martedì 31 gennaio 2023

La Price, Aida e il “blackface”

 
 
Ecco l’incipit di un’intervista italiana a Leontyne Price. 
Mentre per il soprano la discriminazione fu negli Stati Uniti una cosa più che seria - come lo è tutt’ora per molti - erano e sono qui da noi considerate come risibili le osservazioni riguardo Aida, blackface e altre amenità. Del resto, lo sappiamo tutti, la questione si fa avanti soltanto nel caso in cui scarseggino i contenuti musicali. 

(Mi scuso per l’evidenziatore, che non è mio ma il testo mi fu donato così. Chi mi conosce lo sa: piuttosto che evidenziare un libro me lo mangio.) 

L’intervista si legge in: Pier Maria Paoletti, Quella sera alla Scala, Rusconi, Milano 1983.

sabato 28 gennaio 2023

I vespri siciliani alla Scala

 
 
I Vespri alla Scala dopo trentaquattro anni! Si inaugurava la stagione, il palco centrale era addobbato di rosa e rosso, Milano era nella mani del PSI, la produzione non riscosse unanime successo e… no: le attese dei giorni precedenti non erano focalizzate su “come sarà la regia”. Per appagare quei desiderata si usava ancora e molto andare al cinema, in quel periodo a vedere Kieślowski. Oppure al teatro di parola, per il Faust di Strehler.
Del resto, ingrediente imprescindibile del Verdi nella «Grande Boutique» è l’apparecchiamento di una vera e propria festa del canto, pure in questo secondo grand-opéra; e oltretutto del canto verdiano più arduo e più galvanizzante che ci sia. Ad esempio - primo Alvaro a parte - non esiste pagina tenorile problematica da portare a segno quanto «È di Monforte il cenno…Giorno di pianto»: un tour de force che mette alla corda, così come fa attorno al passaggio di registro, anche i grandissimi. 
Ma tutto è complesso nei Vespri. Pure qui, come nel Trovatore, ci vogliono insomma i quattro più grandi cantanti del mondo in aggiunta a parti di contorno che sono tutt’altro che dei diversivi. Ed è pure necessaria un’orchestra dalla tavolozza variegata insieme a un direttore capace d’imprimere ovunque alla narrazione un passo che ne esalti le accensioni e faccia delibare le molte liricissime tregue. 
Io amo tanto i Vespri e ogni volta che li ascolto attendo con trepidazione lo snodo centrale del dramma: il più lacerante duetto dell’agnizione uscito dalla penna del genio (in Verdi quello più commuovente è il Boccanegra/Maria). 
Speriamo poi di non dover aspettare altri trentaquattro anni per riascoltare qui questo titolo, e magari di farlo in lingua francese.


A 150 anni dalla nascita di Colette



Oggi sono centocinquant’anni dalla nascita di Colette, per me insieme a Madame de La Fayette la più grande scrittrice di ogni tempo. Di fronte a loro, infatti, la preferenza - ma è solo un punto di vista, per carità - varca il confine di una nazione che è già par excellence quella delle penne fatate. Per stare a queste altitudini bisogna affidarsi a Saffo, E. Brontë, Dickinson e a quelle che con molta probabilità sono ancora mani femminili: le autrici delle Mille e una notte
Colette, certo. Non trovo altrove prosa altrettanto seducente, col suo passo abbreviato eppure sinuosissimo attraverso le curve di un itinerario tutto promesse concesse a tempo debito. E non riconosco altrove, poi, nei suoi repentini e prolungati affondi altrettanto anatomico lo scavo di timori, occultamenti, presunzioni. Di fronte a pochi altri autori ci si trova nell’impaccio di dover adoperare una parola fra le più povere perché abusate: intelligenza. Nelle sue opere, infatti, Colette ci ha consegnato la forma sovranamente intelligente e luminosa che assume quel sentire che a noi uomini è e sarà sempre precluso, perché è solo e soltanto femminile. 
Voglio ricordarla così col suo libro forse più aureo. Possiede in grado altrettanto struggente e dolcissimo il saper declinare della Marschallin di Strauss e von Hofmannsthal. 

«Altre volte mi vedo sospinta fuori di me stessa e costretta a concedere una generosa ospitalità a coloro che, avendomi ceduto il proprio posto sulla terra, sono stati soltanto in apparenza sommersi dalla morte. L’ondata di rabbia che sale in me e mi domina come un piacere dei sensi: ecco mio padre, con la sua bianca mano italiana tesa verso le lame, chiusa sul coltello a serramanico da cui non si separava mai. Sempre mio padre, la gelosia che in passato mi rese tanto molesta… I miei passi ricalcano docilmente le tracce dei passi, fermi per sempre, che segnavano il percorso dal giardino alla cantina, dalla cantina alla pompa, dalla pompa alla grande poltrona piena di cuscini, di libri spalancati e di giornali. Su questa strada battuta, illuminata da un raggio basso e radente, il primo raggio del giorno, spero che imparerò perché non bisogna mai rivolgere un’unica domanda al merciaio - voglio dire Vial, ma è lo stesso innamorato perfetto -, perché il vero nome dell’amore, che allontana e bandisce ogni cosa intorno a sé, è «leggerezza».