lunedì 8 dicembre 2014

"Fidelio" alla Scala

Affascinante è constatare, ancora una volta, quanto un capolavoro come Fidelio vibri in maniere così differenti, interessanti, se consegnato nelle mani di grandi direttori d'orchestra capaci di specchiare soprattutto qui la propria sensibilità, formazione. Ecco un fatto, però: le tappe che hanno marcato la fortuna del titolo beethoveniano alla Scala sono solamente quelle della scuola storica (Toscanini, Karajan, Böhm) e quelle che alla stessa tradizione esecutiva si sono richiamate (Bernstein, Maazel). Questo filo, come si è dimostrato ieri sera, è teso ancora oggi. 
È vero che Muti, già interprete di Lodoïska, riconduceva l'unico lavoro operistico di colui che ritenne Cherubini il maggior compositore di musica drammatica del proprio tempo nell'alveo più rassicurante dell'opéra à sauvetage; ma il suo Fidelio - non solo per via della conservazione di Leonore n. 3 a sipario chiuso prima dell'ultimo quadro - restava intrinsecamente allacciato a quella corrente che sempre apparentò il Beethoven operistico al Musikdrama, facendone anzi, in diverse misure, il suo prototipo. 
Al posto dell'Ouverture di Fidelio, Barenboim propone la Leonore n. 2; ho l'abitudine di non inseguire pubblicità, indiscrezioni e, quindi, alla prova generale, la sorpresa è stata grande. Per dialettica delle opposizioni e sostanza morale, questa pagina è - quasi quanto la più celebre sorella - sintesi talmente pregnante della vicenda da imporsi, se posta al principio, quale nucleo generativo dell'opera che di essa appare, così, naturale estrinsecazione; nel brano sinfonico, infatti, il dramma sorge a partire «dal suo nocciolo ingigantito». Sono parole di Wagner.  
Prediletto dal compositore del Ring era, oltre alla Leonore n. 3, anche il finale dell'opera ed il giudizio intorno a Fidelio, al ruolo del suo creatore - divenuto ambasciatore inconsapevole del dramma dell'avvenire - è particolarmente interessante, altrove esaminato tenendo saldo il contesto storico-estetico in cui l'opera beethoveniana vide la luce. Qui preme solo ricordare quanto la critica wagneriana all'opera - vincolata ad uno dei tanti teoremi del compositore-teorico (l'impianto di Fidelio è troppo spesso disperso nelle "piccole aggiunte" che nascondono il nucleo drammatico) - partisse non dal Singspiel ma dallo spirito della sinfonia di cui Beethoven rappresenta la quintessenza. Con le orecchie di Wagner, dovremmo intendere, dunque, anche la Leonore n. 2 come più drammatica del dramma di cui funge da introduzione; Barenboim ha raccolto la sfida di servirsene per generarlo.
Le interpretazioni più riuscite di questo direttore (in modo particolare quelle wagneriane) possiedono, oltre a contorni dalle linee smussate, liricizzate, il fatto che sommano nitidezza dell'ordito strumentale a duttilità, quella che rende l'orchestra mobile nel far fluttuare lo sviluppo armonico su quello melodico; e, al tempo stesso, capace di flettersi ora tesa e incalzante, ora pensosa e trasognata lungo i momenti della narrazione, calibrandoli su colori e agogiche differenti. C'è sempre un indefinibile distacco emozionale in Barenboim che serve - quando si esprime al meglio - per governare la forma anche nel rapporto col palcoscenico. È in essa che il direttore lascia deflagrare, in questo Fidelio, la ricchezza d'invenzioni e di sviluppi musicali della partitura, sollecitati con dovizia; e il risultato è completamente diverso, ad esempio, da quello che provocava l'analitico Abbado, chiamatosi volontariamente fuori dal tracciato della scuola storicaQuella di Barenboim, sensibile alle proporzioni e ai rapporti di forza tra i numeri, è una concertazione che non lascia tregua, ora indugiando sui rilievi cameristici (bellissimo è soprattutto l'Andante con moto del duetto Rocco-Leonore), ora lavorando il grande affresco dell'Ouverture e il Finale atto primo. 
Governo della forma: mi ha colpito, fra le altre cose, il modo in cui, nel duetto Rocco-Pizarro, Barenboim ha riassorbito nell'ordito strumentale e nella logica del pezzo un gesto cui spesso si conferisce rilievo addirittura plateale: il ff di legni e ottoni («ein Stoss und er verstumt!» - «un colpo, ed è spacciato!»). 
Quanto alle deflagrazioni del materiale musicale, un passo merita di essere approfondito: è l'Introduzione all'atto secondo, che per fraseggio amplissimo e uso del legato suona come riproposizione letterale dell'interpretazione che Barenboim ha consegnato nella scorsa stagione dirigendo il Vorspiel della Götterdämmerung. E, del resto, a questo passo, Wagner guardò componendo la propria pagina, che principia con quello stesso spaventoso accordo di Mi bemolle minore (omise solamente i flauti e sostituì i fagotti con la tromba bassa). Barenboim pare così consegnare Florestan alla dimensione che si addice a colui che è preda di una condizione tragica, esistenziale, ben più che della ferocia di un singolo uomo. Bisogna ascoltare bene, in questa introduzione all'atto, gli affondi dei contrabbassi e quanto sono sgranate le biscrome, p e crescendo su arcate lunghe che si attorcigliano come spire e sono legate tra loro come i fili che, nel Ring, compongono la fune d'oro. Stupendo davvero; è raro che due pagine sappiamo dialogare tanto intensamente tra loro grazie alla bacchetta di un direttore. 
Manca forse un senso di teatralità rettilinea in questo Fidelio, quella che rende giustizia all'orizzonte finalistico della trama? O, forse, una messa a fuoco dei numeri di musica dialogata, quelli à la Mozart? Io non credo davvero. Ma è certo che i tratti salienti della lettura di Barenboim si apprezzano soprattutto laddove il tempo drammatico è congelato e, più in generale, dove si manifesta con chiarezza quella caratteristica di marca francese (vedi il Finale atto primo) che si andava definendo pure attraverso il capolavoro di Beethoven e che si può sintetizzare come 'tendenza al tableau'; è stato bellissimo, in questo 2014, ascoltare alla Scala anche il Berlioz di Pappano, ultima tappa di quel percorso. Su un altro versante, non quello delle masse, la produzione si trovava scoperta. 


Si capisce che la Erdmann (Marzelline) è cantante di scarsa esperienza e la voce è quella di una comprimaria cui è affidato un ruolo da seconda donna; qui ha difficoltà a proiettare il proprio mezzo già sul Sol («wie glücklich will ich werden») per sbiancarlo, poi, negli ensemble. È una cantante la cui presenza pare calibrata su quella del Tamino da secondo cast: Klaus Florian Vogt, dall'accento bambinesco e dal fraseggio sostanzialmente inerte. È impressionate il contrasto tra l'introduzione strumentale levigata da Barenboim e il sopraggiungere della voce di colui che dovrebbe essere l'oppositore del feroce Don Pizarro. Insieme a quelle di Hoffmann (Jaquino) e di Mattei (Don Fernando), è buona la prova di Youn (Rocco), corretto e lontano da certi tratti caricaturali che poco si addicono al personaggio. Il mezzo di Struckmann (Don Pizarro), invece, appare usurato ben più che nella Frau ohne Schatten di due anni fa; il ricorso al parlato e i suoni scoperti sono frequentissimi e poco si riconoscono i segni dell'artista che in passato ha offerto, proprio alla Scala, un Jochanaan di assoluto rilievo. Resta insufficiente la prova della protagonista, Anja Kampe, tanto per peso specifico quanto per difficoltà evidenti nel salire (sarebbe il meno) e nel legare, soprattutto il cantabile della grande scena dove, fatte salve le intenzioni, la voce rimane indietro, neppure compensata - qui e altrove - da un accento capace di essere qualcosa più che genericamente accorato. Non mancherà certo, ancora in questa occasione, chi ripeterà l'imbecillità che la colpa sia di Beethoven; e noi non finiremo di ricordare che questa musica è destinata a grandi cantanti. È in Komm, Hoffnung una Leonore supplice, che canta in ginocchio e a mani giunte; vengono in mente le parole di Romain Rolland ed il celebre episodio beethoveniano del "Uomo, aiutati da solo!", ma forse la regista non ne è a conoscenza. Nel ruolo dei consorti avrei visto meglio la Herlitzius e Botha.
Se trascuriamo la minzione di prammatica, qui al levar del sipario, non sono certo i cascami del Regietheater a costituire il tratto peculiare dell'allestimento della Warner; piuttosto, un calligrafismo tanto ingenuo quanto innocuo, refrattario a provocare le risorse del testo per misurarsi, invece, attorno ad un naturalismo didascalico e ben confezionato. Proponendo l'ambientazione contemporanea, sarebbe stato stimolante rapportare all'oggi la lotta tra idealismo e dogmatismo, facendo tesoro di una visione (anche beethoveniana) della Storia, intesa come serie indeducibile degli atti della libertà soggettiva (e dell'intera umanità) oggettivata in forme sempre più razionali, coerenti con la ragione umana. Resta qui, invece, un aggiornamento dei tratti più tipici del teatro borghese e della commedia di quel genere, poco amalgamati con il resto (Leonore che spazza il pavimento mentre Rocco canta la sua aria); elementi cui la regista non rinuncia neppure nel finale dell'opera con la coppia Marzeline-Jaquino in risalto sul proscenio, stemperando così, uteriormente, una già annacquata celebrazione laburista armata di elmetti da operaio e drappi rosso porpora. Spettacolo che è, dunque, in nulla disturbante e sostanzialmente privo di gesti da ricordare. In ciò si contano, ad esempio, le differenze con quello del duo Herzog-Frigerio, ultimo in ordine cronologico alla Scala: era allestimento più d'intuizione che di luoghi, nel quale i prigionieri, da porte piccole e basse, strisciavano come larve per cercare la luce al centro del pozzo; e l'uscita di scena di Don Pizarro, con cappello a due punte, scortato dai gendarmi mentre teneva una mano con l'altra dietro la schiena, era il fantasma di Napoleone Bonaparte. 


 

giovedì 4 dicembre 2014

Adieu au langage

Immagini, parole e musica cui viene pervicacemente impedito da Godard di costituirsi in forma linguistica organica e, di per ciò stessa, pertinente il linguaggio cinematografico tout court, la sua ideologia ed un'estetica che non sia una non-estetica. L'estetica di Adieu au langage, infatti, sta proprio nel negarsi a se stessa, nel deflagrare sotto lo sguardo dello spettatore reso attivo per costruire attraverso le pieghe della non-estetica un individuale percorso di senso; già imploso è l'orizzonte di senso rettilineo del farsi trama, a patto di non ricadere nel già visto, nella ripetizione, nel dotazione di sensi uniformanti e tiranni, di indirizzi estetici definiti in forme claustrofobiche (la tv ed il cinema omologati al pari delle loro sorgenti, come ci mostra Godard). Siamo qui, invece, nella dimensione dell'oltre-segno, in quella di un'avvenuta soppressione della capacità relazionale espressa tramite il linguaggio. Un giorno avremo bisogno d'interpreti per capire noi stessi, ci intima Godard; quel giorno è già qui.
I settanta minuti del primo lavoro 3D del padre della Nouvelle Vague (la linea è quella tracciata a partire da Histoire(s) du cinéma) sono, insieme, una promessa e un atto di rivolta: avvitamento, rovesciamento e rigurgito di ogni sovrastruttura, di ogni coscienza estetica. Cinema che si nutre del suo stesso svuotamento, cinema-saggio aperto; insieme, opera poetica e saggio di semiotica.
Gli interrogativi godardiani sono animati da riflessioni che erano, nel 2002, anche quelle di Jean Baudrillard in merito alla morte dell'arte (di hegeliana memoria) e dell'arte moderna come storia di una scomparsa: «il processo è arrivato al di là del suo termine e siamo anche al di là della fine. [...] ma il vero problema del passaggio oltre l'estetica è questo: che cosa c'è al di là dell'estetica? C'è ancora altra illusione che l'estetica?». Tra il cristallo ed il fumo, insomma. E ancora: «Se qualcosa vuol diventare immagine non è per durare, è per sparire meglio. [...] L'intensità dell'immagine è commisurata alla sua negazione del reale, all'invenzione di un'altra scena. [...] È al prezzo di questa disincarnazione che l'immagine acquista questo potere di fascinazione, che diventa medium dell'oggettività pura, che diventa trasparente a una forma di seduzione più sottile». 



Il cane di Adieu au langage è incarnazione del conflitto tra coscienza naturale (quindi, a-verbale) e narrazione, una contesa che oppone autenticità e falsificazione. Nella complessa partitura organizzata da Godard, infatti, solo al cane si addice la parola tendresse, la stessa con la quale la mdp lo insegue con un rispetto addirittura traboccante, che consente di cogliere l'animale nella sua sacra identità (in un film tanto iconoclasta!) proprio mentre l'immagine fugge a se stessa; un fatto filmico che, secondo me, non ha eguali sino ad oggi e che trascende l'omaggio a Jack London (uno dei moltissimi autori citati nel film) per trovare ragione, certamente, anche nella dimensione personale, umana di Godard. Forse proprio qui si dimostra che pure il grado zero del linguaggio è, comunque, linguaggio: forma e contenuto, insomma, persistono dopo la loro deliberata distruzione.
La coppia uomo-donna, poi, non è tale perché ciò significherebbe dotarla, e quindi dotarsi - sebbene in abbozzo - di un senso narrativo, di un plot; è, invece, incarnazione di maschile e femminile, nella dialettica ermeneutica di soggetto/oggetto, portata dalla dimensione ancorata ai frammenti di libri e parole a quella della nudità che cancella i visi, in un tracciato ellittico: dalla Metafora alla Natura. 
L'esperienza sensoriale del 3D del Godard ricercatore, eternamente moderno, è soprattutto un'aggressione alla visione: immagini sovraesposte, distorte, saturate, percezioni dissociate che si scontrano e annullano con musica e dialoghi capaci di sottomettere l'immagine correndo su piste diverse. Partitura impossibile da cogliere con una sola visione; forse è questa la più sincera rivalsa del linguaggio nel corpo a corpo che sulla tela del cinema ha ingaggiato Godard.
Ah Dieux, oh langage!