lunedì 23 ottobre 2017

"Der Freischütz" alla Scala



Per fuggire i miasmi del capoluogo lombardo ci si può rifugiare per un po' nel Wald di Weber affidato alle premure di Myung-Whun Chung. È una cura attenta a mettere in valore non il caratteristico d'atmosfera e il diavolesco ma invece l'abbraccio con una natura che ci si trova portati a comprendere (e si tratti pure del sovrannaturale) in entrambe le accezioni: contenere in sé stessi, penetrarne il senso. Si tratta di un lettura che, con tutta evidenza, si inserisce nel filone che fa capo a Furtwängler ma possiede altresì caratteri autenticamente personali. 
Qui di seguito una breve nota sull'interprete Chung dal momento che la grandezza del musicista è a tutti conosciuta. Comincio con un'impressione. Venerdì sera un momento dell'Ouverture mi ha riportato alla mente il Thundersorm della Pastorale beethoveniana diretta da Giulini al Teatro Lirico di Milano; il suo testamento musicale, credo. Quel senso inclusivo e conciliante, fondato su un approccio religioso all'elemento naturale inteso come manifestazione del divino in ogni sua forma, mi è parso riconoscerlo in Chung. Già la prima sezione dell'Ouverture evocava, infatti, una dimensione perfettamente in grado di trascendere la mimesi del risveglio montano sulla tonalità genuina di Do maggiore per abbracciare col mondo incontaminato cantato dai corni una ben più profonda, intima e morale visione della natura. Il brano introduttivo all'opera, sintesi dell’avventura del protagonista con l'insinuarsi del demonio nel cuore fragile e puro, accoglieva poi in luogo dello scatenamento tellurico delle forze del male (esposizione del primo tema congiunto ai motivi tratti dall’aria di Max), un ritardando molto marcato al culmine del crescendo a poco a poco che lungo la forcella conduce al fortissimo sull'accordo in minore; un gesto trattenuto, lasciato sospeso per far disinnescare invece che amplificare la detonazione del tuono che suona così come domato da una volontà superiore, iscritto in una logica unitaria (il repiro lungo del legato direttoriale). La vittoria del bene, infine, incarnata nel secondo tema (Agathe che accoglie l’amato cacciatore) suona in orchestra saluto indulgente ben più che festosa epifania liberatrice; un porto sicuro, conseguenza naturale di un attraversamento doloroso di cui, al principio, si è accettata e compresa la ragione. A suggello di questa lettura, l'episodio (bb. 279-287) che porta alla coda del brano - in Furtwängler, ad esempio, è apparizione mitica e creazionale (Weber ha certo guardato ad Haydn) - da Chung è adagiato su un'orchestra di morbida sonorità e placido incedere: un'opera divina che è soprattutto benevola, indulgente.
Il ragionare intorno alla grazia e alla giustificazione quale accoglienza della giustizia di Dio e riconciliazione con l'uomo nella visione cattolica e in quella luterana porterebbe troppo lontano; ma mi pare chiaro da quale parte Chung ci ricordi stia il cattolico Weber. 
Anche le pagine "caratteristiche" si trovano iscritte dal direttore in una logica di respiro unitario: quello ampio di un legato di gran classe che abbraccia le pagine d'insieme e che distingue già la Bauern-Marsch ed il Walzer (più eleganti acquerelli che disegni coi tratti stilizzati del folklore) come la ballata di Kaspar e più ancora la sezione centrale dell'aria, specie per venire incontro ad un interprete in difficoltà. Romanticismo maturo è quello nel quale il direttore ha collocato l'opera; la gustiamo però senza forzature estetiche ma come bagaglio di suggestioni musicali a venire (il Bruckner di Chung merita attento ascolto) e con una "Gola del lupo" d'impeccabile tenuta drammatica.
Una lettura siffatta avrebbe meritato distribuzione ben più adeguata e messa in scena assai più sensibile. Con la consueta incoscienza del pericolo - che sempre fa rima con ridicolo - la pagina online della Scala invita ad apprezzare lo squillo da Heldentenor di Michael König forse ignorando il significato del termine o avendo evitato di ascoltarlo: un timbro infelicissimo e un cantante in difficoltà nella scrittura centrale, quella sulla quale insiste tutta la parte. Meglio i due soprani alla sortita ma, nell'atto terzo, tanto gli acuti fibrosi della Kleiter (Agathe), filati lungo una linea di canto già poco ammaliante, quanto il ricorso al parlato da parte della Liebau nella bellissima «Einst träumte meiner sel`gen Base» contribuiscono a compromettere la resa di un cast insufficiente pure nelle parti di contorno (fa eccezione il Kuno di van Hove) e risollevato solo al termine da Stephen Milling (Ein Eremit).
Conservo un bel ricordo dello spettacolo di Pier’Alli (1998) allestito con prezioso gusto figurativo e un'indimenticabile "Gola del lupo" percossa da proiezioni di forte impatto emozionale; davvero nulla a che spartire con lo spettacolo di Hartmann tutta goffaggine del costume, cachinni e siparietti su un'impianto scenico tra l'usato e il convenzionale. 



lunedì 9 ottobre 2017

Blade Runner 2049

                                                          


                                                            Lo spazio è uno sciame dentro gli occhi; e il tempo  
                                                            un canto nelle orecchie. Sono rinchiuso
                                                            in questo alveare. Pure, se in precedenza
                                                            questa vita ce la fossimo mai immaginata, 
                                                            quale folle, impossibile, indescrivibilmente 
                                                            strano mirabile nonsense ci sarebbe sembrata! 
                                                            (Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, vv. 215-220)







Se sposiamo la tesi di coloro che nel cognome del cacciatore di taglie Rick Deckard leggono un'allusione a Descartes - suggerendo che Philip K. Dick abbia voluto riassumere così e in alcuni tratti del personaggio la propria urgenza gnoseologica - possiamo forse compendiare K, il protagonista assoluto di Blade Runner 2049, in una parafrasi del motto cartesiano: «ricordo quindi sono». O, forse, vorrei essere.
K un nome vero e proprio non lo possiede; la lettera è soltanto l'inizio di un numero di serie che distingue una nuova generazione di replicanti ancor più sottomessi al fabbricatore, privati d'identità nominale. La sua lotta per l'emancipazione comincia laddove inizia quella di Deckard, suggellata dal miglior finale di Blade Runner e quindi a partire dal Director's Cut 1992. Non è un caso che tra i tanti espliciti rimandi alla pellicola di Scott ci sia Gaff (Edward James Olmos): nel 2049, a colloquio con K nei primi passi dell'indagine, fabbrica ancora origami ma in una casa di riposo. L'imbeccata, pure all'indirizzo dello spettatore, è sempre la stessa: realtà del ricordo oppure innesto? E, ancora una volta, dickianamente, è la natura flessibile della realtà. 
In maniera assai più radicale di Deckard, però, K è protagonista che esemplifica sino alle estreme conseguenze il conflitto che risiede nella percezione del reale; la sceneggiatura è calata in profondità nel mondo poetico e nella biografia dello scrittore (che portava Kindred come secondo nome). Allora non possono esserci risposte definitive, piuttosto molteplici piste da percorrere. Forse, fedeli all’impiego frequente che Dick fa nei propri romanzi e racconti della lingua tedesca, gli sceneggiatori hanno evocato in K il Knecht, servo (come il protagonista dell'ultimo romanzo di Hesse, ma è un fatto che pare del tutto involontario). Oppure è Knight, come il Sebastian di Nabokov, o forse Kinbote, il nobile decaduto di Fuoco pallido, libro che fa fugace ma significativa apparizione sullo schermo di Blade Runner 2049: l'agente K ne sconsiglia la lettura a Joi perché, dice, la rattristerebbe. Alcuni versi del lungo poema (non le «Cells interlinked within cells interlinked» citate pari pari nel film) sono qui sopra riportati come intestazione e forse d'ispirazione per una delle sequenze più suggestive del film (Roger Deakins prodigioso alla fotografia): K cammina pensieroso fra arnie miracolosamente popolate in una Los Angeles post-apocalittica nel bagliore di un sole nebbioso giallo ambra e si prepara all'incontro con Deckard.
I nomi, ancora quelli. Estensione non soltanto temporale dell'originale, il sequel ne accoglie uno per dilatarne il riferimento: è quello di Rachael, ora evocazione del personaggio biblico tormentato dalla preoccupazione di non riuscire a dare un figlio al marito che la predilige e poi, esaudite le preghiere a Dio, madre di Giuseppe (Gen. 30, 1 ss.). La famiglia, dunque, evocata anche nella prospettiva religiosa la cui irruzione è frequente nella poetica di Dick; fra l'altro, quella sacra raffigurata sul Tondo Doni s'intravede con chiarezza nel palazzo in cui ha trovato rifugio Deckard. E ben presente agli autori è certo il fatto che Dick nacque di parto prematuro insieme alla gemella Jane Charlotte, morta a sole sei settimane. Alla memoria della defunta lo scrittore restò sempre legato in maniera morbosa alimentando nei suoi riguardi tanto un sentimento di colpa quanto un bruciante senso d'incompletezza.
E, poi, due solitudini: quella di K che tenta placarla ogni volta che risuona il tema di Pierino e il lupo per portargli l'immagine virtuale e amorevole di Joi; l'altra, quella di Deckard l'eremita che cita Ben Gunn, marooned sull'Isola del tesoro di Stevenson (capitolo quindicesimo) in attesa di Jim. E arriva Joe perché K ha finalmente guadagnato un nome.
L’architettura di questo Blade Runner è, come nel 1982, quella solida del più tradizionale noir. Ma qui cacciatore e preda convivono nella stessa figura oppressa da dolorosa rivelazione per via di un passato che, nella visione di Dick, è nebulosa composta di reale ed irreale. 
K è uno sbirro, «una pelle» che abita la Los Angeles affollata da un'umanità residuale. È «uno di quelli che non scappano», come gli ricorda in modo sarcastico Sapper Morton prima di venir freddato. E Ryan Gosling è perfetto nel rilevare sulla propria maschera, con precisione mercuriale, il percorso che gradatamente conduce l'androide alla presa di coscienza offrendo espressioni che mutano sempre e sempre sono sfumate perché marcarle (tranne che durante il colloquio rivelatore con Stelline) significherebbe umanizzare un personaggio che dalla propria ambiguità trae ragion d'essere fino a farsi poi, ai nostri occhi, «più umano dell’umano»
Il desiderio come l’amore - parola troncata sulle labbra di un ologramma - è in Blade Runner 2049 fra i sentimenti che si fuggono oppure, una volta provati, si nascondono gelosamente; pensiamo a Luv (incarnazione delle donne autoritarie e distruttive note alla penna di Dick) ma soprattutto al tenente Joshi, colei che, da essere umano, compie silenziosamente il proprio sacrificio anticipando quello di K al quale al principio, per un tacito rifiuto, aveva negato il possesso di un'anima.
Anche chi conosce in maniera superficiale il primo Blade Runner (o per nulla la letteratura di Dick) sarà certo a proprio agio nel lavoro di un regista che da quelle sorgenti ha fatto scaturire il proprio lavoro e che, al tempo stesso, ha raccolto a piene mani situazioni ed ispirazioni figurative dei film di fantascienza degli ultimi venti anni, o giù di lì; quella produzione cinematografica, insomma, che dal mondo dello scrittore statunitense non può prescindere. Nessuna sorpresa, dunque, che Blade Runner 2049 sia infinitamente meno "rivoluzionario" del primo. 
Villeneuve conferma la propria affinità col genere fantascientifico, con tutte le implicazioni che il termine oggi porta con sé. Della grammatica dell'originale il regista canadese s’impossessa con appropriatezza nei luoghi più attesi lasciando invece che il retrofuturismo mediato attraverso i polizieschi anni Trenta e Metropolis ceda il posto ad ambienti e design degli anni Cinquanta (epoca di Dick e di maccartismo) coi suoi fantasmi a intermittenza. 
In Blade Runner 2049 fonti e suggestioni convergono, come già anticipato, in un unico grande estuario: quello che, magari in maniera indiretta, ha spesso la prima origine nella poetica dickiana di cui il capolavoro di Scott fu formidabile rivelazione sul grande schermo. Si va, dunque, da A.I. (la triste caduta del bambino-robot che vuol credersi figlio) a Her (l'amore tanto virtuale da diventare reale), da Mad Max: Fury Road (le sabbie di un cielo in cui campeggiano statue colossali) a certe atmosfere del più convenzionale Oblivion; da Moon (il replicante e la scoperta che nega la sua presunta unicità) a District 9; da I figli degli uomini agli echi della trilogia di Matrix
Se l'operazione di Villeneuve è filiazione diretta dell'originale fatta per porsi al suo seguito con assoluta dignità, Tron: Legacy (2010) surclassava invece, di gran lunga, il film di Lisberger (stessa data di Blade Runner, 1982). Quale ridefinizione radicale dei rapporti che umano e tecnologico intrattengono nella narrativa cinematografica, il film di Kosinski, infatti, pone prima in netto contrasto il reale ed il virtuale, poi lo spirito con la materia, e si spinge sino ad additare una possibilità di conciliazione a metà strada tra religione e misticismo originata nel cuore della tecnologia stessa; un umanesimo niente affatto manicheo, insomma, che abita una dimensione altra da sé eppure in grado di comprenderlo ed esaltarlo. Mentre Tron: Legacy, film sulla ricerca di una perfezione costellata d’errori e sulla limitatezza della copia immutabile di un’idea, è capace di ricondurci con rinnovata coscienza alla dimensione del reale, il nuovo lavoro di Villeneuve, invece, ci trattiene in quell'interstizio, disperante ben più che risolutivo, a metà tra immaginazione e sentimento, reale ed eventuale.
Negli ultimi trenta minuti Villeneuve rischia moltissimo per un pubblico già a lungo tenuto in sala. Ma ha da raccontare la nuova consapevolezza del protagonista e la scelta del suo sacrificio, forse per «la grande causa». Qui i destini di Deckard e K si separano temporaneamente; il primo preda di Wallace che intende sfruttare la riproduzione dei replicanti a fini espansivi ed ignora l'essenzialità del dettaglio (Ana a K), anima del sentimento. I due si ricongiungono dopo sequenze che sono una concessione troppo convenzionale all’action movie, anticipo però di un finale degno di nota.
Nel caos tutto dickiano di nato e creato, reale e replicabile, infatti, è la percezione del sentimento a fare la differenza; uno scarto che nelle ultime sequenze trova pacificazione instabile, mutevole, nella capacità immaginativa e quindi creatrice, forse persino salvifica, del ricordo che è molto simile alla funzione dell'arte. È un itinerario - si è già detto - che comporta il sacrificio di K; ed è di Dick l'ammirazione per la dignità dell'uomo capace di opporsi nei momenti cruciali alla prevaricazione dei potenti. Sacrificio, miracolo, anima. Luoghi disturbanti fra le gelide relazioni interpersonali che scontrano gli uni con gli altri i soggetti del film; e dunque parole rare in momenti che così guadagnano forza epifanica, umanissima.  
K addita a Deckard Ana Stelline, prima di veder sciogliersi in un istante sulla propria mano fiocchi di neve, fragile realtà. Ed è anche l’ultima magia creata in un'odierna star cave (la scatola empatica del Cacciatore di androidi) dalla creatrice di ricordi che domanda al padre, forse, ritrovato: «Stupendo, no?». Sta allo sguardo che risponde in sala a quello di lui, interrogativo, scegliere un sì accordato col proprio sentimento. La percezione di un affetto, altro non resta.