giovedì 11 giugno 2020

Le statue e la Storia

L’ultimo abbattimento di statue che io ricordi, e con orrore, fu quello dei colossali Buddha di Bamiyan. Erano intatta testimonianza della visione trascendente e immanente del Gautama, oltre che prodotto artistico straordinario, irripetibile, perché sposava l’arte greca a quella indiana. Ci restano soltanto le fotografie. Fu come tagliare braccia e gambe ad Alessandro Magno, magari a una sua statua; la suggestione arriva dal fatto che sto leggendo Il ragazzo persiano di Renault.
Mi riesce comprensibile l’abbattimento di statue di dittatori a seguito di una rivoluzione; chi ha la mia età ricorderà bene quella di Ceaușescu. Una perdita, comunque, se si riflette a mente fredda, quale potente segno di ulteriore riflessione storica essa avrebbe lasciato; ne restano altri, fortunatamente. Ma la Storia, si sa, non è fusione a freddo. E non è neppure la calda visione ottimistica che vorrebbe sbarazzarsi di testimonianze scomode o addirittura immonde dimenticandosi al tempo stesso che per rimpiazzarle con altre altrettanto pessime si può far sempre prima.
A Cuba (mi sembra fosse vicino a Cienfuegos) ricordo d’aver visitato un’azienda agricola che era conservata intatta come fu al tempo in cui vi faticavano stremati gli schiavi. Quella è memoria storica; saggiamente tutelata da un nuovo regime, per altro. Lo stesso si può fare in Alabama e in Louisiana, dove sono diventati museo gli alloggi affianco ai campi di cotone.
Cerchiamo di preservare memoria, dove possibile, anche delle statue di coloro che da quei traffici immondi trassero profitto. È un fatto che assume valore di monito e conoscenza per il presente ed il futuro. Allo stesso modo in cui non ci verrebbe mai in mente di abbattere le ciminiere delle camere a gas di Auschwitz, abituiamoci a guardare alle statue di quelle figure del passato con occhi attenti e informati. La Storia nelle sue forme artistiche e testimoniali si studia, non si abbatte. Si dirà: ma effigi di Hitler e dei suoi scherani non ne abbiamo mica conservate in piazza. Però ci industriamo a tramandare tutta una memoria di segni materiali e immateriali che oltreoceano ma anche nel Regno Unito - per quanto attiene a quel tratto di storia della schiavitù - resta piuttosto fragile, e talvolta quasi dispersa.
Dopo la censura a Via col vento dove vorreste spingervi? Alla letteratura forse? Magari cominciando da Un reietto delle isole di Conrad?
Se, poi, ad abbattere la statua di questo o quel figuro, che si arricchì grazie ad un sistema economico in larga parte fondato sul traffico di esseri umani, è qualche pingue occidentale che indossa scarpe e capi d’abbigliamento fabbricati in Bangladesh da qualche nuovo schiavo che il sistema capitalistico ha trovato il modo più comodo di non disallocare al fine di produrre al minimo costo di mercato, la cosa assume contorni grotteschi.
Un po’ come avviene per la statua della mamma del conte Catellani presa a calci da Fantozzi. Un atto pieno di «eroismo da tinello», come ho letto in giro.
Inaccettabile, inoltre, ogni pretesa distinzione fra la censura di opere artistiche e quella di opere celebrative, fondata com’è su un equivoco di sostanza. Esistono infatti infinite opere artistico-celebrative; non ultime le statue in questione. Istituiamo una commissione pubblica per stabilire se il loro valore artistico sia trascurabile rispetto a quello di altri prodotti artistico-celebrativi? Mi pare assurdità. Beati i tempi (anni ‘80) in cui un direttore d’orchestra di simpatie castriste prendeva Il viaggio a Reims di Rossini, composto per celebrare il più reazionario dei re (Carlo X re di Francia), e lo rimetteva in scena facendolo scoprire al mondo per come è letto ancora oggi: un trionfo d’internazionalismo pacifista. Queste trasformazioni si compiono con le armi dell’intelligenza e del gusto. Nel Regno Unito e in USA sono troppo poche e frammentarie le testimonianze storico-artistiche della tratta degli schiavi. Da noi vale altrettanto per il colonialismo italiano. Perché allora non reinterpretare questi luoghi artistico-celebrativi? Alle statue si aggiungono lapidi, da sempre. Cancellate del tutto quelle memorie artistico-celebrative e chi verrà dopo di noi avrà un luogo in meno per mediare e per conoscere. Cancellate i segni celebrativi accordati in passato a personalità complesse, sfaccettate, per taluni aspetti anche ributtanti, e avrete una porzione in meno di storia e di verità da interrogare.
Il pendio è talmente scivoloso che è stata abbattuta una statua di Gandhi, evidentemente non ritenuta abbastanza artistica o di valore paesaggistico. La cosa non mi sorprende. In quanto italiano, sono stato identificato da un passante in India (un fanatico induista) come amico di Gandhi e quindi nemico degli indù. Di questo passo non ci si ferma più. Ci sarà sempre una statua sgradita a qualcuno da abbattere. Fermiamoci in tempo perché la politica è davvero altra cosa.

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