venerdì 25 agosto 2017

Les sauteurs




Les sauteurs di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé (Paesi Bassi/Danimarca, 2016, 82')



Al di là del limes
di Francesco Gala


L'Europa è scomparsa dietro all'occhio di una camera di sicurezza che in un bianco e nero surreale ed implacabile perlustra lo spazio circostante. Al centro dell'immagine un mirino; presto dà la caccia a punti bianchi che muovono nel fitto della boscaglia. Il dispositivo che altrove permette di scegliere e di comporre l'inquadratura sembra qui strumento di punta da arma da fuoco. Lo accompagna, nel sonoro, un brusio grave e minaccioso, impersonale come quello prodotto da un generatore elettrico. È notte e les sauteurs, accovacciati sotto alberi di fico d'India, sono pronti a tentare l'ennesimo assalto alla barriera.
Nella ormai nutrita filmografia attorno alle migrazioni di questo inizio millennio - nella quale il cinema italiano ha giocato un ruolo primario, da De Seta a Rosi passando per Crialese - questo documentario prodotto in Olanda e Danimarca occupa un posto particolare perché testimonianza condotta, sin dalle proprie fondamenta, in maniera decisiva, radicale. La questione centrale è, infatti, quella relativa al punto di vista e, quando, come in questi casi, il soggetto concerne il limite, la frontiera, bisogna riconoscere che la posizione nella quale l'occhio e quindi la macchina da presa si trovano per guardare assume un carattere assolutamente determinante.
I documentaristi Siebert e Wagner hanno donato, così, una videocamera al giovane maliano Abou che da quindici mesi tenta di valicare il confine europeo rappresentato da Melilla, la città autonoma spagnola su suolo marocchino: «il nostro grande amore, l'Europa in terra d'Africa», salutata all'alba dai migranti, in una dolce sequenza del film, con i versi di una celebre canzone della Houston.
In un'attesa che sembra non poter aver fine, Abou vive, filma ed è filmato sulla montagna Gurugu. «La famosa, la santa. La divina. La speranza o la disperazione. La vita così come la morte», sono le parole con le quali il giovane abbraccia il luogo. «Un nuovo mondo». La montagna della paura e dagli atti vandalici compiuti dalla polizia marocchina, ma anche quella del conforto e della compagnia, magari portata dai cani accolti come «fratelli e sorelle».
Il lungo assedio alla frontiera ha assunto carattere di normalità, così come ha fatto con le rigide regole e le gerarchie in vigore fra i suoi abitanti. Intanto, aspettando e preparandosi agli assalti, si commercia, si ascoltano canzoni, si gioca a pallone, si desidera l'amore, si sogna intensamente, si canta: «Ognuno va via per un luogo lontano da qui. / Questa terra lontana è chiamata America / Ognuno va via per un luogo lontano da qui. / E questa terra si chiama Europa. / Ognuno ha il proprio destino e se non hai mai sofferto / Non sai niente della vita. / Ognuno ha il proprio destino e se vuoi conoscere la sofferenza / Devi lasciare la tua casa. / Ognuno vuole aiutare le proprie famiglie. / Ognuno vuole diventare un africano in Europa.»
E, ad ogni nuova apparizione delle immagini in bianco e nero registrate dalla camera di sicurezza alla frontiera, la nostra scomparsa dallo schermo - quella di noi europei in un film interamente africano - torna ad essere presenza ingombrante che chiama ad attenta riflessione.
Dapprima timida ed impacciata (addirittura pudica rispetto a certe realtà sulle quali posa il proprio sguardo), la videocamera di Abou si fa poi sempre più scaltra e selettiva. Il punto di vista sul contesto muta attraversando la lente dell'obiettivo che lo riflette; e il piacere di creare immagini porta alla scoperta di una bellezza inaspettata che acquista significato personale pronto per essere consegnato al prossimo, a chi guarda. «Sento che esisto quando filmo», confessa Abou.
Ora le immagini si fanno messaggio, tramite di pensieri, istanti, emozioni. Ed è così che la materia aderisce, con rinnovata coscienza, al proprio trattamento: l'orizzonte desiderato è uno zoom come il futuro che si guarda tutti i giorni in fronte a sé ma che non si riesce a raggiungere se non stringendo il dettaglio dell'immagine; la corsa nella boscaglia è una camera a spalla che cattura porzioni di corpi, piante, cielo; e l'intervista in stile televisivo è un primo piano stretto su sorrisi o lacrime.
Una confessione del protagonista/regista filtra fra le immagini con parole che bruciano lentamente come i roghi sulla montagna dell'attesa: «Per decenni il mio paese è stato sfruttato. E ora che voglio venire in Europa me lo impediscono? No, no, no. Così non va. Ho il diritto di raggiungere l'Europa. Non potete prenderci tutto e poi escluderci. Certo, sappiamo che il paradiso non comincia dietro alla barriera. Abbiamo visto alla TV come l'Europa tratta i migranti. Mio fratello mi ha telefonato e ha detto “c'è la crisi in Spagna”. Ma quando sono sulla montagna e guardo la barriera so che saltare nuovamente sarebbe molto doloroso e allora devo credere che dall'altra parte della barriera si trovi l'El Dorado. E a coloro che mi attendono alla barriera conviene che sia proprio così.»








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