mercoledì 16 maggio 2018

Kwaidan


Splendidi i versi di un poeta anonimo conservati nel Sattasaī, la più antica antologia indiana classica. Sono omaggio alla Dea della «Voce» e della musica: a lei il potere di tramutare misteriosamente la realtà mettendoci in contatto con una trama allusiva di memorie ed emozioni.


Gloria a Vāṇī che, quasi sorridesse
sempre, deposta la sua impronta
sul loto del volto del poeta,
mostra un mondo diverso per davvero.

 
(Sattasaī, 983)



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 «Sua Maestà vuole che tu ti senta a tuo agio.»
«Sì, Vostra Maestà.»
«Suoni il biwa splendidamente. E ogni notte reciti la lunga storia di Heike che consiste di un centinaio di canzoni. Sua Maestà è molto compiaciuto. Anche noi siamo molto contenti.»
«Grazie mille. Come vi ho detto, ci sono diciannove canti segreti e cinque poemi segreti a parte la storia principale. Ci vogliono molte notti per rappresentarli tutti. Mi piacerebbe cantare la parte che vi piace di più, stasera.»
«Ha ragione. La battaglia di Dan-no-ura. Quella è la parte più commovente dell'intera storia.»
«Il canto dell'ultima battaglia...»
«… di Dan-no-ura.»
«Allora, Hoichi, cantaci della battaglia di Dan-no-ura.»


怪談 Kwaidan, lett. "Storie di fantasmi", di Masaki Kobayashi, 1964







venerdì 11 maggio 2018

"Francesca da Rimini" alla Scala





Bisogna compiere qualche sforzo per ritrovare nella Francesca da Rimini data ieri sera in replica alla Scala il clima e i tratti che fecondano molteplici il capolavoro di Zandonai, ma solo se si vuol godere di una produzione teatrale che non si limiti alla riproposta del titolo "raro" per guadagnare, invece, dimensione culturale: aggettivo che, però, si dovrebbe prima mondare avendone fatto troppo spesso in musica un pessimo impiego. 
Nello spettacolo, si troveranno allora di Francesca suggestioni belliche (e cenni biografici dannunziani) che valgono più della circostanza storica: quando l'opera va in scena per la prima volta a Torino, il Primo conflitto mondiale è cominciato (non ancora per l'Italia) e la partitura, certo, ne avverte preconizzandone assai i clangori. L'apparato scenico con le sue onnipresenti macchine vorrebbe dunque, nell'intenzione del regista Pountney, possedere carica simbolica in grado di scontrarsi per amplificarlo col côté intimo della vicenda, cuore della stessa. Ma il tentativo riesce con buon effetto solo all'atto secondo, perché davvero trascurato altrove per mancanza di un disegno coerente che accompagni lo spettatore sollecitandone l'attenzione rimane il percorso emotivo dei protagonisti in una tragedia dell'ineluttabile che si costruisce sulla scena a tappe forzate. Se il lato estetizzante è richiamato al principio da costumi rinascimentaleggianti (il fatto non sorprende perché per la medievale Francesca è stata l'abitudine), il regista non riesce a cancellare quell'impressione di déjà-revu mal masticato: si va da pleonasmi quali l'omicidio del Giullare, a Samaritana che si trastulla con un pupazzo di unicorno per giungere al finale d'opera che stempera non poco la formidabile carica drammatica impressavi dall'autore.
Questa volta alla Scala si troveranno, poi, di Francesca da Rimini ben sollecitati nella fastosa e sapiente trama orchestrale tanto i colori arroventati della battaglia quanto le tinte preziose del soave crepuscolo, così come quelle del falso antico. Merito dell'orchestra guidata con sicurezza da Luisi, cui competono tanto i ritmi serrati dello scontro alle mura di Rimini quanto le evocazioni trasognate di primo e terzo atto. Si ascolta in sala una compagine dal suono brillante e affermativo, "alla Strauss" dei poemi sinfonici, che riluce in modo memorabile durante il cosiddetto incontro della grata, esposizione la più ampia del tema dell'amore; qui però, infelicemente, una macchina scenica dorata (Paolo a cavallo fra arcieri) percorre il binario trovando ostacolo nella seggiola dell'immancabile tavolino al proscenio. Meno avvincente per varietà ed intima commozione è, invece, la tenuta narrativa offerta dal direttore, che non è parso aderire in maniera convinta non già alle suggestioni e ai virtuosismi offerti dalla partitura quanto piuttosto al racconto dannunziano, altrettanto caro al compositore. Complice una distribuzione in più parti deficitaria, si ha l'impressione che non si sia trovata la quadra per risolvere un titolo che è Giano Bifronte, lavoro di un compositore molto ben aggiornato riguardo alle novità dall'opera in direzione vieppiù sinfonica ma altrettanto orgogliosamente legato ad un modo di intendere il canto capace di preservare il racconto, e cioè la parola, in rapporto col tessuto strumentale dal quale essa trova ragione ed atmosfere; parola che è quella dannunziana come zandonaiano è il colore chiesastico (l'amore senza eros citato nelle lettere del compositore) che costituisce, non superficialmente, il tratto anticheggiante dell'opera. 
Ma per rilevare sulla scena questi tratti salienti è necessario avvalersi di una compagnia di canto di provato valore. In un comparto femminile che fa molto soffrire, basti citare la Samaritana della Kolosova (e pure l'interprete di Smaragdi) per riconoscere momenti nei quali il colore orchestrale non trova in scena quel colore del dramma che è anzitutto aderenza all'affetto dei personaggi. La protagonista, la cui presenza dovrebbe contarsi fra le ragioni principali per andare in scena con Francesca da Rimini, non passerà certo alla storia del canto per essere una raffinata dicitrice. Cantante professionale ed attenta a sorvegliare ogni frase così come fa coi limiti e difetti del proprio mezzo, Maria José Siri lo è; pur esibendo oggi una voce parecchio affaticata rispetto agli esordi. L’assenza del registro grave si maschera meglio che altrove in questo ruolo, ma non altrettanto si può affermare riguardo alla saldezza non immacolata di p e pp attorno ai quali si dovrebbe costruire un fraseggio che, nel suo caso, resta limitatissimo. 
 La costruzione del personaggio è davvero altra cosa, specie se si tratta di un ruolo che il compositore sentì suo al punto tale da lasciare che la propria inventiva surclassasse, e di molto, le facoltà della consorte che doveva esserne prima interprete. Ci sono i dischi, si dirà con ragione. Dal vivo ascoltai la Dessì che, specie in fatto di parola, era davvero ben altra interprete rispetto alla Siri, essendo puntuale su ogni frase importante, dolcissima e tragica al contempo. L'occasione offre a chi legge l'opportunità di andare, o tornare, alla leggendaria interpretazione di Magda Olivero che merita altrove ben altra disamina essendo costruzione stupefacente del personaggio a partire dall’unico dato che si conosca per certo: il pieno possesso dei mezzi tecnici, per cominciare. 
Meglio riusciti sono ieri sera i passi più schiettamente veristici affidati agli interpreti maschili: il Malatestino di Ganci e il Gianciotto di Viviani, mentre tra i ruoli minori si è distinto il Ser Toldo di Matteo Desole. Fa eccezione, in difetto, il Paolo di Puente. E dire che la parte è epitome del canto su centro e passaggio, zone estremamente problematiche per un tenore che bras tendus vers la salle cerca invano quell’ampiezza che la voce imprigionata tra bocca e gola non gli consente.

 

lunedì 7 maggio 2018

Ermanno Olmi (1931-2018), in memoriam





Forse la visione più adatta a salutare Ermanno Olmi è quella del suo Giotto, filmato per Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce di Haydn. Spero che il tributo delle istituzioni - specie nella nostra regione - sia all’altezza del momento, anche se temo il contrario.
Olmi è stato il nostro regista, isolato e stanziale come i due film d’esordio: Il tempo si è fermato, Il posto. E, nonostante I fidanzati che tanto piaceva a Godard, Olmi ci mise vent’anni a diventare un cineasta internazionale e trenta a lasciare i set del nord Italia per produrre il suo primo film internazionale nella Parigi reale (come set): La leggenda del santo bevitore. Come ricorda Ghezzi in uno scritto del 1989, quella è una Parigi filtrata, tradita, inventata, «anch’essa sur place, sul posto, come momento di cinema che non ha bisogno di muoversi perché tutto è già presente in esso». 
Olmi, infatti, è stato soprattutto il Maestro, forte di un’etica che non lo vide mai piegarsi a compromessi e cedimenti alle mode, alle leggi del mercato. Lo ha distinto una facoltà creatrice “rinascimentale”, che ha mantenuto sino all’ultimo, essendo una delle poche figure in grado di dominare tutti gli aspetti realizzativi di un film. Per lui il patrimonio artigianale del cinema non era affatto disperso, cancellato.
Legato ai luoghi e alla Storia, il cinema di Olmi cantava l’uomo come misura delle cose. Il suo film che amo di più è quello che al principio del nuovo secolo rivitalizzò un filone oggi - ahimè - disseccato: quello del film storico, “in costume”. Un genere sostanzialmente abbandonato dal cinema nostrano che canta soprattutto dolorini microborghesi avvolti nel rassicurante contesto estetico del benessere, per dare allo spettatore quello che vorrebbe nella vita.
È là, nel Mestiere delle armi, che Olmi dialoga forse al grado massimo e in maniera assolutamente inedita con autori monumentali, trovando (anzi, ritrovando) nel racconto quella dimensione che è cristiana e al contempo universale, partecipe dell’uomo e delle cose attraverso la memoria che le anima, specie se avvolte nella nebbia di un mattino lombardo.
Le parole del suo umanissimo eroe Giovanni dalle Bande Nere sul letto di morte sono semplici perché integre: «Vogliatemi bene quando non ci sarò più».