venerdì 22 dicembre 2017

D'Ormesson, Tiziano, Allen, Mozart

Qualche cosa sulle ultime ventiquattr'ore.
La conversazione di D’Ormesson si legge con quel piacere che non fa star fermi sulla poltrona. Sono frasi autentiche di Napoleone che il grande scrittore anima nel dialogo insieme a Cambacérès con vivo istinto della parola teatrale; un gioiello di acume e leggerezza. Le attenzioni del primo console che sta per proclamarsi imperatore vanno al dominio di un mondo mai abbastanza vasto per la propria ambizione così come allo scialle armeno («d’un goût affreux»!) oggetto di contesa per la nouvelle noblesse dei Bonaparte. Come fu a Carqueiranne qualche anno fa, speriamo venga in mente pure ad una compagnia italiana d’inscenare il testo.
Sacra è la Conversazione del Tiziano in prestito a Palazzo Marino, dove non si possono staccare gli occhi dalle macchie cangianti della luce crepuscolare accesa di tepore e quiete riflessiva attorno alla Vergine.
Prodigi che si cercano sullo schermo quando il colore è affidato ai pennelli di Storaro. Il cinema di Allen è forse il più identitario fra quelli dei pochissimi grandi vecchi in attività. L'impressione è di trovarsi difronte a sempre nuova variazione di un tema fatto di motivi differenti che gravitano attorno allo stesso polo; non senza orgogliosi riferimenti bibliografici (qui Ernest Jones). Ben oltre il frustro meccanismo metateatrale (il bagnino drammaturgo racconta e fa la storia) sono i personaggi ad essere agiti dal cinema, proposti come paradigmi filmici, proiezioni su cellulosa di desideri e aspirazioni, tutt'uno con la vita e il grande schermo; dunque Storaro con retroilluminazioni e virate al seppia, al verde. La ruota delle meraviglie (quella di Coney Island come il circo di Ombre e nebbia) è cinema di scrittura ma assai più di attori: qui l'omaggio è alla Winslet, per nulla seconda a Jasmine (Blanchett) di qualche film fa. Il congedo è amaro al punto giusto perché ai nostri tempi l'autoillusione genera mostri.
Antonini alla Scala per Mozart vuol dire applaudire ancora un direttore capace di trovare la quadra fra nitidezza dei profili melodici e amabilità del suono, ragion pratica negli accompagnamenti e senso dell'insieme: una lettura della K427 alla ricerca d'intima tensione, emotiva e musicale nel cuore del capolavoro (il rigore severo del Qui tollis benissimo cantato dal Coro). Sono questi gli ascolti capaci di tener viva l'attenzione con ingredienti sapidi, pur in assenza di una componente basilare: il canto della coppia di soprani è, infatti, davvero impari al compito. Prima c'è la Rae, con il Mottetto, quale prototipo della cantante presunta “stilista” che passa dallo studio di registrazione alla sala per rivelare la natura di un canto fatto di suoni e suonini flautati, ridicolmente ingrossati quando trovano la nota “di forza” laddove altrove sono direttamente emessi indietro. Alla sua prestazione si è poi aggiunto il malcanto della Invernizzi con un'organizzazione vocale ripartita nel campionario di suoni spoggiati, tubati e fissi.



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