giovedì 29 ottobre 2015

Critica e musicologia

Equivocare quella di Paolo Isotta con la critica musicale tout court non è diverso che scambiare la penna di Lina Sotis con i monumenti musicologici eretti da Carl Dahlhaus. Sia chiaro: pretendere oggi di scorgere in una sola figura i tratti del critico musicale 'onniscente' appare impossibile. Bisogna stabilire, prima di tutto, di quale ambito si intende trattare: musica strumentale oppure operistica? e, anche qui, non dovrebbero mancare i sottogruppi.
Il divorzio tra musicologia e giornalismo musicale si è consumato ormai da tempo e le figure capaci di sommare i due ambiti sono scomparse: mi riferisco a Mila, Celletti, Confalonieri, D'Amico, Abbiati. Quella era critica musicale e la loro era, però, al tempo stesso, una musicologia diversa dall'attuale (ma il contributo di Celletti, direi, sembra persino immune al trascorrere del tempo). In ambito operistico, soprattutto italiano e francese, si è verificata una vera e propria frattura; forse è fatale che non venga sanata. Negli ultimi decenni, infatti, nuovi metodi d'indagine hanno consegnato chiavi di lettura più suggestive, prospettive più ampie intorno a questi repertori; più difficile, dunque, conciliare ricerca e pratica dell'ascolto, soprattutto di quello dal vivo che è il pane di quotidiani e riviste. Negli ultimi decenni, insomma, si sono esplorati in maniera differente territori come il barocco (al punto tale che qui la ricerca è corsa persino più veloce della prassi) e come l'età che da Rossini giunge agli autori della Giovane Scuola; lo stesso dicasi per il repertorio francese, russo e ceco, trattati ormai alla stregua dei classici e romantici tedeschi. Su autori e titoli che costituiscono il repertorio dei teatri un contributo musicologico di Isotta degno di memoria semplicemente non esiste. Egli, del resto, da sempre rifiuta quei metodi d'indagine che, con non celato disprezzo, definisce 'scientifici' in La virtù dell'elefante: lettura piacevole, simpaticamente inattuale, e che nessuno si dovrebbe spingere a definire 'libro di critica' poiché i giudizi che vi sono espressi sono tutti, nessuno escluso, apodittici.
Non mancano, invece, - pur nell'esiguità degli spazi concessi sui quotidiani - recensori di concerti di musica strumentale, anche contemporanea; più confortanti le riviste. Taluni sono in grado di assurgere al ruolo di critici; altri, invece, ignorano del tutto il problema. Nell'opera questo si dimostra, a mio avviso, macroscopico: si va dalla carta stampata al variegato mondo del web e, in entrambi i casi, è assai più immediato parlare di recensioni piuttosto che di critica musicale. Se, per esempio, si recensisce Una sposa per lo zar non è possibile sacrificare all'altare del teatro di regia la centralità giocata dal canto e dagli stilemi romantici che sono addirittura storicizzati da Rimskij-Korsakov nella scrittura musicale; sarebbe come far critica su Wagner occupandosi all'80% dei cantanti e relegando all'ultimo piano orchestra e direzione. Allo stesso modo, nessun critico letterario potrebbe basare la propria analisi di Proust trattando quasi solo del controcanto delle citazioni letterarie perdendo di vista i dati della biografia dell'autore. Sarebbe un errore metodologico e di sostanza tale da inficiare irrimediabilmente il risultato. Così accade anche nella critica musicale. Quando essa si rivela ben strutturata, risulta opinabile nella stessa misura in cui lo sono un saggio letterario ed uno musicologico; che si intendono, cioè, discutibili solo se giungono argomentazioni convincenti per mettere in crisi metodi e contenuti adottati.

venerdì 23 ottobre 2015

"Macbeth" di Béla Tarr

Lo cercavo da tanto tempo ed ecco che un'anima bella l'ha caricato su YouTube: è il Macbeth di Béla Tarr (1982) che lui girò quando aveva ventisette anni, con budget ridottissimo.
Sono pochi i soggetti che più di questo si adattano all'estetica rigorosa e al nichilismo radicale del regista ungherese; fin dai primi lavori, il suo cinema si dimostra di grande impatto emotivo, dotato com'è di una forte coscienza autoriale. Qui però, a differenza che nei lungometraggi più noti, il passo non è affatto lento ed è anzi capace di stringere la tragedia shakespeariana in 62 minuti organizzati in solo due piano-sequenza: il primo della durata di 5'20 e girato in esterni, l'altro - incarnazione cinematografica dello 'sleep no more' - in un unico interno. Tornano alla mente le osservazioni di Bradley (Shakesperean Tragedy, 1904) il quale sottolinea quanto l'opera generi in noi, instancabile e vivida, un'impressione continua di rapidità, non di brevità.  
Soltanto negli ultimi secondi - quelli della battaglia - Tarr ci riporta all'aria aperta. Credo che l'espressione del viso di Macduff mentre porta in corteo la testa di Macbeth mi torturerà a lungo.
La sceneggiatura è semplicemente perfetta, a cominciare dalla riduzione delle dramatis personae; e Tarr ha ritenuto imprescindibile la presenza del portiere così come la sopravvivenza delle sue battute. E la regia è fatta di diversi particolari capaci d'illuminare con nuova luce il testo: penso, ad esempio, alla simmetria tra il movimento discensionale della mdp che accompagna la protagonista durante il suo monologo e quello ascensionale di Macbeth che si avvicina alla stanza di Duncan.
Le apparizioni? Sono nell'occhio di chi guarda, cioè dello spettatore, suggerite dallo sguardo in camera di un ottimo protagonista: György Cserhalmi. 


 

sabato 17 ottobre 2015

"Falstaff" alla Scala


 



Ieri sera mi sono unito al pubblico del fuori abbonamento per la recita di Falstaff alla Scala: un appuntamento musicale che, tacendo del luogo in cui si è svolto, non è difficile immaginare concepito per un uditorio di neofiti, sorridenti alle gag del gustoso spettacolo firmato da Robert Carsen già proposto altra volta e che - con qualche mossetta di troppo - rimane di sicuro impatto teatrale.
L'ultimo capolavoro operistico di Verdi è
titolo la cui storia interpretativa risulta tra le più lineari da seguire. È sempre affascinante ritracciarla (ma questa non è la sede) ed è indispensabile conoscere a qual punto i tratti che in maniera anche antitetica sono stati messi in valore dai massimi interpreti trovino ragione nelle peculiarità musicali e letterarie dell'opera verdiana. Per fare questo bisogna cominciare dai direttori d'orchestra ai quali spetta il compito di saldare palcoscenico e buca, parola e suono, azione e narrazione, in un unico ma duttile e variegato respiro musicale, leggendo una partitura che è frutto di un lavoro di genio perché fondato su una sapientissima mescolanza di generi e registri: quelli che trovano origine nella fusione di commedia e dramma inventata dal librettista, alle prese con un eroe comico che si contempla 'dal di dentro' ed è vestito di frasi affidate (in Shakespeare) ad altri personaggi grazie ad un raffinato gioco letterario vivificato dalla spigliatissima drammaturgia del libretto, quella che invita Verdi a mutare incessantemente passo e colori. E che lo sprona ad un penetrante impiego della metateatralità, oltre che all'uso di sapide autocitazioni. 

Insomma, ogni volta che ci si trova davanti Falstaff, si è in presenza di un testo la cui straordinaria ricchezza è paragonabile a certi volumi antichi le cui glosse, redatte allo scopo di illuminare il senso dei particolari, sono linfa per il lettore. Quest'opera, insomma, - titolo rifuggito dai direttori alle prime armi - dovrebbe continuare ad essere appuntamento al quale si giunge avendo qualcosa d'interessante da aggiungere ad un discorso già lungamente tracciato; perché, se è vero che non tutte le opere del catalogo verdiano hanno ricevuto adeguata attenzione da parte degli interpreti, «i giardini del Decameron» - evocati in una lettera di Boito a Camille Bellaigue nella quale il poeta invitava il critico a godere dell'ultima opera del Maestro - sono stati curati da premurosi agronomi (anche alla Scala, dove l'opera è nata).
Non è necessario disturbare i mammasantissima del '900 ed è sufficiente il confronto con Harding per riconoscere quanto sull'opera le cui trascoloranti atmosfere mutano al passo della vorticosa azione drammatica Daniele Gatti stenda la patina di un suono uniformemente greve, di volume gonfiato e appesantito nel magma degli archi; un suono che laddove cerca il piano si fa perlopiù loffio. Nel paragone col direttore inglese che per ultimo ha affrontato Falstaff alla Scala, valgano a titolo d'esempio le prime pagine dell'atto secondo: laddove Harding stendeva un morbido tappeto sonoro, insieme tenero ed ispirato, ma palpitante al passo della maliziosa situazione drammatica (il colloquio Quickly-Falstaff), quasi non è possibile con Gatti disgiungere quello che precede (la contrizione di Bardolfo e Pistola) da ciò che segue, tanto i toni sono omologati; lo stesso avviene con gli squarci che vedono in scena Fenton e Nannetta. Non sono mancati, del resto, i problemi di concertazione, già rilevati con Don Carlo e La traviata, specie nel trattamento degli ottoni durante la lettura delle lettere (atto primo, parte seconda) e poi anche a chiusura della parte prima dell'atto terzo; meno insoliti, invece, i fuori tempo da «È un ribaldo, un furbo, un ladro». E il direttore non trova tinte avvincenti neppure nelle pagine che dovrebbero toccare maggiormente la sua corda per così dire 'nordica': mi riferisco alla musica della tregenda, tirata via senza pensarci troppo così come avvenuto per il «Quand'ero paggio».
Non ancora giunto alla boa degli anta, mi ritengo fortunato per aver assistito anche alle prove dei Falstaff concertati da Abbado e da Muti: il primo, in particolare, faceva provare i legni e gli ottoni insieme al canto (con moltissima pazienza, mentre gli archi tacevano), ricostruendo così la trama dell'ordito strumentale dalle sue fondamenta che poggiano non certo sul 'ripieno' ma sul contrappunto inteso nell'accezione più autentica: quella di simultaneità melodica. Trine e merletti, insomma, laddove ieri sera si esibiva una tela cerata.
Il cast si avvaleva del professionismo un poco anonimo di Eva Mei, di carriera non scaligera se si eccettuano fugaci apparizioni che risalgono a più di vent'anni fa. Il soprano ha fatto il suo ritorno a Milano esibendo un mezzo che si fatica ad immaginare a proprio agio in una parte poco più 'onerosa' di quella affidata a Miss Alice, specie laddove è richiesto all'interprete di legare (atto terzo, scena prima, e nel duetto con Sir John nell'atto secondo). Sugli altri cantanti è presto detto. Per primo c'è il protagonista dai modi grossier, intento ad esaltare gli aspetti deteriori del canto verista e in questo non diverso dal baritono Cavalletti (Ford). Sono gli stessi atteggiamenti che Muti sorvegliava nel baritono Pons, così come fece poi Harding con Maestri; vige qui, invece, il culto dello sbraco per sfondare il muro dell'orchestra, salendo senza polpa che non sia quella sull'addome e rimpiazzando il mezzoforte con certi cachinni che non sono censurati neppure nel lugubre monologo col quale comincia l'atto terzo, la pagina del «tristo» che impreca a denti stretti contro il mondo intero. Il baritono sarebbe stato lo stesso Falstaff, guidato da altra bacchetta? Se Pistola e Bardolfo sono parsi disinteressati a conferire un'identità interpretativa e cioè musicale a ruoli risolti nel generoso gioco scenico, non altrettanto si può dire del mezzosoprano Lemieux (Quickly) impegnata a sfuggire la parodia della parte alla quale la condannano i suoni tubati. Di rara insipienza è la vocina vetrosa della Liebau (Nannetta) che forma la coppia dei giovani innamorati con il tenore Demuro, in difficoltà a proiettare un mezzo che anche nel Sonetto suona 'indietro' non appena supera il passaggio. 

Nello spazio dell'ascolto, propongo un capitolo essenziale nella storia dell'interpretazione di Falstaff.