martedì 25 giugno 2019

Too Old To Die Young




«Una volta c’erano soltanto l’uomo e la natura. Poi arrivarono uomini che portavano le croci. Credevamo di essere il centro dell’universo. Che il sole e le stelle ruotassero intorno a noi. E abbiamo passato gli ultimi 500 anni, da Copernico in poi, in una lenta salita per arrivare dove siamo ora, a questo culmine della conquista umana. Dove finalmente abbiamo piegato la natura al nostro volere. Abbiamo scisso l’atomo. Abbiamo decifrato la struttura della realtà. Ecco quanta strada abbiamo fatto. Ora le luci delle nostre città arrivano più lontano delle stelle in cielo. Ma più la società è perfetta, più diventiamo psicotici. Ci siamo evoluti grazie alla brutalità. Per questo avevamo denti e artigli. L’auto-conservazione era la legge più forte. Ma, col passar del tempo, il branco ha iniziato a provvedere a noi e noi abbiamo abbandonato la nostra natura violenta. Ma non è scomparsa del tutto. Ci stava accanto quando dormivamo, in attesa. E, mentre aspettava, siamo diventati schiavi dei sistemi che avevamo creato. Ora sta crollando tutto. Presto le nostre città verranno spazzate via dalle inondazioni, verranno sepolte dalla sabbia, incenerite. Per questo hai trovato me. Perché ora vedi tutto questo. [...]
Mentre il mondo si spezza, qualcuno... qualcuno deve stare qui a proteggere l’innocenza.»



Too Old To Die Young, di Nicolas Winding Refn (stagione 1, episodio 4; La Torre)



Non guardo le serie tv, o meglio: prendo in considerazione solo quelle dirette da registi che fanno cinema d’autore. Per le altre mi fido di Alessandro Borghi, che le recita: «Le serie tv hanno fatto solo una cosa: hanno abituato il pubblico a vedere delle cose più belle.»
Del resto, non è la forma “a episodi” a suggerirmi giudizi negativi, dal momento che subito penso a Berlin Alexanderplatz di Fassbinder; dunque a cose importantissime.
Chi ama soggetti forti e storie torbide troverà in Too old to die young pane per i propri denti e coloro che apprezzano il cinema di Refn ne avranno qui declinazione certo non limitata al compendio. L'autore possiede un'identità fortissima ed è un manierista che si fa riconoscere anche da un singolo fotogramma. Il ritmo richiede una visione paziente perché è calibrato attorno alla costruzione di personaggi le cui identità possono mostrarsi diverse tramite un singolo cambio di luce.
Il contesto estetico nel quale agiscono (anche suono e musiche) è curato in modo maniacale e per ciascuna singola inquadratura; un contesto fatto per svuotarsi di ogni residua moralità quanto più a lungo è consentito guardarlo nella sua pura forma di colori, materia. E gli antieroi della serie alimentano una tensione morale arcaica quanto più agiscono in un contesto figurativo che lotta per fiaccarla.
Ci sono le ossessioni di Refn, a cominciare dal rapporto con la madre, e una California che nello sguardo del cineasta danese conserva più di un'eco del Dumont di 29 Palms. Ma anche una Los Angeles che si offre nella sua reale e spaventosa oscurità serale, così come negli interni rischiarati da luce tersa e impassibile.
Il respiro di ogni episodio è quello calmo e rituale dell'epica, intessuta di abbagli e ferite insanabili che condannano i personaggi all’accettazione del proprio destino. Anche perché «il tempo è un fiume che scorre in entrambe le direzioni» come ricorda Diana, che deve aver letto i Purāṇa della tradizione induista e abita un mondo pervertito al male nel quale un abbraccio, uno soltanto, sopravvive per testimonianza di una lacerante umanità.

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