mercoledì 10 maggio 2017

Song to Song



Se la lunga gestazione contemporanea a quella di Knights of Cups (2015) impone di leggere Song to Song insieme al penultimo film di Malick, tratti evidentissimi accomunano questi due lavori agli altri titoli firmati dal regista statunitense nel secondo decennio degli anni 2000; e, in modo particolare, sono le caratteristiche che richiamano alla mente le cifre con le quali si scrive una lettera agli amici oppure una professione di verità. O forse una parabola condivisa col maggior numero di persone possibili, magari attirate al grande schermo grazie ad un cast di stelle: qui Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Cate Blanchett e Natalie Portman. Il discorso di Malick prosegue, insomma.
Austin, Texas. Sono gli spazi americani e i cieli come altrove cercati da una terra che schiaccia l'orizzonte e lo allarga nella profondità, in un piano che è al tempo stesso quello di scorrimento delle merci e dei desideri indotti. «Ogni bacio era sempre la metà di quello che pensavo sarebbe dovuto essere», confessa Faye (Mara) nei primi minuti.
La fotografia, per prima cosa. È il cinema di Malick, forse, il vero 3D perché provoca la dimensione tattile dello sguardo e si dimostra in ogni sequenza informato, e al grado massimo, del rapporto che abbiamo oggi istituito con la visione, noi fruitori d'immagini. Ciò che attrae, infatti, l'attenzione di chi guarda, di chi è spettatore, non è più materia che si limita ad essere vista, ammirata nella distanza, ma pretende invece di essere fruita, goduta, mangiata come si fa con una pietanza, utilizzata al fine di un godimento gastrico, sia pure estetico: fruire è compiacersi, trovare soddisfazione. Dunque, a Malick bisogna ascrivere, anzitutto, una capacità formidabile di sentire lo sguardo dell'uomo contemporaneo sulla realtà e con esso il modo in cui vuole ritrovarlo (per ritrovarsi) al cinema, restituito da un'angolatura sovrana e organicistica che è quella del regista onnisciente.
Ben più che il racconto - una storia di scoperta, caduta e rinascita avvitata attorno al più consumato dei trii amorosi -, è il raccontarsi della trama, il suo pressante fraseggio, a stimolare l'immaginazione di Malick che ordina e disordina la fotografia di Lubezki (fra i montatori c'è un maestro come Hank Corwin). E la sintassi di Song to Song possiede così il passo di un magico battito di ciglia: aprendole ci si trova in pochi istanti sempre altrove, in una dimensione narrativa la cui successione logica è data dall'accostamento dialettico di sequenze e percezioni. È un procedimento che, in certa misura, richiama le rivisitazioni della vita terrena testimoniate delle esperienze ai confini della morte, anche per il clima di rilettura etica che le distingue: un riassunto delle azioni finalizzato a individuarne gli snodi essenziali, quelli che possiedono un senso e liberano sentimenti. Ed è così che, ancora una volta, il voice-over degli attori di Malick si declina soprattutto al passato: gioie ed affanni del presente sono evocati in modo partecipe ma da una distanza rasserenante che suona fatalmente ultraterrena.
Lawless e poi Weightless sono stati i titoli scelti per il film prima di accogliere quello definitivo. E Song to Song suggerisce parimenti l'instabilità, la mutevolezza traballante degli altri due, ponendo in più l'accento su una caratteristica folgorante del lavoro: la pluralità delle musiche ed il loro trattamento in un dentro e fuori dal sonoro di fluidità assolutamente virtuosistica, tanto per la selezione dei brani quanto per le diverse profondità spaziali richieste.
Se la lente tonda che arma la macchina da presa di Malick sta addosso ai corpi attoriali pedinandoli fino a deformarne l'immagine per poi osservarli dileguare sul fondo o di traverso, i poli attraverso i quali il regista orienta il proprio sguardo panteistico sono quelli di sempre, eterni. I personaggi del film vi si conformano integralmente non essendo altro che un mezzo per evocare, una volta di più, l'assoluto nella sua rigogliosa specificità: la salvezza, il dolore, l'amore come entità supreme che prima si scoprono e poi tornano come risposte al divenire della vita nel suo farsi. Restano così, nel pugno dello spettatore che si sforzi di compendiare in poche parole il lavoro del regista, anzitutto questi soggetti materializzati sullo schermo da corpi che si toccano, occhi che piangono, bocche che si sfiorano e sorridono, mani che cercano e allontanano.
Il finale compassionevole e misericordioso è suggello di una parabola che sembra, proprio qui, aderire compiutamente alla dimensione morale mettendo da parte per un istante la logica narrativa. Un ultimo atto di fede nell'uomo.

venerdì 5 maggio 2017

"La gazza ladra" alla Scala



È affascinante assistere ad una rappresentazione d'opera nel luogo in cui è stata proposta la prima volta, specie se nell'anno e nel mese di una ricorrenza centenaria: La gazza ladra, 31 maggio 1817, Teatro alla Scala. L'occasione offre, infatti, un affondo quasi sensoriale in un passato che pare avvicinarsi a noi spettatori del XXI secolo più che in altre circostanze. Merito certo, in parte non trascurabile, anche di nuovo approccio ad un capolavoro rossiniano poco eseguito per via della sua intrinseca difficoltà (la mia ultima volta fu a Pesaro nel 2005). Immaginando di cogliere questa volta sì, per il fatto stesso di essere alla Scala in un anno diciassettesimo, gli intimi segreti di un testo che si possiede soltanto dopo molti approcci, torno dunque ad interrogarmi attorno ad una partitura affacciata su due mondi estetici e culturali in equilibrio fertile e precario, destinati da là ad un decennio al sorpasso storico di uno sull'altro. Del resto, più si studia quel periodo e più le definizioni di classico e romantico, caratteristico e bello ideale, sono destinate a sfumarsi; a maggior ragione poi se con esse, per imprigionarle fra sbarre di una gabbia, si tentasse pure d'afferrare l'uccello che presta il titolo all'opera di Rossini. 
È con entusiasmo partigiano che Riccardo Chailly ha raccolto questa sfida musicale ed interpretativa. Perciò bisogna rendergli merito e non si può, dunque, come avviene troppo spesso in queste occasioni, lamentarsi dell'assenza dalla Scala di titoli poco frequentati, sempre a vantaggio del solito jukebox, e al contempo stigmatizzare la loro riproposta perché non sussistono mezzi adeguati. Da nessuna parte, altrove? Forse, chissà. Ma è anche vero che la questione Gazza ladra propone allo spettatore attento lo specchio di una dicotomia forse oggi insanabile, e in parte coincidente col doppio verso da cui si legge l'opera: da un lato, le forme ampie e strutturate trascinate in un vortice musicale nel quale l'esigenza del far brillare bene il canto su un'orchestra generosissima eccede la volontà di porlo in strettissima relazione col dettato drammatico; e, dall'altro lato, l'azione stessa di un dramma realistico d'ambientazione rustica, con qualche elemento favolistico, ma alta temperatura tragica di diversi passi, quelli in cui la verità degli affetti reclama con passione il proscenio. È una dicotomia mirabilmente conciliata dal genio rossiniano e che, esercitata sul terreno dell'opera di mezzo carattere, consente di ritracciare la rotta che conduce dall'opera seria al nascente melodramma. E ancora: la bellezza di un canto che non nasconde difficoltà addirittura olimpioniche e personaggi di ceto medio-basso scaldati da affetti sinceri. Se si vuole: un piano estetico ed uno storico. L'attrito era percepito anche all'epoca di Rossini e, a questo proposito, tornano in mente le celebri parole che Vincenzo Monti indirizzò a Petracchi riguardo al libretto di Avviso ai Giudici: «il conciliare le pretensioni dei maestri di musica, e gli abusi del moderno teatro colla ragione poetica, parmi divenuta cosa impossibile, o del certo miracolosa.»
I nomi leggendari dei cantanti di Gazza ladra alla Scala dalla prima assoluta sino al 1841 (poi la fortuna si eclissa) testimoniano parti affidate non per farsi applaudire limitandosi a vincere le difficoltà, ma per trovare in esse i punti di forza per imporsi: sono allora la vocalità anfibia di Teresa Belloc-Giorgi e quella prodigiosa di Henriette Méric-Lalande, il genio di Filippo Galli e di Giovanni Battista Rubini, la duttilità e il nobile fraseggio di Antonio Tamburini, senza dimenticare Marietta Brambilla ed Ignazio Marini (Fernando a ventitré anni, cinque prima di creare il ruolo di Oberto per Verdi). 
Chi si cimenta alla critica di Gazza ladra deve, dunque, valutare il canto come elemento storico e musicale di primaria importanza. Non si può amare Rossini senza amare il canto, quello bello. Dunque lasciamo agli imbecilli le sarcastiche posture con le quali qualificano i «vociomani», parola orrenda e senza significato.
Per quanto attiene al contributo dei nomi di primissimo piano, La gazza ladra resta defilata nell'appuntamento con la Rossini Renaissance se messa al confronto con altri titoli; fanno eccezione Ramey e Valentini Terrani. E, se il giudizio va ponderato su una discografia non generosa (sia quella ufficiale che la "pirata"), per ascoltare una Ninetta col belcanto di alta scuola lungo il fil rouge Tetrazzini-Dal Monte si ricorre molto volentieri alla Pagliughi in un'incisione della cavatina (1934). C'è poi la questione non trascurabile dei tagli e degli accomodi, come quelli che offre l'edizione fiorentina del '65 il cui pregio maggiore risiede certo nella direzione di Bartoletti sempre incisivo nel lumeggiare in modo vario gli accompagnamenti, specie quelli dei cantabili (virtù condivisa con Campanella), e nell'indovinare i colori drammatici di pagine quali il Coro maschile dell'atto secondo e il Finale I (specie da 1:06:43). È proprio nei cantabili che si apprezzano in modo particolare gli accenti ed il legato della Panni e di Montarsolo (Duetto Fernando/Ninetta, da 36:48; Terzetto Fernando/Ninetta/Gottardo, da 48:19). C'è poi il Duetto con Pippo (da 1:30:00), purtroppo scorciato e malamente privato della mimesi belcantistica (le lacrime che si distillano) per tacere della grande aria di Fernando, eliminata del tutto.
Sotto il profilo delle molte virtù vocali richieste agli interpreti del titolo rossiniano, il cast di questa produzione scaligera di Gazza ladra resta insufficiente, anche perché tutt'altro che munifico quanto a variazioni ed agilità; sono cantanti, già così, impegnati a dare il massimo delle proprie risorse. Può essere stata questa la considerazione che ha guidato Chailly, sin dal principio, verso una lettura tesa a mettere in massimo valore le risorse ritmiche della partitura, finalizzandole ad una tenuta della narrazione che sino ad ora non ha eguali. E questo anche raffrontandola ai suoi precedenti appuntamenti scaligeri col teatro rossiniano, nei quali il direttore appariva piuttosto frenato dalla ricerca di equilibrio fra ritmo e linea melodica. Se la tenuta del palcoscenico è ottima e il finale atto primo trascinante, la qualità del suono orchestrale è spesso sacrificata all'effetto di una serrata logica teatrale, specie nei cantabili (soprattutto quello del grande terzetto) che non cercando un passo alato soffrono un poco di meccanicità. Ma quella di Chailly è una lettura affermativa, illuministica del dramma, sin da una Sinfonia che comincia con una marcia un poco sorniona e a scena aperta per proporre la rappresentazione marionettistica del ritorno a casa del giovane militare. Sono le bellissime creazioni della Compagnia Colla che si apprezzano appieno in spazi ridotti ma che il regista Salvatores sfrutta qui come controcanto ad un'azione che reclama momenti di equilibrato distacco dalla materia, in ciò fedele alla ben nota indole del compositore, e anche ricorrendo a tocchi di costume à la Louis Philippe e a un Podestà vampiresco ma senza spavento.  
Sono, rispetto ai valori del canto, altri allora quelli che il direttore si preoccupa di rilevare. Se i recitativi meriterebbero articolazione più solerte, è la continuità narrativa a trarre vantaggio dalla tenuta complessiva dei numeri ampi e strutturati, capaci così di catturare l'attenzione dello spettatore del XXI secolo, a digiuno completo delle estasi del canto - quelle mediante le quali si leggono i caratteri - e precipitato invece in una dinamica consumazione del dramma, tutta tesa verso la felice risoluzione. Ma con un momento particolarmente riuscito e degno di memoria: la marcia al patibolo, di colori ed atmosfere veramente suggestive. 
Chi cerca, invece, suggerimenti dal canto, trova una Ninetta (Feola) che offre nel timido registro acuto un canto di fibra e poi uno non risolto in basso. È generosa sul palco, certo, grazie ad un intervento registico che inventa per tutti un gioco scenico assai spigliato, ma anche portatrice di una medietas interpretativa che in Rossini, privata di spessore vocale, resta appunto tale, e cioè generica, dal momento che anzitutto attraverso le qualità del canto si definiscono tipo e carattere del personaggio. Anche Pippo meriterebbe ben altro mezzo che quello opaco offerto da Serena Malfi, voce che suona davvero poco nella grande sala, almeno quanto quella del tenore Rocha il quale deve certo essersi stupito nel verdersi affidata dalla Scala una parte siffatta. Se è anzitutto di risorse sceniche che si avvale il Fernando di Esposito, Pertusi risolve il ruolo di Gottardo ricorrendo con troppa frequenza all'esuberanza espressiva della parola (cantabile dell'aria) ma affrontando con una certa protervia la difficile vocalizzazione delle terzine nella cabaletta, pur con un mezzo piuttosto appannato.




mercoledì 3 maggio 2017

I cento anni di Danielle Darrieux

Insomma, fra i due turni delle presidenziali i cugini d'Oltralpe hanno altro a cui pensare. Ma il 1° maggio la decana degli attori francesi ha compiuto 100 anni: è Danielle Darrieux.
Il gigante fra i giganti, Max Ophüls, trovò in lei l'incarnazione del vuoto e dell'inesistenza che cercava per la protagonista di Madame de... (1953). «Diverrete», le diceva, «il simbolo stesso della futilità passeggera, spogliata d'interesse, e dovrete farlo in modo che lo spettatore sia sedotto e profondamente turbato dall'immagine che rappresentate.»