lunedì 2 gennaio 2017

Paterson



di Francesco Gala

L'interrogativo con il quale Jarmusch congeda lo spettatore al termine di Paterson («Would you rather be a fish?») mi ha richiamato, per riflesso involontario e in una sorta di chiasmo stilistico (modernismo americano versus barocco spagnolo), i versi di Calderón:

Quale legge, e che rigore 
rifiutare a un uomo riesce
quel diritto, dove cresce
l'altrui bene non represso,
e che a un fiume Dio ha concesso, 
a un uccello, a un bruto, a un pesce?
(Calderón de la Barca, La vida es sueño, I.2, 167-172; trad. it. di Luisa Corioli, Milano, Adelphi 1967, p. 15)
 
Mi piace crederla una riprova dell'intrinseca poeticità del lavoro del regista: il suo è infatti un itinerario attraverso i meccanismi propri della scrittura in versi e, trattandosi di opera cinematografica, anche sul rapporto che la parola instaura con l'immagine. 
Ritroviamo certo la tipologia dei luoghi e delle individualità che da sempre solleticano la fantasia di Jarmusch, così come il suo umorismo: basti citare la Detroit di Adam (Only Lovers Left Alive) che è qui la Paterson già culla della rivoluzione industriale americana ed ora abitata da un protagonista che ne porta il nome come fa con le ferite di un passato glorioso e perduto, attraversato ogni mattina per andare al lavoro sotto mura di mattoni dalla bellezza appassita, polverosa.
È un film che ha i tratti di una lettera affettuosa, di quelle che si sussurrano a un amico, e insieme possiede le suggestioni sprigionate da un haiku («scrivo parole nell'acqua», confessa Paterson al poeta giapponese); talmente intimo, colloquiale, raro e prezioso che, come per una poesia sul taccuino, farebbe sembrare eccedente la diffusione attraverso altro mezzo se non fosse, invece, lavoro di afflato e poesia universali.
Immagine e parola, si è detto. Ma anche processo creativo cinematografico che qui aderisce con quello della creazione poetica, foss'anche materializzata dal cane la cui immagine reale è riprodotta in un dipinto sulla parete attraverso un processo astrattivo capace di leggere la fisionomia e con essa il carattere autentico del soggetto. Forma e sostanza cinematografica, insomma.
È il rapporto tra il poeta e gli altri, l'indagine attorno al suo sguardo rivolto ad un mondo che esiste per essere letto, interpretato. Una realtà quotidiana, certo, ma non avvitata attorno alla dimensione piccola, angusta. Scriveva William Carlos Williams, nume tutelare di Paterson: «Nessuna idea se non nelle cose». Ed è infatti dagli oggetti - il più comune, una scatola di fiammiferi - che muove il film-poema per avventurarsi in una quotidianità della poesia capace di contemplare la sorpresa (i gemelli presto trasformati in anafora e il ricordo di Gaetano Bresci) per concludersi con un interrogativo esistenziale che suona terribile e confortante al tempo stesso: se la vita dell'uomo è anche un abisso punteggiato di sconfitte, preferiresti forse non aver coscienza di te stesso?
Il riscatto di Paterson sta nel suo sguardo poetico su una realtà fatta di consuetudine e ripetizioni delle quali - a chi come lui le sappia interpretare - è dato inventare il senso, accordando il proprio passo come si fa con la punteggiatura. Il guidatore di autobus di questa città di provincia ha appreso il valore del tempo, come ci ricorda in una delle prime poesie-citazioni; e col tempo anche l'abitudine che, proustianamente, «lo riempie». Nel mezzo, scorrono i legami di senso - anche in accezione sensoriale - che Paterson tesse connettendo tra loro gli eventi come, da poeta, fa con le parole.  
Ed è in questo processo ricreativo che trova spessore e bellezza, rischiarati dalle tinte di una sensibilità adatta alla luce del primo mattino.

Nessun commento:

Posta un commento