sabato 8 dicembre 2018

"Attila" alla Scala





Per riconoscere anche in questa partitura quale sia la riflessione politica del compositore, assai più sfaccettata che non quella di un dramma patriottico tout court come La battaglia di Legnano, basterebbero la funzione determinante affidata al tema dei Druidi «profeti del mal» nel Preludio e la trasformazione del finale dell'opera, inizialmente immaginato da Solera come luogo per un inno dal sapore mistico e trionfale.
Fatale è sì, per l'Unno, «seder collo stranio»; non quanto sarà, però, il convolarci a nozze. Ma è proprio in quel passo del libretto (atto secondo, scena sesta) che sta buona parte dell'armanentario lessicale e del colore orchestrale oltremondano che troveremo, di là a breve, in Macbeth. Non è ancora il cielo da cui precipita l'ombra più sempre oscura ma quello «in cui si adunano i nembi», «di sangue tinti» e i «sinistri augelli» e l'«infausto grido» che «urlò lo spirto infido»; certo un demone altrettanto nordico.
È da preludi, sinfonie ed ouverture che Verdi costruisce la strategia drammatica instradando l'ascoltatore verso lo snodo fondamentale della vicenda: non l'amor di patria che palpita nel contesto barbarico ma la fragile precarietà del potere e di coloro che ne indossano la porpora, in attesa che su essi inesorabile piombi il destino. È una tematica che assume importanza sempre maggiore nella drammaturgia verdiana: segno di una radicalizzazione pessimistica che conduce ad una dimensione pure metafisica (itinerario da Simon Boccanegra a La forza del destino e Messa da Requiem), includendo l'insanabile dissidio che shakespearianamente oppone l'uomo ad una realtà offuscata da segni contradditori (Macbeth, Rigoletto, Un ballo in maschera, Otello).
Il rilievo conferito al materiale tematico del Preludio di Attila (do minore) nella costruzione dei significati dell'opera si avvantaggia pure di una funzione strutturante. L'atto primo comincia, infatti, con un'introduzione strumentale (sol minore) che incornicia il recitativo di Odabella e lo accompagna alla Romanza con un materiale affatto simile (femminile ed elegicamente doloroso sino a rompere in singhiozzi sul palpito espressivo delle terzine) a quello del Preludio (da batt. 16), creando così un ponte semantico tra il pianto sfrenato del dolore privato della vergine Odabella e l'avvertimento premonitore dei Druidi al loro incauto re. Anche così la protagonista femminile guadagna un rilievo tutto particolare che saldamente la associa ad Attila ponendo in relazione, per le orecchie dell'ascoltatore attento, la solitudine dello sfogo luttuoso con la penosa fragilità dell'uomo di comando. Sono richiami interni che meriterebbero approfondimento altrove.
Attila, come già detto, si legge pure guardando indietro da Macbeth ma a ben riconoscere muovendo già da Nabucodonosor (la penna è quella di Solera, sensibile all'affresco mistico-politico) e dai Due Foscari. Ho sempre riflettuto riguardo al rapidissimo finale di Attila, fatto da Verdi coi versi di Piave: cosa c’è di più ferocemente ironico - inteso come valenza ironica, cioè prospettica - del tiranno barbaro del V secolo che muore avendo sulle labbra le parole di Gaio Giulio Cesare? Anche Attila è figura tragica del potere che annienta sé stesso, come Macbeth. Ed è anche il primo personaggio verdiano a morire in una pausa musicale che lo pone in primissimo piano, con un congedo che ne mima il rantolo, teatralissimo. Per raccogliere il suo ultimo respiro il repubblicano Verdi, che aveva chiamato i propri figli coi nomi romani di Virginia e di Icilio, lascia il compito all'artefice di una vendetta anzitutto privata, paterna, e a due figure maschili tutt'altro che esaltanti nel raffronto con la statura del nemico. A loro, dunque, le ultime festose e stranianti battute che rapidamente congedano «Dio, popoli e re»; saranno altrettanto rapide e alienanti quelle che risponderanno alla cupa elezione al soglio del doge Boccanegra. Se è certo ben più commuovente la morte di Francesco Foscari, Verdi sembra dirci qui che non gli dispiacerebbe veder scendere una lacrima persino per il feroce Attila.
La riflessione ad ampio raggio politica ed esistenziale dell'uomo Verdi è stata trascurata dal convegno organizzato a metà novembre dalla Scala convocato però sotto un'insegna bellico-risorgimentale volutamente fuorviante, essendosi occupato per diversi interventi a ragionare attorno al rapporto fra produzione e ricezione come pure a ridimensionare la natura patriottica di Attila. Ma la questione, uscita per la porta, è rientrata dalla finestra grazie alla lettura giobertiana che ha proposto Rostagno, con volontà di non sottrarre affatto Attila al contesto della metà anni '40 ma anzi di collocarlo nel preciso momento di una riflessione politica. Del resto, tanto il Risorgimento quanto le aspirazioni di Verdi furono mutevoli e articolate nel tempo.
Poi, certo, quando si sale sulle tavole del palcoscenico si ritrova tutta immanenza del teatro verdiano: quello che s'identifica in personaggi usciti dalla penna di un compositore che non aggiunge mai la musica alla parola ma che di quelle parole e di quei gesti fa musica grandissima.
Qui poche parole sull'opportunità di proporre il titolo per la serata inaugurale, ricordando che se è manifesta l'intenzione di fare con Attila ponte fra Giovanna d'Arco e un prossimo Macbeth diretto da Chailly, si dovrebbero tenere in considerazione anzitutto orizzonti di amplissimo respiro per sondare un repertorio plurisecolare indispensabile alla programmazione musicale di un grande teatro. L'ultima nuova produzione di Attila risale, infatti, ad appena sette anni fa ma il maestro Chailly domandava al pubblico del convegno: «Con cosa dovrei inaugurare? Con Aida? L'ho già fatta, signori». Trascurando il lunghissimo elenco di titoli che attendono il focus del 7 dicembre, diremo solo che vedere la Scala chiusa il 13 novembre, data dell'anniversario rossiniano, e senza progetti operistici pure per quello di Boito offre, fra diversi spunti di riflessione, misura precisa della scelta del direttore musicale: quella di disegnare un percorso di senso del tutto proprio.
Tratto fra i più distintivi di Attila è la tinta, lemma verdiano. È questo un aspetto determinante di Macbeth, e già avvicinato nei Foscari dove però gli dispiaceva l'unformità, pericolo mortale, il che suggerì al compositore per la sua nona opera di dosare sapientemente, accanto agli affondi lirici della vena sentimentale, una scrittura scarna con trattamento dello strumentale richiedente spessori e contrasti di natura coloristica e dinamica, pure con ricercata brutalità. Fanno il resto una certa stringatezza di forme e un rigore di tratto che si apprezzano in tutta evidenza nei cori, nelle infiammate cabalette, nella condotta dei recitativi e che grazie a una stilizzazione nervosa e tagliente contagiano con spatola aguzza pure l'andante del concertato, cuore del solenne convito di Attila. Pagina strana, si dirà; e strano è aggettivo che Verdi userà per argomentare riguardo a Macbeth. Il tutto è convocato dal compositore, insomma, per richiamare dove serve un clima ferino e corrusco, da alto medioevo, al quale certo lo indirizzava pure la ricerca figurativa.
Nella discografia ufficiale e non (quasi tutta con direttori italiani), un posto centrale anche per l'assiduità di proposta spetta a Muti che si colloca ben oltre la posizione di compromesso fra la accensioni troppo sbrigative di Santi e la riflessività compassata di Bartoletti. Questo perché le letture di Muti, oltre alla tinta (aspetto già in misura intuito da Giulini in un'edizione che merita il riascolto), trovano pure lo spessore coturnato e tribunizio che si conviene ai personaggi e alle ragioni storiche, non quelle di un dramma borghese.

 

Dimostrandosi in tutta evidenza votato alla vena lirica, quello che prelilige la sua clarté musicale, Chailly non copre neppure una sillaba del canto e azzera qualunque rischio di condurre un'orchestra di sonorità ingombrante; ricordiamo bene, invece, la direzione fracassona di Luisotti. Ma il suo Attila non è riuscito però ad eludere un effetto di compressione enfatica che quando le sonorità sono estremamente misurate nel rapporto col palcoscenico sul quale agiscono cantanti, tenore a parte, di mezzi non corposi o tantomeno torrenziali nella grande sala, si vorrebbe, appunto, fronteggiato con volumi e passo incalzante laddove necessario, per sfuggire qualunque uniformità di tono. Ieri sera dalla buca dell'orchestra guidata da Chailly arrivavano linee melodiche estremamente smussate nei profili ma in definitiva gracili, poco vivificate da quella tensione interna che è caratteristica del periodare verdiano e che sono state tirate con eccessiva lentezza negli andanti senza riuscire ad evitare quella sensazione che chiama lo spettatore ad attendere la cabaletta, anziché quale logica conclusione della scena, come necessaria valvola di sfogo.
Attento è certo Chailly al rilievo di particolari quali la mimesi del tonfo negli archi gravi («deh! m'ascolta o m'uccidi, crudele!») perché la sensibilità dell'analizzatore è sempre vigile; e pure lo è nel duetto Ezio-Attila per rimpiazzare la vibrante solennità del momento con il sussiego cortese che accompagna in orchestra il volere dell’«imperante Cesare». Scelta comprensibile, eppure, in un contesto di resa musicale che è già tutt'altro che al calor bianco, il passo giunge tanto compresso e arrotondato da scivolar via. Soltanto nella dimensione raccolta dell'atto terzo, Chailly ha trovato il luogo veramente adatto per dispiegare un lirismo sensibile al Terzetto e alla Romanza di Foresto: «O dolore!», perché la scelta è caduta opportunamente sul brano scritto per Ivanov ed è con la cabaletta del basso il momento più bello della serata.
Se il maestro ha sostituito all'atmosfera brusca e militare della scena prima (Prologo) un effetto di cordialità generica poco incline alla rappresentazione d'ambiente, risulta davvero in accordo con la regia per la pittura dell'alba sulle lagune, interiorizzata nell'espressione (sulla scena non sorge il sole ma s'innalza lentamente un crocefisso) ed eseguita fra dinamiche che restano sorvegliate nella gradazione. È poi mancata nell'avvicinamento di Leone la grandiosità terribile (in orchestra corni, fagotti e timpani dovrebbero evocare il mugghiare del vento) forse per non compromettere l’atmosfera onirica preservata da un palcoscenico sul quale si allestisce un tableau vivant, sogno al quadrato di Attila. Allora anche il concertato che segue adotta un passo di nenia, poi animando un poco. Siamo davvero alle soglie del finale atto secondo di Macbeth e verso quel titolo c'instrada Chailly con una lettura di Attila che, se è meno orientata alle suggestioni emozionali, lo è certamente di più sul fronte dei contenuti estetici.
Prime fra le forme sbalzate del bassorilievo verdiano devono risaltare le quattro figure dei protagonisti, preparate per l'ultima volta nel clima di austera moralità soleriana. Attila è opera che fino agli anni 1980 era possibile dare senza turbamenti e poi, grazie alla disponibilità di un basso cantante di autentica sonorità quale Samuel Ramey, ripresa anche alla Scala. Oggi Attila resta alla ricerca di un protagonista memorabile perché il basso Abdrazakov, di presenza fisica ideale per la scena e di canto molto corretto e fluido, apparterrebbe per natura più al ruolo di Massimiliano (I masnadieri) che non all'ampiezza e alla autorità declamatoria richieste per esaltare appieno la parte. Se la caratura della voce non gli permette d'imporsi subito con protervia e compattezza di suono richieste all'escursione dal Lab1 al Mib3 («chi vinto muor», «colpo di fulmine»), Abdrazakov è però artista estremamente intelligente che affronta la parte senza ricorrere a forzature espressive tanto nel duetto con Ezio quanto nella sua grande scena, dove ha trovato inflessioni suggestive, accenti e dinamiche appropriate per cantare il racconto del sogno con linea morbida e gustosa cantabilità, non risparmiandosi in una cabaletta nella quale il canto di forza lo metterebbe alle strette se non possedesse Fa naturali emessi con sicurezza e prodigalità. Se nella chiusa dell'atto l'artista non s'impone all'ascolto quanto dovrebbe, risolve poi con accenti accorati le scene del convito di Attila (qui qualche forzatura per cercare l'espressione adeguata).
Già adusa a parti di grande impegno e attesa pure per un ruolo periglioso come quello di Odabella, la Hernández è apparsa davvero a proprio agio solo nell’atto terzo; quello più comodo e a lei ben più consono alla natura lirica, con un mezzo che altrove cerca ispessirsi forzatamente nella zona centro-grave nella quale non mancano suoni aperti laddove la corda è quella drammatica. Nella sortita il soprano li convoca per cercare una grossezza che non le appartiene compromettendo la fluidità dell'emissione; non sono mancati suoni schiettamente gutturali. Già da qui si è ascoltata la qualità migliore della cantante, gli acuti, sorvegliati con prudenza nel corso dell'atto secondo dove nei concertati la voce non guadagnava la sala in profondità. Verso la Romanza la indirizzano gli accenti eleganti trovati nel recitativo che precede, dove il tono elegiaco le è davvero consono. Nel brano si è giostrata fra le fiorettature tempestate di segni dinamici e d'espressione; quelle che avrebbero bisogno di grande robustezza tecnica per essere restituite con precisione. Se la voce un poco si appanna tra Mib e Sol («sospendi, o rivo»), invece, nella zona mediana la avvantaggia una buona facilità: è il duetto col tenore, che avrebbe meritato bacchetta più affettuosa.
Come già anticipato, momento felice della serata è la Romanza per Ivanov che Sartori serve con espressione di partecipata malinconia, attento alle dinamiche e qui con legato di qualità. Se il limite del tenore è solitamente una compassata espressività, però egli ha da sempre trovato in Foresto il carattere adatto ad accenti di raccolta commozione. Come altre parti del Verdi anni '40, essa insiste sul passaggio superiore della voce che Sartori risolve meglio di altri colleghi anche se non mancano suoni emessi indietro anche perché il La naturale - come si è ascoltato nella cabaletta – è Colonna d'Ercole attorno alla quale il mezzo è sollecitato a forzature. L'assenza di squillo non lo avvantaggia nei passi più accorati degli atti centrali ma nel complesso è risultato credibile laddove Foresto patisce il tradimento della vergine.
Virtù molto evidente del baritono Petean è l'intonazione. Un fatto che quasi si trascurerebbe di rilevare se non fosse oggi merce rara per i colleghi che cantano nella stessa corda. Le dimensioni della voce sono medie, sufficienti per quei ruoli verdiani che non impegnano con eccessività il baritono, specie dichiarando Petean una ventaglio di colori limitato. Per disegnare il ruolo politicamente ambiguo di Ezio non necessariamente si pretende nobilissima oratoria e generosa espansività delle frasi e sarebbe stato meglio, dunque, che la bacchetta imprimesse alla pagina una pulsione a vantaggio di Petean, buono nel gusto e vario negli accenti.
Con la più classica delle trasposizioni temporali praticate dal teatro di regia, l'allestimento di Livermore è di sicuro effetto in teatro per via del suo gigantismo, specialmente per un pubblico in altre occasioni avvezzo ad aporia di mezzi scenici; una produzione certo pensata anche per avvantaggiarsi nella trasmissione televisiva con possibilità di giocare su numerosi dettagli e profondità di campo. Lessico, dunque, che è anzitutto cinematografico perché le suggestioni della settima arte sono fonte d’ispirazione primaria del regista, nonché figurativa più immediata per un pubblico che già segue i sottotitoli come fa col cinema d’autore. Si potrebbe anche parafrasare: trovati i film, trovata la regia. Da suggestioni neorealiste si passa, quindi, al banchetto trasformato in un festino nazi-pagano nel quale a cadere al suolo percosso dal «soffio procelloso» è un idolo d’oro che ricorda i reperti dell'archeologo spielberghiano. Si va da Il portiere di notte della Cavani alla Caduta degli dei viscontiana e alla Lili Marleen di Fassbinder.
Se prevedibilmente raffaellesco è il Leone di Livermore, l’ambientazione romana offre occasione per belle riproduzioni di monumenti, statuaria antica, e si fa apprezzare sempre sotto il profilo dei costumi. Mentre gli scoppiettii di fucile scaricato a fior di pelle strappano più di un sorriso, varia è stata la conduzione delle masse in un palcoscenico sempre stimolato.
La regia dell'ultimo Attila della Scala (Lavia, 2011), nel logico avvicendarsi di contaminazioni storiche e figurative possedeva, però, qualità di contenuti teatrali più sinceri che questo. Là il convito anni '30 era apparecchiato attorno a una tavola di fronte a un emiciclo ottocentesco, mentre il tiranno moriva in una sala cinematografica diroccata; mezzi che, muovendo dal medioevo, suggerivano progressivamente la devastazione culturale provocata dalla crisi. Nello spettacolo di Livermore, invece, il cinema è impiegato come pura integrazione narrativa di un racconto squisitamente illustrativo nella sua linearità e immediatezza, ma in definitiva votato pure esso ad ammiccare all'attualità per sentito tributo all'antifascismo militante. Del resto, come si accennava al principio, il titolo si presta a ricezione sempre mutevole sotto il profilo politico.






martedì 4 dicembre 2018

"Roma" al cinema Beltrade


C’è ancora tempo per vedere Roma al cinema Beltrade (Leone d’Oro 2018). È bello davvero ed è prodotto da Netflix per la regia di Cuarón che fa film uno diverso dall’altro e con gli ultimi tre è diventato un autore che sa anche autocitarsi: un piccolo ammiccamento a Gravity. Tra l’altro: gli ultimi tre finiscono tutti nell’acqua.
Ha un titolo impegnativo perché felliniano (ma è il nome del quartiere di Città del Messico) e attraversa nei suoi campi lunghi una storia latino-americana fatta di quelle donne che reggono il peso del mondo. Ha il sapore del ricordo personale e nel realismo integrale conserva tocchi di superstizione alla Márquez. Con un bianco e nero nitidissimo porta sullo schermo molti di quei gesti che memorizziamo quando siamo bambini per poi lasciarci ad alimentarli nei ricordi che ci fanno sorridere con un po’ di nostalgia.

lunedì 3 dicembre 2018

Due annotazioni prima di "Attila"

Chiarito il fatto che l’unno Attila fosse un uomo e non una donna, come invece affermato a margine della solita divulgatio stile quotidiano nazionale (La Stampa), qui due piccole note aspettando la prima:

- È sparita da YouTube la sortita di Odabella cantata a Torino da Maria Chiara nel 1983. Ma per offrire all’ascoltatore la misura di cosa un soprano lirico, lirico-spinto, possa fare in una pagina tanto difficile - cantando cioè a gola spalancata, senza alcun ampliamento forzato del suono nella zona medio-grave, forte di una saldezza tecnica che consente di legare per bene e di variare le dinamiche - ci si può servire di quella interpretata a Verona nell'estate di due anni dopo. La Chiara, anche nell'altrettanto perigliosa romanza dell'atto primo, mantiene il controllo assoluto dell'intonazione (fate il raffronto pure con le interpreti che l'hanno preceduta) e passeggia con facilità tra i piano ed i pianissimo che la portano fino al Do5. Del resto, pure in Arena, la reazione del pubblico parla da sé.

- Sarebbe bello se il Comune di Milano ponesse una targa commemorativa al n. 17 di via Monte Napoleone che fu una delle abitazioni di Verdi a Milano. Qui stette dal dicembre 1844 (numero civico 866 della Contrada del Monte, perché il Regno d'Italia era caduto da un bel po'), strumentò Giovanna d'Arco e ideò Attila. Anche se aveva già messo via una buona fortuna, abitava una stanza semplice e da lavoro, con quattro o cinque sedie, un piano a coda e una propria statuetta; così vide l'appartamento l'editore francese Escudier che fece visita al maestro nel maggio 1845. Sopra il piano stava la caricatura francese del Chemin de la Postérité. Che fosse la caricatura che riproduceva i più rinomati cantanti del tempo? Valutando l'assiduità con la quale Verdi compulsava, fra gli altri, gli scritti della de Staël, io credo proprio che si trattasse di quella coi grandi protagonisti della letteratura e del teatro francesi. Alla testa del primo corteo c'è Hugo («Il brutto è il bello») mentre Lamartine se ne sta sulle nuvole.







lunedì 26 novembre 2018

Bernardo Bertolucci su Max Ophüls

Lo posto qui un’altra volta perché è una lezione di umanità e di estetica che tutti dovrebbero ascoltare. In appena sette minuti Bertolucci manifesta un atteggiamento che sorprende per lucidità e febbricitante entusiasmo; entrambe attitudini che a se stessi si dovrebbe sempre chiedere nel confronto con l’arte. Più ancora che l’umiltà del regista difronte all’opera di un gigante - e ben al di là dell’opinione che si può avere su questo o quel film di Bertolucci - risalta qui l’itinerario di una conoscenza (che è quindi sempre confronto) maturata attraverso il tempo; tempo cui corrisponde una maturazione di coscienza, quella che l’arte forma tanto per l’artista quanto per il fruitore. Lo stesso vale o varrebbe per la musica, per la letteratura e per l’arte in genere. Penso, invece, che oggi al linguaggio bombastico della pubblicità (il biscotto di fabbrica? Divino! Superlativo!) corrispondano nella ricezione quella fretta, quel facile entusiasmo, quella fame presenzialistica che mangerebbe un’aragosta come fosse un panino, e viceversa. Su questo aspetto ci saranno già, forse, studi di sociologia o di scienze della comunicazione, ma io non li conosco.
La lezione di Bertolucci mi fa pensare che squittire senza argomenti per ogni sciocchezzuola, ogni “tributo a”, ogni baritono stonacchiante scambiato per un prodigio, ogni scopiazzatura, ogni possessore di bacchetta frainteso come una sorta di Fritz Reiner, ogni più o meno gradevole scrittore salutato quale portatore di verità intellettuali sia - se la parola non vi pare eccessiva - un impoverimento delle coscienze.
Al grigio e prevedibile culto della cultura sarebbe bello sostituire conoscenze, argomenti ed emozioni autentiche; alla retorica da rotocalco, insomma, lo studio e l’amore per la memoria viva. 


L'albero dei frutti selvatici





«L'uomo deve farsi filtrare dal tempo». Sono spesso fitti i dialoghi dei film di Ceylan: di citazioni e di rimandi letterari più o meno riconoscibili: questa volta, insieme all'amato Dostoevskij, anche Nietzsche in mezzo ad una piccola pattuglia di scrittori turchi. Con quella frase sul tempo Idris Karasu, padre di Sinan che è protagonista di Ahlat Agaci (in italiano il pero è L'albero dei frutti selvatici), quasi congeda il figlio durante il loro ultimo incontro. Noi potremmo usarla per sintetizzare il cinema del regista turco, soprattutto quello degli suoi ultimi due lunghi film: C'era una volta in Anatolia e Il regno d'inverno
È nell'incedere lento, talvolta persino estenuato del racconto, che i personaggi di Ceylan fermentano sotto l'occhio dello spettatore al quale si domanda nel corso della proiezione di aderire passo passo al ritmo reale dell'azione. Questa volta però, l'andatura appare più nervosa del solito, anche a costo d'incorrere in qualche errore di continuità nel montaggio; ad esempio, nel colloquio che conduce verso il porto il giovane aspirante scrittore e l'autore più affermato della regione. 
Non mancano, anche in questo nuovo film, scarti narrativi che fanno virare all'onirico - tutti molto appropriati - perché i tributi a Tarkovskij sono un altro tratto distintivo del cinema di Ceylan pure nel rapporto col paesaggio. 
Non è difficile riconoscere che nell'Albero dei frutti selvatici, rispetto al rigore che costruiva i due film immediatamente precedenti, si scorge un po' di maniera laddove la sceneggiatura non aderisce perfettamente alla mise-en-scène. Ma questo non intacca del tutto la forza del racconto che è avvitato attorno un protagonista davvero assoluto, pure se confrontiamo la sua alla centralità di Aydin nel Regno d'inverno. Qui è un giovane scrittore al suo primo libro, diviso fra un futuro che non si promette luminoso e un presente che aderisce in tutto e per tutto alla Turchia di provincia di questi anni; quelli che Ceylan racconta con mano umana e implacabile. I suoi frutti, i suoi personaggi, non sono né gradevoli all'aspetto né conformi alle aspettative generali; proprio come quelli che nascono in una terra brulla dalla quale è difficile cavare l'acqua. Così è il padre e così è il figlio, che nonostante tutto però - a differenza di chi si è già arreso - continuano a scavare nel pozzo, a smuovere i massi, per trovare l'acqua che è ragione di vita.
Il corpo filmico massiccio da ragazzone rancoroso e indolente con mascella disallineata a trattenere un moto di rabbia o una parola sgarbata è quello di Dogu Demirkol (Sinan), che cattura lo schermo anche nei silenzi. Nella sezione aurea del film chi conosce il cinema del regista ritroverà un altro imam ceylaniano: qui, in provincia, protegge il proprio cinismo rassegnato come fa con la sua nuova e fiammante motocicletta.

martedì 13 novembre 2018

Per l'anniversario della morte di Gioachino Rossini




13 novembre 1868 - 13 novembre 2018

Compose musica «che fa dimenticare tutta la tristezza del mondo» e sono suoi motti epicurei attorno «questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne». Oggi l’immagine a tutto tondo ridanciana di Rossini è giustamente considerata fuorviante, essendo la vita e l’arte del compositore profondamente attraversate dalle inquietudini e dalle malinconie del proprio secolo. Per l’anniversario della sua morte si cercherebbero allora toni e parole adeguatamente curiali, solenni. Eppure, mi pare, sarebbero proprio i tratti autentici dell’arte e della vita del compositore a mettere in guardia da accenti paludati.
Il Maestro nacque nel giorno che quasi non c’è e morì in un metà novembre di centocinquanta anni fa, come per chiudere l’opera con un finale adeguato all’atmosfera morale e climatica del mese.
Nel rievocare la morte di Beethoven, quella di Verdi o di Wagner si possono ancora, e con facilità, sentir risuonare le fanfare della pubblica gloria accompagnate dalla musica più confacente. E nelle morti di Mozart, di Schubert, di Bellini, di von Weber echeggia intatto il dramma del congedo prematuro.
Non mancò certo, nel lutto, l’universale tributo al compositore del Barbiere di Siviglia e dell’Otello. Ma preferisco evocare quel giorno come fu vissuto a Passy, nell’intima afflizione di un congedo tra parenti e amici alle undici e un quarto della notte.
Le testimonianze ci dicono che Rossini poco prima di morire pronunciò il nome di sant’Anna: quello della sua amatissima madre. Sento oggi, allora, particolarmente vicino questo ascolto e voglio preservarlo da facili psicologismi ricordando, al contempo, che l’arte somma nasce sempre da un grumo di turbamenti e aspirazioni.
Restare nelle opere di Rossini, specie in quelle lunghe per davvero, vuol dire abitare forme e costruzioni di bellezza geometrica e trepidante. Vuol dire vivere di genio e di bellezza perché sempre, così, la morte - un po’ come la data del compleanno di Rossini - pare stentare a farsi avanti. 


venerdì 9 novembre 2018

Uno scià alla corte d'Europa





Estratto da Uno scià alla corte d'Europa di Kader Abdolah, Iperborea, Milano 2018:

«Debussy gli fece un inchino, prese posto al pianoforte e iniziò a suonare. Si rendeva conto che un monarca orientale tradizionale come lo scià non poteva avere una grande conoscenza della musica classica occidentale, né di sicuro la pazienza di sorbirsi un lungo pezzo al pianoforte. Così decise di eseguire qualche brano dei suoi capolavori preferiti. [...] Lo scià si domandò se dovesse dire qualcosa a proposito di Beethoven, perché lo sentiva nominare ovunque in Europa. Meglio di no, pensò, ma poi disse: "Tuttavia il nostro compositore preferito resta Beethoven. La sua celebre Nona sinfonia in re minore ci piace molto. Secondo noi rappresenta una pietra miliare nel panorama della musica sia occidentale che orientale. C'è una sorta di impeto naturale nella sua musica. Beethoven esprime la sua rabbia, la sua speranza, la sua disperazione e i suoi sogni attraverso suoni potenti, da cui si viene sopraffatti. Quando la ascoltiamo diventiamo parte della sinfonia. Quello che fa ci spinge a pensare a noi stessi."
Debussy guardò lo scià pieno di ammirazione. Non pensava che fosse così informato sulla musica classica occidentale. Non sapeva che lo scià ripeteva le parole che aveva sentito pronunciare da Bismarck una sera in cui, a Berlino, il cancelliere tedesco era andato a trovarlo.»



Se conoscete l'autore di La casa della moschea e di Il re non c'è da aggiungere altro. Si tratta di un romanzo, in forma di racconti a cornice, dal tono leggero e accattivante (non fatevi spaventare dal numero di pagine). Qui l'autore ha sposato la propria fantasia ai diari di viaggio dello scià qajaro Nasser al-Din e a testimonianze autentiche: pure quelle di una delle sue duecento mogli (lei ha molto a che vedere con la figlia di Hugo...). Il ritratto del sovrano che viaggia con un seguito da Mille e una notte nei Paesi fra Russia e Francia è insieme bonario, malinconico e spietato: un monarca che parla e legge bene il francese, veste di gemme e oro e ha già fatto uccidere il proprio ministro Amir Kabir nel giardino di Bagh e-fin. Troverà modo di liberarsi pure del di lui assassino: un barbiere che ha l'impudenza di rubare oppio e zollette di zucchero. Continui i tuffi nell'attualità a noi contemporanea che intercalano in modo proficuo gli incontri del sovrano. Si va da Tolstoj alla Parigi di Pasteur e di Nadar; dall'Olanda libertaria alla Londra della regina Vittoria che conserva una giacca speciale dono del collega persiano. È l'addio di un lontano erede del re dei re Ciro il Grande ad un mondo che già non è più.
L'ho letto poco dopo Il Grande Gioco di Hopkirk che resta fonte di avventure sorprendenti e anche contemporanee a questa.



lunedì 5 novembre 2018

"Elektra" alla Scala



Raccogliamo oggi i frutti folli dell'eccesso umano assistendo impotenti alle ribellioni della Natura. Ed è per questo che, fra le molte altre cose, abbiamo bisogno di sederci in ascolto di un'orchestra e di un direttore che ragionano - perché anzitutto ragionano - attorno ad uno dei capolavori simbolo della Modernità. E importa meno se mancano a questa Elektra pagine e canto che facciano balzare sulla sedia, magari anche ricorrendo ad effetti speciali. Qui c'è infatti la capacità di scavare laddove la pagina si fa più fitta e più difficile, dove si nascondono forme e suggestioni che aspettano di essere suscitate da mano sensibile; laddove il primo ascolto - specie se primo in assoluto - certo non arriverebbe.
La Scala ha ancora troppi posti vuoti per questo titolo: quasi un terzo del teatro tutte le sere. E allora bisogna andare a sedercisi.
Seguono qui alcune brevi riflessioni sull'opera, già proposta una volta alla Scala per la regia di Chéreau e ieri sera consegnata ad assai più stimolanti prospettive rispetto alla precedente (Salonen, 2014) per merito di un veterano del podio che è profondissimo conoscitore della scrittura straussiana: Christoph von Dohnányi. E accade così che pure l'impianto scenico rischiarato da luce mattinale, difronte al quale agisce un'umanità spogliata di attributi mitici, trovi nella lettura del maestro tedesco circostanza assai più appropriata e trattamento dell'orchestra nel segno di una mano razionale e rigorosa.
Non si domandi a von Dohnányi la messa in evidenza di quei bruschi scarti di tono narrativo che staccano le sette stazioni dell'opera. Né gli si domandi quella partecipazione affettuosa e consolante che scalda, ad esempio, il secondo confronto fra sorelle e la nenia di Elektra al fratello. Già il motivo dell'affetto familiare è, infatti, asciugato nello spessore timbrico al primo apparire (monologo della protagonista), segno di una lettura che da subito si profila orientata al bianco e nero. Ma è proprio la sorvegliatissima scelta cromatica a consentire a von Dohnányi di delineare il corpo e le chiome di Elektra (agnizione di Orest) non accarezzandole nella magnificenza del crepuscolo ma col tratto appuntito da grafica della Wiener Secession; perché quelle pagine si guardano in un'orchestra di nitore e dinamiche sorprendenti, come riflessi di uno specchio tagliente che rimanda l'architettura di legni, ottoni ed arpe in un vero Silberdunst. Espunto è il seguito, come da tradizione, e in modo qui provvidenziale perché soccorre il soprano, Ricarda Merbeth, le cui risorse non stanno certo nello spessore del centro - così come in diversi suoni chiocci e vetrosi verso l'acuto - ma piuttosto in un'organizzazione molto oculata che le consente di sostenere parte tanto gravosa, offrendo intenzioni complessivamente valide che sono apparse conformi a quelle del direttore e meglio adatte ai passi lirici; un'interpretazione, quella del soprano, che ha riscattato la sua Leonore nell'ultimo Fidelio.
Ma è soprattutto quando la presenza scenica è quella evocativa della Meier/Klytämnestra (del suo canto resta solo un bisbiglio) che Dohnányi trova luogo per una ricognizione psicologica assolutamente sottratta ad ogni influsso descrittivo, esotico. 
Qui non ci sono fulgidi bagliori espressionistici nel periodare dell'orchestra scaligera ma piuttosto un soppesare il materiale musicale che si scopre via via essere davvero, opportunamente, asfissiante. Allora i segmenti dei motivi del sangue si combinano attorno alle spire del groviglio dei serpenti ripetendosi con una fissità ipnotica che non trova soluzioni; è un'autoanalisi senza via di fuga e che neppure si concede temporaneo sfogo - come accade in altre letture - per restare, invece, invischiata nel suo stesso prodotto di sogni e di paure. Non i lampi, dunque, d'isteria psichica ma l'assillo riflessivo d'inesausti interrogativi: autentica «polifonia psicologica», come la definì il compositore. È questa una fissità wagneriana che accomuna al passo, più avanti, l'ingresso di Orest. 
L'ascoltare dirigere von Dohnányi offre così il privilegio di condividere la somma esperienza di un anziano direttore che certamente indossa come una seconda pelle questa ed altre partiture novecentesche; sono occasioni preziose che consentono di uscire da teatro arricchiti di un'esperienza musicale frutto d'encomiabile lucidità nei riguardi del testo. 
Se è davvero privo di suggestioni il canto della Hangler (Chrysothemis), di voce aspra e forzata in acuto, molto bene canta Volle (Orest). Fra il nutrito numero di comprimari si distingue anche per squillo Ein Junger Diener di Michael Laurenz. 


venerdì 26 ottobre 2018

Rossini a Londra, ma non al cinema



È perché film in costume gli inglesi ne fanno meno di un tempo. Ma se per una volta lasciassero da parte Wilde (con la Dickinson, invece, han fatto benissimo) troverebbero nel soggiorno di Rossini a Londra al tempo di Giorgio IV ricca materia per la sceneggiatura di uno di quei film giocosi e pieni di motti di spirito sulla linea di Restoration e England, my England, entrambi del '95. Forse anche questo è un segno che misura il grado d’interesse, non soltanto in Italia, per l'anniversario rossiniano se paragonato a quello del ‘92. Certo, la Renaissance era allora al culmine coi suoi répechages per grandi artisti. E 150 non è cifra tonda quanto 200; ma io per il 2068 potrei non fare a tempo. 
Un anno prima usciva Rossini! Rossini!, lavoro perfettibile di Monicelli già passato per le mani di Altman che abbandonò il progetto in favore di America oggi: era un film che dopo la pellicola di Bonnard (1942) aggiornava sullo schermo la vita del compositore abbozzandola per un pubblico di nuovi rossiniani.
Per farla breve, ecco quindi il soggetto del film che non c’è. Preceduto da fama mondiale e sotto lo sguardo acuto di George Brummel, Rossini giunge da Calais a Londra nel dicembre 1823 in compagnia della Colbran dopo un viaggio in mare che il compositore affronta come un'odissea (ma il treno gli piacerà ancor meno). Splendida casa al 90 di Regent Street con tanto di pappagallo esotico. Inviti a profusione per la coppia musicale ma prima di tutti il re: ricevimento nel fiabesco Royal Pavillon di Brighton fra draghi dorati e tulipani giganti da gotico indiano. As usual, il dandy italiano è perfettamente a proprio agio nella mondanità e intesse un capolavoro di strategia mondana e finanziaria. A mezzanotte precisa, innaffiati con champagne, punch e limonata, si mangiano sandwich. Rossini canta la canzone del salce, in falsetto, e la sortita di Figaro perché il re è un grande esteta, protettore delle arti e musicofilo. Canta lui pure, da basso (maluccio, pare), spesso colla duchessa di Kent e il futuro re del Belgio. Una caricatura dell'epoca ce lo mostra mentre implora un duetto all'italiano (
«a fat, jolly-looking person»). 
Londra è conquistata pure al King's Theatre: Zelmira, Barbiere, Ricciardo, Otello e Semiramide. Ironia, distacco e bon mot caratterizzano i dialoghi: potrebbe fornir materia pure Carolina di Brunswick, la moglie rifiutata dal re e da Rossini stesso... con la scusa dei reumatismi. Il club Watier, la musica e il gioco d'azzardo, l'ubriachezza ed il concubinaggio tanto che la Colbran sta bene in guardia mentre il consorte dà lezioni di canto al fior fiore dell'aristocrazia inglese. E poi Almack, la politica, la Grecia di Byron con la nota luttuosa dell'orgoglio britannico. E centosettantacinquemila lire messe insieme senza comporre nessuna nuova opera per il teatro. Parigi attende, ma per poco.


giovedì 11 ottobre 2018

Montserrat Caballé (1933 - 2018)

Qui gli ascolti che, a mio avviso, raccontano meglio di altri l’arte di Montserrat Caballé e che sono un poco trascurati in questa occasione luttuosa. L’arte della Caballé, certo, e in primo luogo il suono della sua voce. Perché quello era - il suono - e non genericamente “la voce” ad arrivare all’orecchio durante l’ascolto dal vivo con morbidezza e facilità straordinaria (ho fatto in tempo, anche se negli anni del declino).
La voce è mezzo che si apparenta troppo immediatamente alla fisicità (la Caballé era campionessa anche di questa). Poi, magari, la voce si apparenta pure alla fibra e là si commette errore. Bisogna, specialmente per un’artista come la Caballé, parlare allora in primo luogo di suono e di come arrivava in teatro. Suono, infatti, è parola che rimanda alla dimensione squisitamente musicale del mezzo. Qualità sonora del soprano catalano che la associa, fra quelli della sua generazione, a Pavarotti come si sente in quel postatissimo video dal vivo della Bohème del ‘76 al Met. Video e audio amatoriale, certo. Ma se è mortificante sul piano della profondità dell’ascolto (mono) - o forse proprio in virtù di questo - offre testimonianza ai nuovi spettatori di cosa siano i suoni che arrivano facili e rotondi. 
Anche la Caballé, con Callas e Sutherland, si contava tra le ammiratrici di Magda Olivero. Una volta il soprano catalano dichiarò: «È il mio mito; quando decisi di cantare “Adriana Lecouvreur” mi sforzai di accostarmi il più possibile al suo modello, ma sono rimasta solo una brutta copia». Immagino che facesse seguire a questa frase una delle sue contagiose risate.
Se dovessi scegliere una sola interpretazione della Caballé da portare sull’isola deserta ne avrei diverse a disposizione. La sua Giovanna d’Arco, forse? Oppure Fiordiligi? Luisa Miller? Sono certo che uno spazio in valigia lo pretenderei per Margherita (Mefistofele). Almeno per la romanza dell’atto terzo si troverà posto nella tasca laterale!
La Caballé è stata anche Elena, certo: nobilissima eppure languorosa. Ma è stata ancor più memorabile nel ruolo della protagonista. E se la Lecouvreur della Olivero servì da modello alla Caballé, sarebbe assai difficile escludere - una volta fatto il raffronto - che lo sia stata pure per l’opera di Boito.
La Caballé, infatti, segue e approfondisce, fedele alle natura belcantistica, la linea tracciata dalla Olivero: sfruttamento delle risorse più pure del canto per far guadagnare alla pagina una drammaticità tanto raggelata quanto dirompente.
La Olivero, dal vivo, canta la romanza col potere evocativo di un fraseggio capace di farci sentire sulla pelle pure la temperatura dell’«aura fredda». E poi il volo inquieto del passero, smarrito nel bosco per mimare un tormento che è instabilità nevrotica e che, nella scaltrita e sorvegliatissima linea di canto, pretende col crescendo emotivo un’apice (anche focus del proscenio) che è la prodigiosa messa di voce sul Si naturale nella cadenza del secondo couplet.
Se nell’esecuzione dal vivo che si trova in rete (1987) la Caballé concede davvero troppo all’effetto (io direi effettaccio) che chiama l’applauso, in studio (1974) canta con patetismo trattenuto ed orrorifico in proporzione diversa ma altrettanto efficace rispetto alla Olivero. Trova la sua Margherita il filtro rassicurante della follia; quello che chi subisce uno squilibrio mentale adotta per affrontare la realtà. Ed ecco allora il rifugio nella mimesi di un volo musicale che suona rischiarante, fluido, per
culminare due volte in trillo immacolato. Un canto che altrove, sempre con studiata accortezza, si disincanta per brevi ed inquietanti momenti («anima mia»), ricorrendo anche a colpi di glottide che restano in una linea sorvegliatissima eppure estremamente mobile, equilibrio perfetto di pathos e melanconia. 


 
 
 

martedì 9 ottobre 2018

Interludio materano


Già profondamente innamorato di questo luogo incantato che proprio al tramonto ti offre la certezza di non voler essere altrove per alcun motivo al mondo. Sarà pure che le suggestioni storiche e letterarie sono capaci di arricchire di fascino ogni suo sasso, sommandosi al profumo delle erbe selvatiche e all’accento simpaticissimo dei suoi abitanti; ma questa è davvero una città stupefacente.
Dopo la cultura, fatela capitale della cortesia perché “materano” dovrebbe essere accolto nel dizionario come sinonimo di umanità e di dolcezza.






Noi non ci bagneremo sulle spiagge 
a mietere andremo noi 
e il sole ci cuocerà come la crosta del pane. 
Abbiamo il collo duro, la faccia 
di terra abbiamo e le braccia 
di legna secca colore di mattoni. 
Abbiamo i tozzi da mangiare 
insaccati nelle maniche 
delle giubbe ad armacollo. 
Dormiamo sulle aie 
attaccati alle cavezze dei muli. 
Non sente la nostra carne 
il moscerino che solletica 
e succhia il nostro sangue. 
Ognuno ha le ossa torte 
non sogna di salire sulle donne 
che dormono fresche nelle vesti corte.

(Rocco Scotellaro, in Margherite e rosolacci, 1978) 



Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra. Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure i "mumciupì" con le rivendicazioni. È di poche parole. Quando cammina preferisce togliersi le scarpe, andare a piedi nudi. Quando lavora non parla, non canta. Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione. Abituato a contentarsi del meno possibile si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta. Gli emigranti che tornano dalla Colombia o dal Brasile, dall’Argentina o dall’Australia, dal Venezuela o dagli Stati Uniti, dopo quaranta anni di assenza, non raccontano mai nulla della vita che hanno trascorso da esuli. Rientrano nel giro della giornata paesana, nei tuguri o nelle grotte, si contentano di masticare un finocchio o una foglia di lattuga, di guardare una pignatta che bolle, di ascoltare il fuoco che farnetica. E di uscire all’aurora se hanno un lavoro o un servizio da compiere, uscire all’oscuro per tornare di notte. Non si tratta di una vocazione alla congiura o alla rapina ma di una istintiva diffidenza verso il sole. Dove c’è troppa luce il lucano si eclissa, dove c’è troppo rumore il lucano s’infratta. Non si fa in tempo a capire questo animale, a fare un passo di strada insieme, che già fugge alla svolta. Per andare dove? Gli amici che hanno qualche dimestichezza coi lucani hanno capito la strategia, li fanno cuocere nel loro brodo. C’è un tratto caratteristico dei lucani, un tratto sfuggito ai viaggiatori, da Norman Douglas a Carlo Levi, sfuggito ai benefattori, da Adriano Olivetti a Clara Luce, e forse agli stessi sociologi. Il lucano non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa. Il lucano è perseguitato dal demone della insoddisfazione. Parlate con un contadino, con un pastore, con un vignaiolo, con un artigiano. Parlategli del suo lavoro. Vi risponderà che aveva in mente un’altra cosa, una cosa diversa. La farà un’altra volta. 

(Leonardo Sinisgalli, Un disegno di Scipione e altri racconti, Mondadori, Milano 1975, pp. 165-166)


Nella chiesa rupestre di San Giuliano (Matera, Sasso Barisano) del XV secolo, inglobata nell'ex Monastero di Sant'Agostino. Affresco della Santissima Trinità (prima metà XVII secolo); Crocefissione (prima metà XVII secolo).
Nella chiesa rupestre di San Giuliano (Matera, Sasso Barisano) del XV secolo, inglobata nell'ex Monastero di Sant'Agostino. Affreschi: San Silvestro I, Papa (XVII secolo); Santa Barbara (XVII secolo).

Per le strade del Sasso Barisano

Per le strade del Sasso Barisano

Per le strade del Sasso Barisano
Per le strade del Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Nel Sasso Barisano

Sasso Barisano guardando verso la Cattedrale (Civita)
Nel Sasso Barisano

Nel Sasso Barisano

Nel Sasso Barisano

Facciata della chiesa di San Giovanni Battista (Sasso Barisano, Matera), 1233

Facciata della chiesa di San Giovanni Battista (Sasso Barisano, Matera), 1233

Particolare della facciata della chiesa di San Giovanni Battista (Sasso Barisano, Matera), 1233. Nella nicchia la statua del santo.
La chiesa di San Giovanni Battista (Sasso Barisano, Matera), 1233.

Interno di una casa grotta nel Sasso Barisano (Matera)

Interno di una casa grotta nel Sasso Barisano (Matera)

Interno di una casa grotta nel Sasso Barisano (Matera)

Interno di una casa grotta nel Sasso Barisano (Matera)

Nel Sasso Barisano (Matera)

Nel Sasso Barisano (Matera)

Nella casa grotta di "Agriristories" in via Sette Dolori, 62 (Sasso Barisano, Matera)

Il Sasso Barisano a sera


Il Sasso Barisano a sera

Il Sasso Barisano a sera

Il Sasso Barisano a sera

Il Sasso Barisano a sera

Antipasti materani "da Stano"


La facciata della chiesa di Sant'Agostino (architettura tardo-barocca) all'estremità del Sasso Barisano

Serata materana, da Sant'Agostino guardando verso Civita

Interno della chiesa di San Giovanni Battista (1233), a croce latina
 
Interno della chiesa di San Giovanni Battista (1233)

Interno della chiesa di San Giovanni Battista (1233) con decorazioni zoomorfee e vegetali

Interno della chiesa di San Giovanni Battista (1233), a croce latina
Interno della chiesa di San Giovanni Battista (1233) con decorazioni zoomorfee e vegetali

All'nterno della chiesa di San Giovanni Battista (1233), l'altare policromo con affresco della Madonna della Nova (XVI secolo)

Nell'ex ospedale di San Rocco (1610), poi adibito a carcere (1825) e oggi sede di esposizioni

Nell'ex ospedale di San Rocco (1610), poi adibito a carcere (1825) e oggi sede di esposizioni

Nell'ex ospedale di San Rocco (1610), poi adibito a carcere (1825) e oggi sede di esposizioni
Nel Sasso Barisano

Nel Sasso Barisano

Dal "Buongustaio" in piazza Vittorio Veneto

Dal "Buongustaio" in piazza Vittorio Veneto

Nella chiesa ipogea del Santo Spirito (X secolo)

Nella chiesa ipogea del Santo Spirito (X secolo) con frammento di affresco del Crocefisso

Nella chiesa ipogea del Santo Spirito (X secolo) 

Nella cisterna del Palombaro Lungo

Nella cisterna del Palombaro Lungo

Nella cisterna del Palombaro Lungo. Il segno nero indica l'altezza raggiunta dall'acqua nel 1936.

Nella cisterna del Palombaro Lungo. Il segno nero indica l'altezza raggiunta dall'acqua nel 1936.

Nella cisterna del Palombaro Lungo. Il segno nero indica l'altezza raggiunta dall'acqua nel 1936.
Nel Palombaro Lungo i fori per far calare i secchi

Nella cisterna del Palombaro Lungo 

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Balcone in via Beccherie (Sasso Barisano)

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano

Affaccio sul Sasso Barisano


Ingresso del Palazzo Santoro (XVI secolo)

Affaccio sul Sasso Barisano

Facciata del Palazzo Santoro (XVI secolo)

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), la Cappella rinascimentale dell'Annunziata, opera di Giulio Persio scolpita in blocchi di calcarenite.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), a sinistra, l'altare maggiore originario in pietra con sculture (1539), opera di Altobello Persio.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), la Cappella rinascimentale del Presepe (1534), opera di Altobello Persio e di Sannazzaro di Alessano. Nel piano inferiore, un recente ritrovamento: affreschi della preesistente basilica di Sant'Eustachio.


Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), particolare della Cappella rinascimentale dell'Annunziata, opera di Giulio Persio scolpita in blocchi di calcarenite.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), particolare dell'altare maggiore originario in pietra con sculture (1539), opera di Altobello Persio collocata nella sinistra del transetto.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), affresco bizantino risalente al 1270 della Madonna della Bruna con Bambino benedicente attribuito a Rinaldo da Taranto.

Interno della cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo) con cornici e stucchi sei-settecenteschi e le originarie colonne con capitelli romanici.
Interno della cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo) con cornici e stucchi sei-settecenteschi ("M" iniziale della città e simbolo del bue) e le originarie colonne con capitelli romanici.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), il Giudizio Finale eseguito ad affresco nel XIII secolo, opera di Rinaldo di Taranto. In basso, San Giuliano, Madonna con Bambino, San Luca; opere del XIV secolo.

Nella cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo), battistero del XIII secolo (già Cappella dei Santi Pietro e Paolo o di San carlo Borromeo). In affresco: San Giuliano, Madonna con Bambino, San Luca; opere del XIV secolo.
Esterno della cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo). Porta dei Leoni.

Facciata della cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo) in stile romanico-pugliese. Nelle nicchie la Madonna della Bruna e i Santi Pietro e Paolo.
Facciata della cattedrale della Madonna della Bruna e di Sant'Eustachio a Matera (XIII secolo) in stile romanico-pugliese. Nelle nicchie la Madonna della Bruna e i Santi Pietro e Paolo. Il rosone a sedici raggi è sorretto da quattro statue.

Vista sul sasso Barisano dalla piazza della Cattedrale

Cortile adiacente la piazza della Cattedrale
Nicchia votiva con pluviale nel Sasso Barisano, scendendo dalle Gradelle del Duomo

Opere di restauro e conservazione nel Sasso Barisano
Vista dalla chiesa di Sant'Agostino verso la Murgia e Civita
Vista dalla chiesa di Sant'Agostino verso la Murgia e Civita

La facciata tardobarocca della chiesa di Sant'Agostinocon le nicchie che accolgono le statue di Sant'Agostino e di un Vescovo Benedicente.

Nella chiesa di San Francesco d'Assisi (Matera), prima metà XVIII secolo. Alle spalle dell'altare maggiore, polittico del XVI secolo con nove dipinti a tempera su tavola.

Nella chiesa di San Francesco d'Assisi (Matera), prima metà XVIII secolo, la Cappella di Sant'Antonio da Padova con statua lignea. 

Panorama del Sasso Barisano

Chiesa della Madonna del Carmine (Matera): portale ligneo all'ingresso dell'edificio.

Interno della chiesa del Purgatorio (1727-1747).
Portale della chiesa del Purgatorio (1727-1747) con figure che simboleggiano la morte e la redenzione dei peccati.

La facciata del Palazzo del Sedile nella piazza omonima è oggi sede del Conservatorio. L'edificio risale al 1540 con modifiche settecentesche. Le statue nelle nicchie rappresentano le Virtù cardinali.

Dal sasso Caveoso, affaccio sulla piazza antistante la chiesa dei santi Pietro e Paolo (San Pietro Caveoso)

Dal sasso Caveoso, affaccio con vista sulla chiesa della Madonna de Idris

Fossili sul muro destro che sta nella via Duomo e porta alla Cattedrale

L'antico cimitero antistante la cripta di San'Andrea nel Sasso Caveoso

Tomba nell'antico cimitero antistante la cripta di San'Andrea nel Sasso Caveoso

Ossa di bue sostengono una grondaia nel Sasso Caveoso.

Nella cripta cenobitica di Sant'Andrea (XII-XIII secolo)

Nella cripta cenobitica di Sant'Andrea (XII-XIII secolo), il primo ambiente è quello che continene i palmenti

Nella cripta cenobitica di Sant'Andrea (XII-XIII secolo) con Cristo Benedicente nel catino absidale
Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)
Nella Casa Grotta del Casalnuovo (Sasso Caveoso)

Si fa sera nel Sasso Caveoso
Facciata della chiesa di San Francesco d'Assisi (Matera) ricostruita nel 1751

Notturno sul Sasso Barisano

Notturno sul Sasso Barisano
Notturno sul Sasso Barisano
La facciata della Chiesa di San Giovanni Battista (Matera) illuminata per la sera (XIII secolo)


Vista dal fianco della chiesa di Sant'Agostino


Vista dal difronte della chiesa di Sant'Agostino


Pane di Matera esposto fuori da una bottega nella piazza San Francesco
Facciata della chiesa di San Francesco d'Assisi (Matera), ricostruita nel 1751


Facciata della chiesa di San Francesco d'Assisi (Matera), ricostruita nel 1751

Particolare della facciata della chiesa del Purgatorio (1727-1747) con figure che simboleggiano la morte e la redenzione dei peccati.
Particolare della facciata della chiesa del Purgatorio (1727-1747) con figure che simboleggiano la morte e la redenzione dei peccati.
Vista su Civita e Barisano dal Sasso Caveoso

Nella chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera). Lo scavo risale al IX secolo e gli affreschi si datano fra l'XI e il XVII.
Nella chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera). Lo scavo risale al IX secolo e gli affreschi si datano fra l'XI e il XVII. In ques'immagine, San Vito Martire (XIV secolo) e Santa Lucia (1610)
Nella chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera). Lo scavo risale al IX secolo e gli affreschi si datano fra l'XI e il XVII. Navata destra: Madonna con Bambino e Santo Vescovo. Sul fondo a sinistra s'intravede la Madonna che allatta ("Galaktotrophousa") e San Gregorio risalenti ala seconda metà del XIII secolo, opere attribuite a Rinaldo da Taranto.

Nella chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera). Lo scavo risale al IX secolo e gli affreschi si datano fra l'XI e il XVII. Qui, San Giovanni Battista e San Benedetto da Norcia che risalgono al XIV secolo.

Nella navata di sinistra della chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera), gli affreschi della Madonna che allatta ("Galaktotrophousa") e di San Gregorio risalenti ala seconda metà del XIII secolo, opere attribuite a Rinaldo da Taranto. In primo piano, "Focagna" (ex iconostasi di Sant'Agata).

Nella chiesa rupestre di Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso, Matera) un primo piano dell'affresco di San Vito Martire (XIV secolo) e di Santa Lucia (1610)
Nei pressi di Santa Maria de Idris, guardando le chiese rupestri della Murgia

Terrazzo con vista sul Sasso Caveoso e sulla chiesa della Madonna de Idris (Matera)
Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Affresco del Cristo Pantocratore (XI-XII secolo).

Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Affresco del Cristo Pantocratore (XI-XII secolo) nel secondo ambiente della chiesa.
Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Affresco di San Nicola Vescovo (XIII secolo).

Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Affresco di San Girolamo (XIII secolo), Giovane Santo (XIII secolo) e Sant'Andrea Apostolo (XI-XII secolo).
Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. San Giacomo maggiore Apostolo (XIII secolo) e San Pietro Apostolo (XIII secolo).
Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Affresco del Santo Monaco (XIII secolo) posto nel terzo e ultimo ambiente della chiesa.

Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Particolare dell'affresco del Santo Monaco (XIII secolo) posto nel terzo e ultimo ambiente della chiesa.
Nella chiesa di Santa Maria di Idris, XI-XII secolo. Frammenti scultorei e di affresco.
Affaccio sulle chiese rupestri della Murgia


Affaccio sul Sasso Caveoso

Affaccio sul Sasso Caveoso

Lungo una strada del Sasso Caveoso


Museo Ridola (Matera). Ceramica graffiata e dipinta (Neolitico antico) da villaggi trincerati
Museo Ridola (Matera). Frammenti di anse con applicazioni zoomorfe sulle anse a nastro (Neolitico antico) da villaggio di Serra d'Alto.

Museo Ridola (Matera). Stilizzazione del volto umano (Neolitico Antico). Murgia Timone.
Museo Ridola (Matera)

Museo Ridola (Matera)."Olla", vaso per contenere liquidi e derrate, rinvenuto a Montescaglioso (tomba 28). Fine VII secolo a.C.
Museo Ridola (Matera). Ceramica apula a figure rosse, seconda metà del IV secolo a. C. Cratere a mascheroni per mescolare il vino con l'acqua (cerchia del pittore di Copenaghen 4223). Nel lato A, all'interno di un'edicola funeraria ("naiskos") un giovane reca gli elementi che lo identificano come guerriero: corazza, spada e lancia; ai lati, un giovane e una fanciulla porgono offerte.
Museo Ridola (Matera). Ceramica apula a figure rosse, seconda metà del IV secolo a. C., rinvenuta a Timmari (tomba 33). Fra gli oggetti, vaso per la cerimonia nuziale ("loutrophoros"), vasi cerimoniali per bere ("rhytoi") con forme di cerbiatto, vitello e cane, vaso sacrale ("situla").

Nei pressi di contrada Pietrapenta, lungo il torrente Gravina (Matera) sul quale affaccia la Cripta del Peccato Originale.
Nella Cripta del Peccato Originale. Affreschi datati fra l'VIII e il IX secolo), opera del Pittore dei fiori di Matera. Parete di fondo: la Creazione e il Peccato Originale.
Nella Cripta del Peccato Originale. Affreschi datati fra l'VIII e il IX secolo), opera del Pittore dei fiori di Matera. Prima nicchia della parete sinistra: la Triarchia degli Apostoli.

Nella Cripta del Peccato Originale. Affreschi datati fra l'VIII e il IX secolo), opera del Pittore dei fiori di Matera. Parete di fondo: particolare della Creazione e del Peccato Originale. Eva porge ad Adamo un fico.

Nella Cripta del Peccato Originale. Affreschi datati fra l'VIII e il IX secolo), opera del Pittore dei fiori di Matera. Particolare della Triarchia degli Apostoli.
Nella Cripta del Peccato Originale. Affreschi datati fra l'VIII e il IX secolo), opera del Pittore dei fiori di Matera. Seconda nicchia della parete sinistra: la Triarchia della Vergine.
Fra gli ulivi in contrada Pietrapenta, lungo il torrente Gravina (Matera) sul quale affaccia la Cripta del Peccato Originale.
Peperoni di Senise e Chiaromonte ("cruschi") in vendita a Matera
Facciata di San Pietro Barisano (1755). La chiesa, scavata nel tufo, risale all'anno 1000.



Affreschi nella basilica di San Pietro Barisano. Madonna con Bambino (XVI secolo) e San Donato Vescovo (XVI secolo)
Chiesa di San Pietro Barisano. Da sinistra, San Canio vescovo (XVI secolo), Annunciazione (XVI secolo), Santa Caterina d'Alessandria (XVI secolo)

Chiesa di San Pietro Barisano. Cripta con sepolture "a scolare".

Chiesa di San Pietro Barisano. Cripta con sepolture "a scolare".

Chiesa di San Pietro Barisano. Cripta con sepolture "a scolare".

Chiesa di San Pietro Barisano. Cripta con sepolture "a scolare".

Navata centrale della chiesa di San Pietro Barisano.

Il nome della via che sta dietro al Duomo ricorda l'assassinio del conte Giovan Carlo Tramontano ad opera dei materani ribelli nel 1514 al suo dominio e a quello di Ferdinando I d'Aragona. Il conte fu assassinato all'uscita della cattedrale il 29 dicembre. Da questo fatto origina pure il motto della città: Bos Lassus Firmius Figit Pedem (Il bue stanco affonda il passo più fermamente).

Nella Casa Ortega: Compagno morto

Nella Casa Ortega: da sinsitra, Libertà e La casa rossa, opere di José Ortega (1921-1990)

In Casa Ortega, soffitto con maioliche nella camera da letto.

All'ingresso di Casa Ortega: parte del carro della Bruna in cartapesta. Dipinta la figura di Sant'Eustachio.

All'ingresso di Casa Ortega: parte del carro della Bruna in cartapesta.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Menardo Rosso, Il birichino (1883)

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Carlo Guarienti, Doppio ritratto (2004). Ipogeo numero 2.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 2.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 3.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 3.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 5.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 5.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Ipogeo numero 6.

MUSMA (Museo della Scultura Contemporanea), Matera. Carlo Bernardini, Codice spaziale (2010). Ipogeo numero 6.

Navata destra nella chiesa di San Pietro Caveoso (Matera), XIII-XIV secolo. Affresco.

Soffitto settecentesco ligneo della chiesa di San Pietro Caveoso (Matera), costruita fra XIII-XIV secolo.
Navata centrale e soffitto settecentesco ligneo della chiesa di San Pietro Caveoso (Matera), costruita fra XIII-XIV secolo.

Soffitto settecentesco ligneo della chiesa di San Pietro Caveoso (Matera), costruita fra XIII-XIV secolo. Si raffigura Cristo che affida la Chiesa a San Pietro, La Madonna che consegna le chiavi a San Pietro, la Conversione di San Paolo e l'Incoronazione della Vergine.
Nella chiesa di San Pietro Caveoso (Matera), costruita fra XIII-XIV secolo, l'antico fonte battesimale della Cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù. Scolpiti raffiguranti, fra l'latro, l'Agnello pasquale.  

Vista su San Pietro Caveoso e sulla chiesa di Santa Maria de Idris

Una strada a Civita (Matera)

Cortile di Palazzo Viceconte (già Venusio), XVI-XVII secolo

Affaccio sulla Murgia

Vista sul Sasso Caveoso

Strozzapreti con peperoni cruschi, cacioricotta, pomodorini e mollica di pane fritta

Facciata della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, capolavoro del romanico pugliese.

Interno della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, capolavoro del romanico pugliese, con le solenni arcate che scandiscono la navata centrale.

Interno della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, capolavoro del romanico pugliese. Il matroneo soprastante la navata sinistra della basilica.

Nella basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari. Il transetto con le arcate cieche e le bifore soprastanti.

Il ciborio duecentesco della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, capolavoro del XII secolo.

La controfacciata della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari.

Nella navata centrale della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, guardando l'ingresso. Il soffitto è intagliato e dorato con dipinti del XVII secolo.

Guardando l'abside della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, dalla sinistra del transetto.

Nella cripta della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, con le ventisei colonne abbellite da capitelli romanici.

L'altare maggiore della cripta della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari, in cui riposano le reliquie del santo.

Scorcio della facciata della basilica di San Nicola (XI secolo) a Bari.

Esterno della cattedrale di San Sabino a Bari (XII-XIII secolo): fianco sinistro con la "trulla" (l'antico battistero) e il campanile (alto 68, 90 metri)
Facciata della cattedrale di San Sabino a Bari (XII-XIII secolo)

Abside della cattedrale di San Sabino a Bari (XII-XIII secolo) con il ciborio ricomposto grazie ai resti dell'originale duecentesco.
Facciata della cattedrale di San Sabino a Bari (XII-XIII secolo)

Mura del castello normanno-svevo di Bari (XIII secolo)

Mura del castello normanno-svevo di Bari (XIII secolo)

Mura del castello normanno-svevo di Bari (XIII secolo)
Palma da dattero sotto le mura del castello normanno-svevo di Bari (XIII secolo)
Esterno del Teatro Margherita a Bari (1914)