicizzazione' radicale delle sezioni più immediatamente ascrivibili al versante della religiosità topica.

  



Zinka Milanov, soprano
Kerstin Thorborg, mezzosoprano
Helge Rosvaenge, tenore
Nicola Moscona, basso
BBC Symphony Orchestra
BBC Symphony Chorus (dir. Leslie Woodgate)

Londra, Queen's Hall, 27 maggio 1938

Se nessun direttore può competere con Fritz Reiner per allentamento agogico di Introito e Kyrie eleison (12.18), la scelta del tempo decisamente dilatato adottato da Toscanini (9.25) rappresenta però una delle cifre più caratteristiche di questa interpretazione londinese; altra ancora è il legato assai forbito, anche al prezzo di contrasti dinamici in principio non marcatamente accentuati («Ad te omnis caro venit»; 49-50) che consegnano all'ascoltatore l'impressione di un affresco nel quale la contemplazione spirituale soverchia le inquietudini dell'anima; inevitabili sono le prese di fiato di tenore e basso per coprire la lunghezza delle frasi d'attacco del Kyrie.
Il Dies irae è davvero tempestoso; ma, più che nel climax delle trombe al principio del Tuba mirum, è proprio qui che il crescendo è ottenuto per tappe ben distinte piuttosto che animando in modo omogeneo l'incremento ascensionale. Il Liber scriptus è staccato con tempo molto comodo, ponendo in rilievo gli inciampi in contrattempo sulla parola «Nil» tramite una dinamica che si assottiglia per davvero, sino al morendo. Energiche le strappate in ff dell'orchestra sulla ripresa (da 227), ma poi al terremoto del giorno dell'ira è dato tempo sufficiente per quietarsi completamente prima del Quid sum miser, diretto molto adagio (3.33), tutto legato, con la figurazione del fagotto concertante che lo è già dalla prima nota, solo un poco accentuata rispetto alle altre.
Il Rex tremendae è davvero maestoso, valorizzando appieno le dinamiche ff e ppp, subito nelle frasi supplichevoli affidate ai solisti, dolce e legatissime; poi, quando l'amalgama polifonico coinvolge nuovamente il coro, quasi si neutralizza l'animando a poco a poco. Da ammirare c'è una monumentale Milanov, già nella forcella sul Sol bemolle («Salva»; 345-346).
Nel Recordare, l'appello alla salvezza tradotto in strumento musicale dai legni è molto puntato - un lamento dolente e soffocato, quasi un respiro corto ed affannoso, tra sé e sé - ed il dialogo di soprano e mezzo è condotto con pacatezza riflessiva, ma senza disattendere gli animando conclusivi. Accanto alle frasi di oboe, viole e violoncelli che, con incanto, rivelano nell'Ingemisco la dimensione ultraterrena, non c'è forcella o segno espressivo che Rosvaenge trascuri di esaltare con un fraseggio dall'incedere amplissimo, coronato da un formidabile Si bemolle.
Altrettanto analitico è il procedere del Confutatis, squarcio gravato da un dolore penoso, ripiegato su se stesso, accentuato anche dall'improvviso stacco con la ripresa del Dies irae. Già in questa registrazione si ammira il rispetto di Toscanini per il p indicato nel Lacrymosa sull'attacco di tenori e bassi (da 646) per consegnare un amalgama sapiente di voci e di strumenti distribuito in generose volute, con un solo respiro che si arresta con gesto davvero “teatrale” prima di «Pie Jesu». E meravigliosa è, ancora una volta, la Milanov impegnata ad addolcire il proprio mezzo sulle frasi acute, già da «Huic ergo».
Se il Domine Jesu è assai poco mosso (indimenticabile la lunga messa di voce del soprano), il tempo quasi non cambia nel Quam olim, come invece indicato da Verdi, e l'Hostias è un Lento molto ben più che Adagio.
Dopo un luminoso Sanctus, Toscanini attacca immediatamente l'Agnus Dei. Qui la forma responsoriale è interpretata coi solisti che cantano un poco affrettando, laddove il coro risponde con note allungate; tutto il brano è giocato più sulle variazioni di colore che su quelle dinamiche.
L'esecuzione del Lux aeterna è vibrante, caratteristica che, temperata con radicalità - sino al 'terribile' - troveremo nelle successive interpretazioni del maestro. Se il Libera me ci consegna, da subito, l'eco asperrima del Dies irae, in «Requiem aeternam» l'uso eccessivo dei portamenti è compensato dalla Milanov con fiati prodigiosi ed un'intonazione immacolata; in carica quale interprete verdiana al Metropolitan per la maggior parte degli anni Quaranta, la sua regale personalità interpretativa e vocale (virtù sconosciute alla Nelli) parrebbero aver allentato nell'Andante la morsa autocratica di Toscanini. Le ultime pagine (da 366) possiedono, comunque, un piglio perentorio che si fa estremamente asciutto nell'invocazione tutta forza (altro suggello toscaniniano) per condurre ad un'estenuazione inconsolabile, dalla tinta nero buio.  





Zinka Milanov, soprano
Bruna Castagna, mezzosoprano
Jussi Björling, tenore
Nicola Moscona, basso
NBC Symphony Orchestra
The Westminster Choir (dir. John Finley Williamson)
New York, Carnegie Hall, 23 novembre 1940

A tre anni dalla data di fondazione dell'orchestra americana, il suono è nelle linee nitidissime tracciate dagli archi inconfondibilmente toscaniniano; già nell'Introito e nel Kyrie, staccato con tempo piuttosto spedito ed animato da una trepidazione interna sconosciuta all'incisione del '38. Inequivocabile è, poi, la lucentezza degli ottoni nel Dies irae, di contrappeso efficacissimo rispetto alla caligine prodotta dai legni nella sezione che transita al Tuba mirum.
È certo questa la Messa da Requiem più lirica di Toscanini, capace di mettere in valore le risorse offerte dal quartetto vocale, a cominciare da Moscona, che canta meglio rispetto all'edizione precedente (particolarmente incisiva è l'oratoria in «Mors stupebit»). Il mezzo rotondo e penetrante di Bruna Castagna, poi, risulta granitico nel Liber scriptus ma meno avvincente nell'Adagio, dove il fagotto sgrana le note con angoscioso incedere.
Nel Rex tremendae, dopo aver efficacemente scontrato tra loro le sonorità dell'incipit, Toscanini ottiene un vero e proprio animando, energico ed incalzante, che si dilegua nelle trasparenze di «Salva me». Quello che segue è un vero e proprio tributo al canto legato, coi solisti impegnati in un Recordare di squisita bellezza: le voci sono davvero prodigiose (alla Milanov è concessa ancora una volta qualche licenza) e così la preghiera risulta sorvegliata nell'espressione, ma umanissima e commuovente.
Se il ventinovenne Björling non vanta il fraseggio di Rosvaenge, lo supera di misura per il timbro freschissimo, dall'emissione franca e sonora (piene di armonici le i nell'Ingemisco). È indimenticabile la dolcezza affettuosa con la quale l'oboe lo accompagna in «Inter oves»; un vero sussulto scuote, poi, l'ascoltatore per le asprezze sollecitate da Toscanini nelle prime battute del Confutatis. 
L'Agnus Dei è asciugato nelle linee, giocato su un'intensificazione emotiva che si mantiene sotto il controllo della forma, ma è palpabile nelle variazioni dinamiche; tanto che la pagina pare abbandonare quasi completamente il carattere topico della preghiera; accade anche nel Lacrymosa, ma il risultato è là meno convincente. Il Lux aeterna è vibrante, ed ancor più scosso che in precedenza da un'urgenza ineluttabile (da ascoltare il basso in «Requiem aeternam»). Nella forcella sulle ultime battute si trattiene tutta la tensione emozionale che trova pieno sfogo nel Libera me, in cui la Milanov si conferma di straordinaria eloquenza, soprattutto nell'accentare le lunghe frasi di «Tremens factus sum ego»; ma il pericoloso Si bemolle dell'Andante è assai meno a fuoco che nel '38.







Herva Nelli, soprano
Nan Merriman, mezzosoprano
William McGrath, tenore
Norman Scott, basso
NBC Symphony Orchestra
Robert Shaw Chorale
(dir. Robert Shaw)
New York, Carnegie Hall, 26 aprile 1948

Dopo la guerra, Toscanini non schiera a New York un cast di prestigio pari a quello di otto anni prima. Anzitutto per polpa e cavata, infatti, sono imparagonabili a quelle della Castagna e di Björling le voci della Merriman e di McGrath, come si ascolta già nell'attacco del Kyrie e poi nel Liber scriptus; il mezzosoprano regala però con la Nelli - alla quale riescono assai più facili che altrove le frasi solistiche del Domine Jesu - un Recordare d'intimità raccolta e raffinata. Nel Confutatis il basso, coi suoi accenti tribunizi, appare invece impari al compito e davvero in difficoltà nel girare la voce sul Si naturale («Gere curam»). Ma, nel Lacrymosa, è più convincente e la pagina risulta, nel complesso, più organica che nella precedente interpretazione, suggellata da un finale teso e al tempo stesso antiretorico.
In questa incisione, i richiami tra trombe in orchestra e in lontananza sono eseguiti con precisione assai maggiore rispetto al '40 e tutto lo squarcio che conduce al Tuba mirum è, anche se di poco, più serrato; altrettanto accade nel Rex tremendae (l'attacco del coro è riuscito meglio qui).
Nell'Ingemisco è interessante notare quanto il f a tempo dell'orchestra sia particolarmente marcato dal direttore («Statuens in parte dextra»; da 490); un effetto drammatizzante che riuscirà compiutamente solo con di Di Stefano.
Certi rilievi, ad esempio nel Recordare, sono asciugati, svelti e maggiormente marcati rispetto al '40. Il Domine Jesu, poi, transita con naturalezza, quasi senza mutare il tempo mosso, nella prima esposizione di «Quam olim», congiungendo i due passi in un unico respiro. È per questa ragione che la pausa emotiva imposta dall'Adagio di Hostias (McGrath esegue il trillo, trascurato da Björling) risulta particolarmente efficace, quasi sorprendente; si tratta d'intuizioni e strategie organizzative del materiale musicale che troveranno altrove piena valorizzazione. Con la ripresa di «Quam olim», con passo piuttosto vivace, si profila inoltre il tentativo di leggere la pagina come un appello fremente ben più che addolorato (tale era nella prima esposizione); ancora una volta, queste sono mutazioni tattiche che scaturiscono da una maggior visione d'insieme della partitura.
Se, nell'Agnus Dei, Toscanini conquista una spiritualità più trascesa dal sentimento, proiettando il clima anche sul Lux aeterna, nel Libera me la Nelli si manifesta decisamente in difficoltà, tanto per peso vocale quanto nei fiati; ma - mai a tal punto sino ad ora - il finale è condotto dal direttore con un tratto assolutamente nitido, secco nelle ultime pagine (dall'attacco della fuga; 179), che risultano perentorie e persino spigolose.


  


Renata Tebaldi, soprano
Cloe Elmo, mezzosoprano
Giacinto Prandelli, tenore
Cesare Siepi, basso
Orchestra del Teatro alla Scala
Coro del Teatro alla Scala (dir. Vittore Veneziani)
Milano, Teatro alla Scala, 26 giugno 1950

Il ritorno in patria ed il leggendario successo delle apparizioni alla Scala sono parte assai nota nella vicenda biografica ed artistica di Toscanini. Per la verità, in questa Messa, nel raffronto con le precedenti, la prestazione dell'Orchestra e del Coro della Scala non è in ogni passo eccellente. Certo, già in Introito e Kyrie, le masse offrono colori ed accenti davvero scuri e drammatici, che si accendono nel Dies irae. E qui la natura schiettamente operistica del coro scaligero si manifesta in tutta evidenza nel pp sottovoce («Quantus tremor»); ma poi, l'attacco dei bassi nel Tuba mirum è clamorosamente in anticipo sul gesto del direttore, pregiudicando così l'esecuzione della pagina.
Il Molto meno mosso su «Mors stupebit» è connotato da un'asciuttezza addirittura frettolosa, spietata, che inaridisce assai il gesto declamatorio di Siepi, concentrato a scandire “con terrore”, sulle note acciaccate degli archi, la parola «Mors». Non entusiasma Cloe Elmo nel Liber scriptus, anche in debito di fiato nella salita al La bemolle. D'interesse sono, invece, le note sul contrattempo di «Nil», ridotte ad un tratto tagliente, che suona come un chiaro rimando semantico al «Mors».
Un'urgenza emotiva scalda il Rex Tremendae, dopo un inizio ancora una volta giocato sui contrasti dinamici; la stretta allargando stentato è particolarmente riuscita e la ripresa a tempo si mantiene in tensione risultando congruente con quanto l'ha preceduta.
Nel Recordare non è evidenziata in modo particolare la figurazione affidata ad oboe, flauto e clarinetto, ma è splendido il canto, servito perfettamente dal maestro; basti l'esempio del p della Tebaldi sul Si bemolle e, nell'Ingemisco, ad onta del solfeggio piuttosto trascurato, ecco le mezze voci di Prandelli.
Monumentale è Siepi. Il dolore è raccolto e nobile in «Oro supplex», con un legato d'altissima scuola in una pagina che conquista un senso unitario (ad eccezione della prima esclamazione su «Confutatis maledictis», non sono infatti troppo marcati i contrasti dinamici tra f e p) e al basso risulta davvero facile arrivare, con mezzo morbidissimo e senza alcuna forzatura, sul Mi naturale della coda.
Splendido è anche il Lacrymosa, dal legato persino voluttuoso, ma senza indugi la cui ragione non sia assorbita nella coesione dell'affresco; un vero e proprio incanto è - oltre allo smorzando della Tebaldi (è in stato di grazia per tutta l'esecuzione) - anche l'attacco sul p cantabile di tenori e bassi, che così si fanno perdonare l'incidente trascorso.
Sin dalla prima esposizione, il «Quam olim» diventa organico al Domine Jesu che lo precede, privandosi, e molto, del tono querulo che lo caratterizzava nelle altre interpretazioni. Incredibile davvero è come, una voce tanto sontuosa, opulenta, come quella della Tebaldi fosse in grado di assottigliarsi sino a rendersi un lumicino sul cantabile dolcissimo («Signifer sanctus»); da manuale è anche l'Agnus Dei affidato alla 'Voce d'angelo'. Nell'Hostias, adeguato nelle sonorità al mezzo non propriamente torrenziale di Prandelli, si ascolta con chiarezza una forcella marcata da Toscanini sul tremolo degli archi (140-141); tutto lo squarcio è splendido, condotto con fedeltà assoluta ai segni e la ripresa di «Quam olim» è eseguita con note solo un poco più allungate di prima, per non dissipare l'atmosfera appena costruita.
Ben più di quello che si ascolta nella Messa del '48, l'incipit del Lux aeterna diventa un appello davvero incalzante, e sepolcrale, tragico non appena è consegnato alla voce di Siepi (di particolare eloquenza è anche la pausa sulla battuta tronca).
Con il Libera me giungiamo, infine, ad una delle vette del canto tebaldiano e, più in generale, dell'interpretazione verdiana; è in tutto stupefacente, sin da un'apocalittico «Dum veneris» fraseggiato con suoni ancor più opulenti di quelli della Milanov, e timbratissimi anche in zona centro-grave (laddove alla Price non riuscirà certo di primeggiare). Mai come prima d'ora Toscanini aveva rivelato a tal punto la natura tragicamente ironica delle battute affidate ai fagotti (16-20), con il loro incedere marionettistico ed il piombare a sorpresa sul f, come uno sberleffo. Ma tutto questo finale è da incorniciare ad eterna gloria degli interpreti; valgano, quale esempio, tanto l'espressività commossa delle frasi nell'Andante quanto la fuga, d'impeto travolgente ed accenti teatralissimi.


 





Herva Nelli, soprano
Fedora Barbieri, mezzosoprano
Giuseppe Di Stefano, tenore
Cesare Siepi, basso
NBC Symphony Orchestra
Robert Shaw Chorale (dir. Robert Shaw)
New York, Carnegie Hall, 1951

«Sempre stringendo, sempre più presto, sempre più forte», raccomanda Toscanini alle trombe nel Tuba mirum durante la prova di questa Messa da Requiem; ed è necessario ripetere il passo due volte per ottenere il risultato immaginato. Anche al concerto, poi, i primi folgoranti accordi del Dies irae sono ben separati fra loro, quasi a voler concentrare in essi, con adeguato vigore, tutto lo slancio energico che sfoga nella pagina; ed è straordinario, fra l'altro, quanto gli interventi dei legni insieme ai corni squarcino con suoni addirittura stridenti la ritmica imposta dagli ottoni e dalle frasi puntate dei bassi nel coro; un impiego dello strumentale che si sarebbe tentati di definire espressionistico.
Sono questi solo alcuni tratti della nuova e ultima lettura toscaniniana, che pone termine a questa lunga disamina interpretativa. Del resto, vigore e compattezza dell'agogica s'individuano già nel Requiem e nel Kyrie (7.37), dove riesce naturale a Di Stefano il coprire la frase d'attacco con un solo fiato sulla linea del basso assai marcata dai violoncelli; poi, nessuna enfasi è lasciata all'esclamazioni di «Eleison» ripartite tra solisti e coro (120-122).
Ancora meglio che alla Scala si rivela Siepi in «Mors supebit» e le pause dell'orchestra sono suggello eloquentissimo di un'asserzione lucida e sconfortata. Non meno memorabile è la Barbieri, sia nel legato che nella sapiente gestione del passaggio di registro, presupposto tecnico indispensabile per affrontare una pagina come il Liber scriptus, e qui la presenza coro - coi suoi brevi richiami al Dies irae - si mantiene vigile ed inquieta. Un lieve rallentando caratterizza ora la figurazione del fagotto, mimesi di un dolore che questa volta diventa inciampo faticoso, gravato da un peso che pare inalienabile; gli fa eco il clarinetto, dolentissimo.
L'attacco imperioso del Rex tremendae genera un dialogo drammaticissimo, prima con le sommesse risposte dei tenori e, poi, con le nervose richieste di salvezza espresse dai solisti; implacabile è il responso del coro, e chi si domanda quale sia la porzione più sinceramente teatrale della Messa verdiana non ha che da soffermarsi su questa interpretazione. A partire dallo stringendo, il contrasto si fa sempre più radicale ed il tenore raccoglie con slancio autenticamente operistico il «Salva me fons pietatis»; lo scontro fra blocchi sonori diventa titanico ed i ritmi procedono con implacabilità addirittura rocciosa, le asperità rilevate sino a risultare violente. Quella qui provocata da Toscanini è una lotta elementare, formidabile, alimentata da una verginità puramente emozionale.
Segue la necessaria decompressione, ed il basso guida così la riappacificazione che anticipa il Recordare. Ed è in questo punto che il motivo ritmico del «Salva me» (relazione tematica evidentissima all'orecchio) è raccolto da flauti, oboe e clarinetto: l'appello disperato prosegue, dunque, temperato in altra miscela, quella di solisti e legni, fino a quanto la cellula musicale transita a tempo prima ai violoncelli (da 409) e, poi, un poco animando anche a viole e fagotti. Con oculatezza ed efficacia assoluta, Toscanini ha equilibrato così sia le risorse offerte dal canto che quelle dell'orchestra in un organismo complesso ed unitario; quello che si indovina studiando a fondo la partitura.
L'implorazione 'passionale' offerta da soprano e mezzosoprano, in special modo nella coda della sezione, muta ben poco passando nelle mani di Di Stefano. Il suo Ingemisco, infatti, lungi dall'essere una quieta oasi sonora, mantiene allertata la tensione emozionale, contristandosi solamente in «Preces me», dove anche l'orchestra cambia tinta; la frase conclusiva, legata con espressione (violoncelli, viole, fagotto e clarinetto; 495-499), possiede, poi, il colore del sangue vivo.
Siepi, sempre nobilissimo, ripete il miracolo del Confutatis, ed altrettanto aristocratico è il suo accento nel Lacrymosa, un Largo dall'incedere piuttosto andante, serrato in un unico, commosso respiro che include la sosta lirica, trasparente di soprani e contralti. Da 647, spetta ai violini (con soprani e legni) marcare in modo davvero incisivo il singhiozzo lamentoso che spezza il passo processionale imposto del cantabile prima che riprenda il dolcissimo «Huic ergo». Pare l'abbraccio tra tre differenti manifestazioni del lutto: il pianto inconsolabile, la celebrazione rituale e la tentazione spirituale.
Durante le prove, Toscanini riserva un'attenzione particolare al Domine Jesu, facendolo ripetere per trovare gli accenti giusti ed amalgamare le dinamiche. È degno di nota il tono affermativo con il quale colora la richiesta «Fac eas de morte transire ad vitam» (204-209), sottratta all'enfasi anche trascurando il dolce indicato in partitura. La frase, infatti, non si carica qui di un senso conclusivo, come in altre esecuzioni, ma funge piuttosto da ponte verso il Sanctus, procelloso e ispido nelle sonorità degli ottoni («Non mezzo forte; fortissimo!» raccomanda, da subito, Toscanini).
Ancora una volta, e più che altrove, l'Hostias è sostenuto da un tremolo degli archi molto presente, inquieto, per nulla atmosferico; proprio come quello che si ascolterà al principio del Lux aeterna, creando così un ponte semantico tra le due pagine. Il tempo si mantiene svelto anche nella ripresa di «Quam olim» e spetta solo ai fagotti tingere la pagina col tono dell'afflizione.
Dopo il Sanctus attacca subito l'Agnus Dei: qui il tempo staccato da solisti e coro è sostanzialmente identico, definitivamente serrando individualità e comunità dei fedeli in un solo abbraccio umanissimo.
L'appello di Siepi («Requiem aeternam») suona ancora una volta ineluttabile, sepolcrale, per nulla tribunizio, ed ora gravato da una lucida rassegnazione.
I limiti vocali della Nelli sono ben noti, ma questa sua esecuzione del Libera me è di gran lunga migliore rispetto a quella offerta nel '48. Toscanini - pur senza la Tebaldi – continua, invece, ad offrire un finale d'asciuttezza e antiretorica straordinarie; da ascoltare attentamente è l'appello finale consegnato al coro (tutta forza, da 381), senza alcuno stentando. In questa interpretazione, però, le scelte di Toscanini sono condotte in modo talmente radicale da far apparire questa ma anche altre pagine come fossero in bianco e nero.

giovedì 23 ottobre 2014

Il giovane favoloso

Sono usciti, a poca distanza fra loro, due film biografici dedicati ai poeti italiani: il Pasolini di Ferrara ed Il giovane favoloso di Martone. Alla circostanza temporale si sommano caratteri comuni; entrambi i soggetti, infatti, sono incentrati su autori che furono sostanzialmente in dissonanza tanto col proprio tempo storico - che segnarono in maniera indelebile e con virtù addirittura profetiche - quanto nel confronto col contesto culturale loro contemporaneo, niente affatto concorde nel riservare l'accoglienza che oggi tributiamo deferenti. Tornano così alla mente i versi di Franz Grillparzer: «Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare».
Il film di Ferrara è lavoro non troppo riuscito, laddove invece l'opera di Martone possiede ben altro respiro. Cronaca di quel dannato giorno di novembre 1975, Pasolini accosta fra loro le parole e le azioni di vita quotidiana ai progetti letterari e cinematografici che restarono incompiuti; lo scopo è quello d'interpretarne sensi e significati in chiave essenzialmente umana, personale. Così il regista legge un desiderio di paternità nel Pasolini che stendeva la sceneggiatura di Porno-Teo-Kolossal e indovina il soffio della morte nell'afflato onirico del progetto allegorico-fantastico dedicato al Re magio.
Nel Giovane favoloso di Martone, invece, l'ambizione è quella di far combaciare, sovrapponendoli, itinerario biografico e corpus letterario. Va ricordato che, per tutta la vita, Leopardi si oppose risolutamente ai tentativi di svilire la portata delle proprie convinzioni ogni qual volta fossero ricondotte alla sua sfortunata condizione fisica; tratto che, però, deve essere adeguatamente marcato in qualunque narrazione biografica sul poeta marchigiano. Tentazione estrema sarebbe quella di consegnare alla dimensione strettamente privata tutta la poetica leopardiana; penso soprattutto all'equazione che vede schierate da un lato poesia "immaginativa" e "sentimentale" e, dall'altro, fanciullezza ignorante del bene o del male e verità derivata dall'esperienza di una vita che fu poco immune alla sofferenza. 
Anche coautore della sceneggiatura, Martone ha affrontato il problema scontrandolo a viso aperto: dialoghi e situazioni, infatti, si servono in massima parte di luoghi letterari autentici in una riuscita sintesi di poesia e prosa, epistola ed assaggio zibaldonesco lungo una linea narrativa che va dall'infanzia al soggiorno partenopeo, suggello di morte che sbuffa fumo nero come nella Venezia infetta di Mann/Visconti, ma non può che rimandare alla città di Renato Caccioppoli. L'itinerario in evoluzione del pensiero di Leopardi è concentrato ora in alcuni punti (penso ai riferimenti a Vico e agli illuministi), ora dosato con attenzione tanto nei contrasti con l'ambiente letterario romano quanto nelle battute sarcastiche dietro le quali s'intravede la dimensione cosmica del pessimismo. Il Leopardi che tutti conosciamo - ed è qui che sta la riuscita del lavoro - è precipitato nella vita vissuta e nei luoghi autentici, che possiedono una forza evocativa fuori dal comune; ad illuminarli una fotografia di sensibilità neoclassica e raffinata intelligenza (Renato Berta). 
Correttamente, Martone pone una certa distanza tra il proprio eroe ed i fermenti risorgimentali, anche se l'epoca d'ambientazione è quella della prima parte del suo bellissimo Noi credevamo. Ed il film deve davvero molto ad Elio Germano che ha trovato in Leopardi un altro personaggio tormentato; ne esalta le caratteristiche più vitali, inarrendevoli, come la carne malata del poeta ed il suo infaticabile intelletto che brilla attraverso occhi di fanciullesca lucentezza. 
L'estraneità d'accenti (teatralissimi) di Popolizio si replica, in maniera convincente, nella musica elettronica di Apparat affiancata al Rossini strumentale, sacro ed operistico (la Shabran già messa in scena a Pesaro proprio da Martone); davvero appropriata l'elegia dei violoncelli solisti del Tell scelta per accompagnare il gesto di Germano/Leopardi che affonda la mano nella terra alle pendici del Vesuvio. 
Alcune suggestioni ritornano per saldare la materia. Ad esempio, quando il protagonista è accucciato accanto all'acqua di un mare nel quale gli è amaro il naufragare, sia l'Arno o il golfo di Napoli. 
Il regista, invece, rischia davvero molto - e non è del tutto ripagato - quando l'indagine si sposta sul versante strettamente psicologico, tanto nell'immagine di Adelaide Antici come Natura e «madre di parto e di voler matrigna» quanto nelle sequenze ambientate nel bordello. 
Comunque, quella di Martone si conferma una poetica che appartiene, a giusto titolo, al ramo sano del cinema italiano.