lunedì 12 settembre 2016

Alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia


A pochi giorni di distanza dalla conclusione della 73esima Mostra del Cinema di Venezia, ecco qualche impressione su quattro titoli apparsi al Lido.
Voyage of Time: Life's Journey s'inserisce senza frazioni nella filmografia di Terrence Malick e, al tempo stesso, guarda a un lavoro come Samsara ben più che a Koyaanisqatsi. L'afflato panteistico del regista americano si dichiara qui nuovamente grazie all'uso sapiente del voice over. Il suo contrappunto con le immagini chiama, dunque, lo spettatore ad una partecipazione emotiva alla visione: una relazione che si nutre proficuamente tanto di sottintesi quanto di affettuosi appelli alla riflessione, al raccogliere ed al far propri interrogativi di abissale grandezza. Ed è qui che la dimensione autoriale trascende di gran lunga quella documentaristica; le immagini sono in massima parte di una bellezza capace di mozzare il fiato. Si tratta, insomma, di un approccio che pare richiamare quella «ineluttabile modalità del visibile» che è «pensiero attraverso gli occhi», come dichiara l'incipit del monologo joyciano di Stephen Dedalus.
La Natura contemplata da Malick è Madre di parto ben più che di voler matrigna, certo. E nella stranezza delle proprie forme e negli interrogativi che provoca ab origine (qui il dinosauro specchia la propria immagine nel riflesso dell'acqua, laddove in The Tree Of Life scopriva in sé la pietà), lo sguardo di Malick sui misteri dell'uomo e del Creato pare indirizzato soprattutto ai cinici che abitano un mondo nel quale il senso del Tutto pare essersi smarrito. Una lettera d'amore, personale e corale al tempo stesso.
Con Jackie, Pablo Larraín sembra proseguire un discorso intorno al potere e alla finzione - o meglio, alla rappresentazione del potere - cominciato con No (2012); e anche qui l'impiego di filmati originali si integra alla perfezione col girato, essendo giustificato a monte da una sceneggiatura impeccabile.
Un film funereo come pochi altri e che invece si conclude coi colori del musical; un lavoro al quale fa da cornice l'intervista rilasciata da Jacqueline Kennedy e tutta giocata tra realtà e finzione, verità da non concedere allo sguardo del pubblico ed immagine da continuare ad alimentare anche quando l'oggetto non è più il nuovo arredo della Casa Bianca ma l'assassinio del presidente.
Intorno a questa dialettica di opposti che si compenetrano a vicenda è costruita l'ossatura del film: e tra storia e rappresentazione s'intravede pure l'ambivalenza dei sentimenti della vedova per il marito non irreprensibile. Su tutto il viso di Natalie Portman con la sua eroica fragilità.





Se, tra humor e suspense, The Journey di Nick Hamm conferma il talento degli attori inglesi in un film ben scritto e che pare assai più pensato per la dimensione televisiva rispetto a quella cinematografica, Vangelo di Pippo Delbono, invece, soffre dei difetti tipici del lavoro di un drammaturgo che trova nel mezzo cinematografico i propri limiti al posto delle proprie risorse. E dire - forse a conferma di ciò - che la sceneggiatura è scritta con la mano consumata di chi sa calibrare tempi e temi. Ed il soggetto pure è materia d'interesse. La compassione, nell'accezione cristiana del termine, che Delbono prova per i profughi che giungono sulle nostre coste è messa in problematica relazione con le sacre scritture e la Passione di Cristo: il prendere su di sé i peccati del mondo è qui compartecipazione della sofferenza dei profughi e dello smarrimento dell'attore-autore.
Ma la presenza di corpo e parole di Delbono, che filma mentre è filmato (il metateatrale "dentro e fuori" per ribadire la verità fattuale), è così soverchiante da riuscire a discapito delle immagini compromettendo il risultato.