lunedì 11 aprile 2016

"Aparajito": la lettura della poesia





Dov'è la più verde delle terre?
Dove cadrà il tuo piede sulla tenera erba?
Dove il raccolto è dorato?
E anche i fiori sono d'oro?
È nel Bengala, nel nostro Bengala,
la più verde delle terre.
Dove cantano il tordo e il passero?
Dove nidificano gli uccelli tessitori,
dove i salici piangono per la pioggia?
In quale terra la flora e la fauna sono così ricche?
Nel Bengala, nel nostro Bengala,
la più verde delle terre.
In quale terra si parla una lingua che riempie
la tua anima di nostalgia?
Dove puoi sentire i toni limpidi di un baul
il cui cuore sta cantando?
Nel Bengala, nel nostro Bengala,
la più verde delle terre.

(Satyajit Ray, Aparajito, 1956)

sabato 9 aprile 2016

"Il sapore della ciliegia": il discorso del signor Bagheri





«Un turco va da un medico e gli dice: "Quando tocco il mio corpo con il dito sento male; quando tocco la testa, fa male; le gambe, mi fanno male; la pancia, la mano, sento male." Il dottore lo esamina e poi gli dice: "il tuo corpo sta bene, ma hai le dita rotte!". Mio caro, la tua mente è turbata, ma non c'è niente di sbagliato in te. Cambia la tua prospettiva! Avevo lasciato la casa per andarmi ad uccidere, ma un gelso mi ha cambiato; un gelso qualunque, un normalissimo gelso. Il mondo non è il modo in cui lo si vede. Devi cambiare la tua prospettiva e cambiare il mondo. Essere ottimista. Guardare le cose in modo positivo. È il tuo momento; e tu, per un qualche problema, hai intenzione invece di suicidarti. Per un solo problema! La vita è come un treno che continua a muoversi in avanti e poi raggiunge la fine: il capolinea. E la morte aspetta al capolinea. Certo, la morte è una soluzione, ma non adesso, non durante la tua giovinezza. Perdonami per averti trascinato lungo questa strada rocciosa. Non lo sapevo. Pensi che una cosa sia buona e proprio allora ti rendi conto di sbagliarti. La cosa principale è riflettere. Credi che ciò che fai sia giusto, ma poi ti rendi conto di sbagliare. Parla, dì qualcosa per darmi un attimo di respiro. Ho parlato troppo, ho detto tutto. Ho fatto tutto un discorso. Dì qualcosa! Gira a sinistra qui, per favore. In ogni caso, se non si parli, parlerò un po' di più io. Se non parli, lo farò. Hai perso ogni speranza? Hai mai guardato il cielo quando ti svegli la mattina? All'alba non vuoi veder sorgere il sole? Il rosso e il giallo del sole al tramonto non li vuoi vedere più? Hai visto la luna? Non vuoi vedere le stelle? La notte della luna piena non la vuoi vedere di nuovo? Vuoi chiudere gli occhi? Ti prego di prendere il bivio a destra. Del resto la gente vorrebbe dare un'occhiata qui e correre laggiù! Ma non hai voglia di bere acqua da una sorgente, di nuovo? O lavare il viso in quell'acqua? Gira a destra. Se si guardano le quattro stagioni, ogni stagione porta i suoi frutti. In estate, c'è la frutta, in autunno anche; l'inverno porta la frutta e la primavera altra ancora. Nessuna madre può riempire il suo frigo con una tale varietà di frutta per i suoi figli. Nessuna madre può fare tanto per i suoi figli come fa Dio per le sue creature. E tu vuoi rifiutare tutto questo? Dare via tutto? Rinunciare al gusto delle ciliegie?» 

(Abbas Kiarostami, Il sapore della ciliegia, 1997)

giovedì 7 aprile 2016

"La cena delle beffe" alla Scala




Titolo raro e quindi premessa corposa per collocare nella giusta prospettiva la fatica del compositore, equidistante tanto dal dramma in versi di Benelli quanto dal film di Blasetti; e non è solo questione di lustri.
La cena delle beffe appartiene infatti all'estrema produzione teatrale di Giordano che fra '24 e '29 era impegnato a sottrarsi ad uno stile e ad un gusto percepiti come inadeguati rispetto alle radicali metamorfosi del decennio; periodo nel quale era giunto a termine quel processo di trasformazione del verismo che aveva condotto tanto lui quanto i suoi colleghi italiani - almeno negli esiti felici - verso l'approdo ad una concezione drammaturgica più elaborata, assai meditata nella scrittura, e nella quale si riscontrerebbe un minor grado di originalità solo se si trascurasse la radice del problema, che è insieme storico ed estetico: fuori dal verismo tout court e dalle sue code.
Anzitutto, dunque, La cena delle beffe è tentativo assai riuscito di evasione, niente affatto temporanea, dalle convenzioni del verismo melodrammatico (con tutte le ambiguità che il termine accoglie). Anche se, certo, il vocabolario veristico-musicale rimane coefficiente dominante nella scrittura di Giordano, pure grazie alla semplicità lineare delle melodie e alla chiarezza perlopiù diatonica delle strutture armoniche, è impossibile non riconoscere quanto il plot benelliano (giacché del decadentismo letterario e del teatro di poesia sopravvive l'ossatura) abbia offerto a Giordano un ampio spettro di registri di stile coi quali misurarsi e sui quali s'innesta, a livello drammaturgico, la dialettica fra verità e finzione, lucidità e follia, che alimenta l'intreccio. È così che l'autore riuscì a dare nuovo mordente a temi drammatici ormai vieti, specie per un pubblico che della Cena benelliana aveva ormai digerito ogni pietanza. Giordano evitò altresì effetti di troppo corposa immediatezza realistica e l'atto quarto mi sembra paradigmatico proprio per l'ambivalenza di un naturalismo 'virgolettato', non autentico: penso all'impiego del pianoforte nei passi che precedono la canzone del maggio e che attestano l'alto grado di formalizzazione della natura in oggetto, la quale, lungi dall'essere presentata come bruta, è solo avanzo di una pratica artistica secolare, ormai anche sulle tavole dei palcoscenici d'opera. Senza tacere dei più o meno espliciti omaggi: ben oltre Falstaff, referente diretto di tanti passi dell'opera, si pensi alla piccola parte affidata a Gabriello, personaggio fondamantale nell'economia della vicenda, e che è quasi interamente racchiuso in una frase languida e disperata che pare strappata a Narraboth, preparata com'è prima dagli archi soli e punteggiata poi dall'arpa («Ma non lo vedi come è bella così!»; Fa#-La). E ancora, stando all'atto primo e a Strauss, la fanfara delle trombe che annunciano la beffa («Bevi: bevi! Ma intanto l'altra sera») - e che per ultima si ascolta al clarinetto e al fagotto sulle terzine puntate dei violini prima del calar del sipario («È nella ragna!») - possiede profilo molto simile a quella che saluta il burlone Till Eulenspiegel. Ai concitati momenti che concludono l'atto secondo di Manon Lescaut guardano, poi, le pagine in cui Neri fa irruzione in casa di Ginevra; un ritorno alla tinta drammatica destinato però presto a stemperarsi. Ma è proprio l'atto quarto della Cena a giocare con luoghi drammatici e musicali noti al pubblico operistico: ed è l'Otello verdiano il riferimento reso chiaro tanto in «Ascolta: ascolta! Senti che rumore!» (non è il vento, ma è proprio il sopraggiungere dell'amante tradito) quanto nelle battute finali fra Giannetto e Neri: il disegno insinuante dei bassi (qui staccato, là legato) omaggia il celebre ingresso del Moro.
Ma la Cena, abbiamo scritto, è soprattutto gioco di gradazioni espressive e di registri differenti, tenuti saldi grazie alla facoltà di sintesi caratteristica di Giordano. E certa tendenza all'enfasi, all'immediatezza oratoria che sempre distingue il suo linguaggio è impiegata qui come oggetto, eco di sentimenti 'alla Di Giacomo', tinta di magnanimità romantica chiamata a creare, al pari di altri fattori, una struttura musicale di forti chiaroscuri.
Stilizzazione teatrale ben più che ricerca del vero, dunque. Torna in mente D'Annunzio e lo scarto garantito dalla lontananza e dal ricordo: decadentismo insomma che qui, dopo essere uscito dalla porta, si riaffaccia un poco alla finestra in una stanza (il teatro melodrammatico) nella quale è in atto lo svilimento di una struttura che non corrisponde più (e da molto) ad una norma morale. Stanza che non è ancora scaduta a mero supporto formale, certo, ma nella quale operano gli atteggiamenti superstiti dell'eroe melodrammatico, non più motivato da alcuna scala di valori e dall'economia delle ragioni sentimentali riflesse nella regola ottocentesca.
Caratterizzazione elevata a principio formale, insomma: è il gesto a dettar legge in un mondo di cose che si è convertito «nel mondo delle cose». Per il vero, per la ricerca del vero - o per quello che ne resta anche quando si tratta di sentimenti - Giordano si affida allo stile che più immediatamente riconosciamo come suo: emblematico il fatto che i duetti Ginevra/Giannetto e Lisabetta/Neri siano entrambi luoghi nei quali la drammaturgia è imperniata su un confronto fra verità e finzione e che, paradossalmente, al 'registro commedia' spetti il compito di tracciare le falsità più autentiche. La beffa è anche frustrazione di una ricerca di senso (e di vendetta) oltre la quale c'è l'abisso; e si dirà che la finzione della pazzia è tema schiettamente pirandelliano mentre neoclassicismo, oggettivismo, disimpegno, estetica dei ritorni erano in pieno svolgimento quando Giordano realizzava il suo ultimo lavoro teatrale: Il re. Infine, già Gaetano Cesari recensendo Madame Sans-Gêne (1914) intravedeva il fatto che si fosse giunti ad ammettere «un ironismo musicale», «almeno in uno stato di suggestività in cui la sensazione acquista valore di simbolo». E non è difficile ravvisare altrove due fra gli esiti massimi di un percorso che accomuna autori fra loro diversissimi: Intermezzo di Strauss e The Rake's Progress di Stravinskij, specie per quello che attiene al tema dell'azione espresso nella sua struttura formale.
L'orchestra di Giordano, proprio nella Cena, deve essere articolata con nerbo, conforme all'abito sinfonistico in cui, ricorda Gavazzeni, «i singoli oggetti musicali possono venire esercitati senza perdere nulla della loro sodezza e della loro individualità»: un'orchestra atta a raccordare i momenti che si inseguono in una narrazione fitta e continua, propria di un penna essenzialmente raffigurativa, illustrativa, nella quale ogni elemento del racconto melodrammatico viene portato alla luce della ribalta. Messa in musica del gesto scenico, insomma, cui si accorda l'azione dell'attore cantante; nel caso della Cena, per quello che attiene al protagonista Giannetto (ma anche per Neri), all'agire del grande cantante, incarnazione vivente di un modo di fare teatro qua e là in deroga all'armonica interpretazione psicologica del personaggio.
Grave difetto di questa produzione scaligera sta in una direzione d'orchestra insensibile e sciatta come raramente mi è capitato di vedere, tutta impostata su di un uniforme f/ff che in nulla restituisce colori ed atmosfere. Con una partitura fatta per le premure di Toscanini, la beffa feroce che dà materia all'opera si presterebbe ad offrire al direttore i vari gradi del comico, del lirico, del drammatico capaci di generare leggerezza e impeto, levità e durezze, quadri di genere, ecc. Nulla di tutto questo ieri sera, essendo stata La cena affidata ad un routinier che ha stretto il lavoro in un respiro corto ed angusto; scelta incomprensibile tenuto conto che l'opera si dava alla Scala dopo più di novant'anni di silenzio, e con grande dispendio del mezzo scenografico: il dato questo più riuscito della serata, per via di un palcoscenico nel quale la macchina ha funzionato perfettamente. Quella di De Fabritiis (1956) resta così, a tutt'oggi, l'unica incisione di valore in nostro possesso per avvicinare l'opera di Giordano.
Il Giannetto di Marco Berti è stato l'elemento migliore della serata perché ha affrontato la parte impervia grazie ad una gestione del passaggio di registro che gli ha consentito di agguantare i molti Si bemolle con una certa sicurezza (ha riparato in corsa solo quello al termine dell'atto primo), pur la voce difettando in intonazione quando costretta a legare i suoni, ma in maniera assai meno evidente che in altre prove scaligere. In difficoltà nella tenuta delle frasi del monologo dell'atto terzo, ha invece ceduto per un momento abbassando la scrittura («più tenace dei serpi di Medusa»); è curioso come certe défaillance accadano immancabilmente su versi il cui significato sembra per un momento ammiccare con ironia al pubblico. Timide restano invece le intenzioni del fraseggio di Berti, specie nel duetto col soprano: una Ginevra molto deficitaria sul piano della dizione, laddove la parte - di non grandissimo impegno - richiederebbe un'esperta dicitrice. La Lewis non ha poi risparmiato al pubblico suoni aspri e strillacchianti nell'atto quarto, durante il duetto con Neri, per il resto presa soprattutto dal compito di tratteggiare scenicamente la donna-sesso.
Mediocri le parti minori che, in realtà, offrirebbero al comprimariato - come sempre accade in Giordano - pagine di simpatica caratterizzazione: è così per Trinca, più ancora che per il Dottore. Ma, qui, specie sul piano meramente vocale, risultavano insufficienti sia la Cintia della Isotton che il cantore di Milletti. E dire che l'incipit dell'atto secondo offre un bellissimo squarcio modaleggiante, forse l'unico tributo musicale all'ambientazione rinascimentale, per il resto filtrata attraverso altre suggestioni. E dire ancora che la musica in scena stornellesca, di fattura più napoletana che toscana, è pagina deliziosa: dal momento che alla Scala convocano (o convocavano?) il tenore Shalva Mukeria per ruoli da comprimario anziché per quelli da protagonista, perché non farlo anche in questa occasione? Interrogativi destinati a rimanere inevasi.
Il baritono Alaimo, dotato di voce che salendo produce suoni perlopiù chiocci, è stato impegnato nella defizione di un Neri dagli accenti intenzionalmente comici invece che maschi e tonanti, con cadute talvolta nel caricaturale perché realizzati tramite suoni che trovano risonanza nel naso; e questo anche nello scontro con Ginevra, vero banco di prova per l'artista. È mancata, insomma, la definizione ormonale, forzuta, del personaggio, neppure restituita da un mezzo che, già rispetto al Falstaff, pare assai provato (una sorta di Maestri, ma senza la natura generosa). Non bene si ascoltava la Lisabetta della Nuccio, forse anche perché la scenografia sotto la quale si esibiva (pavimento del piano superiore dell'edificio) le impediva di far suonare la voce in sala.
Seconda reductio ad cinemam offerta da Martone alla Scala, che non rinuncia ad esibire luoghi del cinema che tutti gli spettatori hanno frequentato, questa è assai più riuscita di quella proposta anni fa con Oberto. Si tratta di una riduzione cinematografica che rivendica i propri diritti sino al finale, con una sottolineatura inedita del ruolo di Lisabetta (è opportuno ricordare che il tema col quale l'oboe accompagna gli ultimi momenti dell'opera è, però, quello che connota la vendetta lusingatrice di Giannetto). Ma li rivendica anche nell'atto terzo, nella scena del confronto: sul palcoscenico il dottore (che il libretto prescrive «vestito all'usanza comica del tempo» in omaggio al teatro dell'arte) è un medico col camice bianco, evidentemente per suggerire che a Neri siano state inferte torture chirurgiche; il viso del Chiaramentesi è infatti tumefatto e sanguinante. E se nel libretto si legge che la ferita poi provocata dal Trinca è solo una puntura sulle guance, «senza affondare», qui invece qui si assiste a vere e proprie, nuove, contusioni. La temporanea prigionia di Neri è spinta, insomma, da Martone ben oltre il limite segnato dalla beffa ai danni di un bullo; ma, al tempo stesso, il regista rende poco plausibile il fatto che Giannetto domandi al beffato di far pace, credendola eventualità anche solo accarezzabile. Pur nella cura dell'insieme - merito soprattutto delle belle scenografie e dei costumi (Palli-Patzak) - restano poco convincenti anche i movimenti di scena dei mimi che si vorrebbe ricalcassero, come al cinema, il lavoro degli attori (certe entrate irruente imbracciando con disinvoltura pistole e mitra, tanto per cominciare): la sintassi filmica non si lascia riprodurre con naturalezza sul palcoscenico, specie quando si prenda per modello il gangster movie. Ed è difficile intendere "al quadrato" l'omaggio a certe atmosfere, quasi si trattasse di citazioni da sommare ai tratti dell'opera che ho chiarito al principio.