lunedì 20 aprile 2015

Mia Madre


Non ha che il pregio della sincerità il nuovo film di Moretti; ma rivendico il fatto che un regista possa fare sempre lo stesso film, lavorare intorno alla stessa estetica e agli stessi nodi senza aggiornarsi, magari per adeguarsi alle aspettative di un altro pubblico (quello che, altrove, Moretti ha dimostrato di saper conquistare). Del resto, il suo è sempre stato un cinema appuntistico e fatto di attori che vestono personaggi a latere: il ritorno a storie vere, come nei due ultimi film, non era affatto scontato, insomma. Qui, però, la pochezza filmica - attorno alla quale il regista vuol far convergere diegesi e riflessione (il che ha antecedenti in altri autori) - è perseguita fino a risultare insopportabile. Il cinema senza più oggetto, dunque, che registra la stanchezza di parte degli intellettuali occidentali. Quello che colpisce, e in negativo, è il dato biografico, specchiato qui e nel senso ultimo di una generazione: la sua e anche quella dei Francesco Piccolo, quella degli smarrimenti post 1989 e poi post 1996 e poi post 2003 e poi altri ancora; quella dei renzi-no-però-anche-forse, degli attualmente-sono-orfano-ci-resto (lo stesso mondo che oggi, ad esempio, tace sullo scempio della Costituzione Italiana). Insomma, nel caso di Moretti, dal settarismo degli anni '70 coltivato poi tra le molte ottusità nel gruppo snob degli intellettuali romani di sinistra; da certo marxismo a certo postmodernismo deluso tanto dalle grandi narrazioni quanto dal proprio fallimento generazionale per giungere ad un nichilismo relativista, ormai oggi in marcescenza; oltre, arrivati al redde rationem, c'è solo la dissoluzione. Al posto di razionalizzare la propria personale delusione, Moretti addita la madre latinista, morta e rimasta d'esempio per i propri studenti: a lei, degli altri, “interessava per davvero”. Prima ancora che armarsi per il prossimo, dunque, sono da vincere l'indifferenza, il cinismo; in primo luogo il proprio. Non è molto? Questa volta è tutto ed è il riscatto cercato negli ultimi tre minuti del film. Non è difficile che ciò risulti pochissimo per quasi tutti, trattenuti al cinema dal regista per 106' con non poco sussiego ed altrettanta cupidigia di annientamento, allo scopo di condividere la storia di uno smarrimento che è anche quello del “film di merda” (testuali parole nel parossismo di Turturro), opera di un regista "che non capisce un cazzo". L'antidoto al film, anche a quello in produzione sullo schermo di Moretti, è “Deux jours, une nuit” dei Dardenne.