giovedì 14 giugno 2018

"Fierrabras" alla Scala


Il ritorno di Daniel Harding alla Scala offre l'opportunità di riascoltare alla guida dell'orchestra un artista capace di sommare alla maestria del concertatore le suggestioni dell'interprete le cui letture consegnano al pubblico un approccio al testo stimolante, personalissimo, quando non addirittura inedito. Da oggi, allora, un itinerario prezioso pare possibile tracciare aggiungendo al suo Fierrabras un altro titolo del romanticismo tedesco affidato nell'autunno passato a Myung-whun Chung (Der Freischütz) che, sempre a Milano, si appresta col capolavoro beethoveniano a chiudere questa sorta di trittico inaugurato proprio con un'interpretazione del titolo di von Weber assolutamente degna di nota.
Davvero un peccato, dunque, che il maestro britannico sia assente dal cartellone operistico della stagione ventura. Si tratta, a tutti gli effetti, di un veto che già negli ultimi anni ha diradato la presenza di Harding alla Scala per avvantaggiare adesso direttori quali Fisher, Welser-Möst e Mariotti che offrono assai meno lungimiranti prospettive. Nella sostanza si tratta allora di un'altra interruzione rispetto alla continuata e proficua collaborazione che dal 2005 Harding intratteneva coi complessi del teatro, al quale ha offerto belle prove d'intelligenza e di coraggio.
Questo Fierrabras al debutto scaligero offre sin dall'Ouverture un carattere per molti versi inatteso, sorprendente, che si riconosce anzitutto in un assai accentuato spessore del suono orchestrale, specie se posto in raffronto a quello richiesto da Harding per il repertorio tardo-romantico e moderno (alla Scala: Strauss, Bartòk, Dallapiccola, Verdi, Mascagni, Leoncavallo); quasi la scrittura del titolo schubertiano pretendesse colore drammatico capace di collocarla in un orizzonte temporale che immaginiamo si debba porre fra Rienzi, Der fliegende Holländer e Genoveva a tal punto si preludia qui con tratti compiutamente romantici scaldati da indomita urgenza sentimentale. Accade, poi, che Marcia e Coro di Uomini e Cavalieri al seguito di Carlo Magno (atto primo, scena terza; N. 3) non addomestichi i clangori degli ottoni ma invece li solletichi per convinta adesione al colore ambientale della scena. Pagina questa, fra le molte, che è utile raffrontare ai modi Biedermeier di un'aristocrazia cavalleresca osservata sotto la lente sensibilissima di Claudio Abbado, coi suoi rilievi cameristici e la rotonda cantabilità (Theater an der Wien, 1988) in un dialogo fra maestro e allievo che si fa allora particolarmente prezioso. 
Del resto, nel confronto, tanto l'Introduzione con le fanciulle filatrici quanto il duetto Emma/Eghinardt si avvantaggiano, nel primo caso, di un incedere cogitabondo e, nel secondo, di un affettuoso e partecipato sentire quasi che l'anima «ansiosa di preservare / l'amore fedele nel segreto del cuore» si trovasse profondamente turbata pur sforzandosi di continuare a credere nel sorriso del destino.   
Per taglio interpretativo impresso da Harding, cambia poi di segno il cameratismo bonario e conviviale, un poco "alla Mozart", di «Laß uns mutvoll hoffen» (N. 5; Roland/Fierrabras) che guadagna moto ben più energico, battagliero. 
Questa lettura, in generale, può rimandare a certi climi e temperature emotive che si ascoltarono a Firenze (Bychkov, 1995); assistetti dal vivo alla prima rappresentazione assoluta dell'opera in Italia. Non fosse, però, che Harding se ne distanzia in modo radicale per il bruciante passo imposto ai recitativi e per l'umbratile sospensione lirica di certi momenti: per prima la Romanza di Eginhard. Ed è allora soprattutto l'incedere narrativo di quella grande costruzione che è l'atto primo a dotarsi qui di autentico climax per accumulo del materiale musicale cui si accompagna passo passo una serrata e logica progressione drammatica. Harding la guida non mascherando affatto l'indugiare schubertiano attorno a certi luoghi quanto piuttosto lasciando che essi deflagrino nel contrasto con la stringente accensione dei passi più teatrali, saggiando così con rinnovato sentire lo spessore drammatico tanto dell'elegia di Eginhard avvolta da trasognata rimembranza (un vero peccato la non salda emissione del tenore) quanto la forza degli accenti nel confronto fra Carlo Magno e i cavalieri. Emblematico, a tale proposito, è proprio il N.4c coi suoi brucianti recitativi che, questa volta, fanno presentire nientemeno il Tannhäuser; ma difetto grande sta nel basso Konieczny che col suo canto arcigno rimpicciolisce di molto la statura del re. Sono pagine che il direttore scioglie poi in un ensemble dal passo misuratissimo, a vantaggio di ampie volute nella solennità di un edificio cherubiniano che lascia decantare il dramma per giungere, infine, ai numeri che chiudono il lungo atto dove Harding, per coerenza narrativa, pare rievocare i precedenti come un cerchio che giustifica e conclude.
Rilievo e spessore dell'orchestra avranno certo messo in risalto, forse anche all’ascoltatore meno avveduto, quale valentìa sia richiesta agli interpreti dei sei ruoli principali dell'opera; a due di loro si è già fatto cenno. Se è arrivato preparato all’appuntamento il tenore Bernard Richter (Fierrabras), dal timbro terso capace di suggerire la purezza d'animo del protagonista, gli acuti dell'aria all'atto primo restano però tutt'altro che a fuoco, complice un'organizzazione vocale poco propensa a coprire il suono. Mentre Roland di Markus Werba conferma l'ottima prova già offerta come Beckmesser alla Scala, Anett Fritsch non possiede neppure i medi acuti per affrontare in sicurezza la parte di Emma. Dorothea Röschmann (Florinda) è interprete sensibile di «Des Jammers herbe Qualen» (atto terzo, scena sesta; N. 21) e scaltrita esecutrice della pagina attesa all'atto secondo. La voce, però, si è col tempo sempre più andata organizzando in bocca alla ricerca di uno spessore drammatico che la natura del mezzo, anche per estensione e ampiezza, non le consente di sfoggiare.
Fierrabras si sfoglia attraverso lo spettacolo di Peter Stein come le pagine di un romanzo dalle figure illustrate a matita, i cui capitoli si trovano serrati entro aperture e calate del velario, a imposizione di un ritmo oggi quasi del tutto dimenticato, che fa riscoprire così il piacere di sostare in attesa fra bisbigli a mezze luci e contribuisce a restituire senso agli equilibri del racconto. 
Si crea un curioso contrasto fra la lettura romanticamente engagé di Harding e l'illustrazione in bianco e nero di Stein per nulla sollecita a psicologie e sovrastrutture (gliene siamo grati) ma di gusto lineare, gradevolissimo, che cede soltanto nel finale con un cuore bipalmato rosso fuoco a spiegarci il trionfo di pace e amore, dopo aver regalato però un vero tocco da maestro: le scene ambientate guardando ora all'esterno e ora all'interno della torre, rischiarata da efficacissimo e suggestivo taglio drammatico della luce. 

 

mercoledì 6 giugno 2018

Lazzaro felice






È certo che le immagini più facili da trattenere dopo la visione di Lazzaro felice siano quelle del protagonista il cui bellissimo ovale pare modellato su certe pitture duecentesche, a metà fra angelo e pastore. Una rivelazione. 
Quello di Adriano Tardiolo, infatti, - al debutto nel film di Alice Rohrwacher, vincitrice del premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2018 - è un viso antico che buca lo schermo, rischiarato da espressioni indulgenti sino all'arrendevole perché Lazzaro è remissivo nei confronti di chiunque lo avvicini, a cominciare da coloro che con lui dividono i poveri alloggi attorno all'Inviolata, proprietà di una marchesa che sfrutta cinquantaquattro mezzadri confinati in campagna nella completa ignoranza del mondo, quello delle conquiste sociali di un'epoca in cui il figlio della padrona ascolta le canzoni sul walkman
La favola, senza lieto fine, prende così avvio da un quadro campestre che concede ben poco al pittoresco: colline quasi modellate nella cartapesta e fitti campi di tabacco fra i quali la macchina da presa rincorre gli sguardi. Poi il paesaggio cambia e quello umano invecchia; non Lazzaro, però, che risorge da una caduta rovinosa immutato nel corpo e nello spirito. 
Personaggio divino - santo e idiota nell'accezione dostoievskiana - il giovane testimonia un bene che non scende a compromessi con la realtà, misurandola piuttosto attraverso gli occhi della bontà nella sua essenza più pura, generosa e fatale proprio nella misura in cui è chiamata a mettere in rilievo il male. Quella del Lazzaro di Tardiolo è manifestazione corporea dell'innocenza che, come il personaggio dei vangeli, muore e risorge attraverso nuovi medioevi sociali: le baracche della modernità capitalistica. 
Se la figura di Lazzaro e la vertigine della resurrezione hanno ispirato pagine memorabili all'Antonio Moresco degli Increati (2015), qui il mito si declina come si raccontano ai bambini i fioretti di San Francesco; ma l'episodio del lupo, anche nel tentativo di non rivelarsi sino in fondo, appare poco a fuoco con la narrazione.
Il sostrato culturale del film poggia, invece, nel cinema di Germi (Il cammino della speranza) e in evidenti tributi alla poetica zavattiniana e poi a quella pasoliniana (qui l'umanità residuale che abita le periferie cittadine del nord Italia), mentre il finale drammatico ricerca un'asciuttezza bressoniana.
L'equidistanza fra registro favolistico e realista è utile alla Rohrwacher per mascherare una certa aporia del racconto (il rapporto fra la banca e Tancredi, figlio della marchesa e mancato erede della fortuna materna) perché quello che interessa, avvicinandosi alla morale della storia, è il suggerire la natura del nuovo «grande inganno»: non più quello ai danni degli sfruttati ma quello perpetrato dai meccanismi degli istituti finanziari. 
Se la maturità ed il rigore staccano di moltissimo il Dogman di Garrone da Lazzaro felice, questo però è un cinema che, fatti propri alcuni nobili riferimenti, si mantiene sano nel confronto con l'estetica opulenta e rassicurante di altri autori contemporanei, anche rispetto ad itinerari narrativi definiti in maniera troppo prevedibile.