giovedì 3 marzo 2016

Anomalisa




Il grande sceneggiatore dietro la macchina da presa. Charlie Kaufman, ora insieme a Duke Johnson, non ama starsene da parte: «l'abitudine per uno scrittore è quella di consegnare una sceneggiatura e poi sparire; questo non fa per me», dichiarava già anni fa. 
Più che sulla trama di un film, Anomalisa poggia sull'attesa di un'orazione davanti al pubblico (che è poi attesa del film stesso); attesa che è essa stessa il contenuto del film. Così, al termine, il discorso confusionario rivolto dal protagonista al proprio uditorio è anche l'atto di resa del regista/sceneggiatore, incapace di dichiarare il proprio messaggio, i propri contenuti, seguendo la traccia di appunti abbozzati su un foglio; insomma, secondo scaletta e secondo le aspettative di un pubblico che forse - per una volta - si troverà tradito da questo plot estremamente lineare, messo di fronte ad un solo, autentico, protagonista che giunge in città, attende in albergo, ha una breve avventura, fa un breve e confusionario discorso per poi rientrare a casa.
Anomalisa dimora quasi interamente nei non luoghi (aerei, taxi, hotel d'alta categoria) abitati durante il business trip da Michael Stone; luoghi ed azioni così usuali per gli spettatori, nella vita vera, da trovarsi per una volta elevati al rango di animazione. È un lavoro decisamente più riuscito del precedente Synecdoche, New York ed almeno altrettanto sincero nel condividere col pubblico le frustrazioni, lo spaesamento e gli interrogativi di Kaufman.
Atarassia ed indifferenza sono dipinte sul volto-maschera di Stone; imperturbabilità che lui legge sui volti degli altri, forse assai meno impassibili del suo. Pupazzi come lui, però, che mostrano le giunture di maschere delle quali paiono essere prigionieri, impossibilitati a rivelare la verità del volto; nel sogno, essa non mostra altro che un meccanismo di viti e di bulloni. 
Sono temi cari a Kaufman quelli dello sdoppiamento delle personalità, dei ruoli giocati dagli individui e, ancor più, degli individui giocati dai ruoli. Qui lo status psicopatologico del protagonista si riassume nella sindrome di Fregoli (il nome del leggendario trasformista è prestato all'hotel nel quale alloggia Stone). Si tratta della malattia psichiatrica che affligge colui che si sente perseguitato da una singola persona la quale assume le sembianze di coloro che lo circondano, senza mai abbandonarlo; un delirio di trasformazione somatica proiettato sulle persone del proprio ambiente e vissuto dal protagonista sin dal principio come realtà normale, almeno sino alla parentesi onirica che è rivelazione però tutt'altro che liberatoria.
Quella trattaeggiata dai due registi è una realtà distopica - assai prossima al nostro tempo - nella quale l’uomo appare vittima di fragilità ed illusioni senza possibilità di redenzione, incatenato ad un soggettivismo che drammaticamente gli preclude lo sguardo dell'altro, del prossimo, e insieme le verità di cui ogni sguardo è portatore. 
Eppure, lo spiraglio della salvezza, se non spetta certo al protagonista, appartiene almeno a colei che con la propria voce e una ferita sul vosto incarna l'anomalia della realtà, vista dagli occhi e dalle orecchie di Stone: è Anomalisa, infatti, che - sincera sino in fondo con se stessa nel dichiarare le proprie sconfitte, le proprie insicurezze, senza farne colpa agli altri - si sottrae alla sorte dello scrittore, che resta con lo sguardo di pietra rivolto ad un altro marchingegno umano sulle scale di casa propria.