martedì 20 ottobre 2020

I'm Thinking of Ending Things

 






Il Kaufman senza una n e senza grotteschi falsettini ha scritto e diretto un nuovo film che si guarda su Netflix dal mese scorso se non ci si lascia spaventare dal titolo parecchio respingente in questi dempi deprimenti: Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things).
Tenuto conto che, tempo fa, era stato attivato un crowdfunding per far realizzare al grande sceneggiatore un nuovo lavoro, direi che il colosso dello streaming ci ha tolti d'imbarazzo. È un film bello, in un senso desolato e doloroso.
Siccome «un pensiero può essere più vicino alla verità, alla realtà, di un'azione», non aspettatevi la trama. Del resto, i film che non valgono nulla non hanno che quella.
Fonte d'ispirazione è il romanzo di Iain Reid che, grazie alla fotografia di un maestro quale Łukasz Żal, diventa cinema di sapore tarchovskiano capace d'intrecciare un colloquio a tu per tu con lo spettatore; la tormenta di neve materializzazione sullo schermo di fardelli e ferite che non si rimarginano evoca più di un tributo.
Anche la disarticolazione del fattore tempo riscatta e di molto la noia dell'ultimo Nolan. «Alle persone piace pensare di essere come punti che si muovono attraverso il tempo. Ma io penso che sia il contrario. Noi siamo fermi e il tempo passa attraverso di noi, soffiando come il vento freddo, rubandoci il nostro calore, lasciandoci screpolati e congelati. Non lo so. Morti.»
Ricordandoci che il colore è opera della luce (opera e sofferenza), il film testimonia l'inesistenza di una realtà obiettiva e forse servirà a qualcuno per conoscere pure Una moglie di Cassavetes al quale Kaufman riserva appassionata recensione.
Più penetrante che i riferimenti al suicidio di David Foster Wallace e alle liriche di Wordsworth, è quello diretto alla "società dello spettacolo" di Debord: lo spettacolo non può essere compreso come un mero inganno visivo prodotto dalla tecnologia dei mass media. È una visione del mondo che si è materializzata.
La stessa presa di posizione vale in bocca al protagonista Jake come un engagement d'écriture: «Guardi il mondo attraverso quel vetro preinterpretato per noi e infetta il nostro cervello; diventiamo quello. - Come un virus.»
Come quello inoculato dai brutti film fra i quali, è certo, bisogna escludere questo.

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