venerdì 27 gennaio 2017

"Don Carlo" alla Scala




Poche annotazioni sul Don Carlo di ieri sera col quale Myung-whun Chung ha compiuto - per adoperare il lessico del teatro milanese - un atto di riparazione rispetto alla direzione d'orchestra di Gatti (2008) e a quella di Luisi (2013)
In tutta evidenza, la stella polare della sua lettura è l'interpretazione di Giulini al quale lo accomuna quel sentimento di umanissima e rassegnata volontà che avvolge i personaggi del dramma: è, per la coppia degli amanti, la nostalgia di un altrove assaporato in un breve istante e destinato a perpetuarsi soltanto fra i profondi sospiri di «Ma lassù ci vedremo». Un'interpretazione che Chung, da concertatore di consumata esperienza, ha preparato cominciando dalla qualità del suono orchestrale. Di tratto nitido, equilibratissimo (fatte salve le pecche nella sezione degli ottoni), gli è servito per rilevare nella trama sonora, con precisione mercuriale, passi cameristici convocati ad esaltare momenti fra i più esaltanti della partitura verdiana, quelli nei quali la scrittura si infittisce per agevolare la profondità di sensi e caratteri della drammaturgia; una visione chiaroscurale simile a quella che si ammira nei particolari di certe pitture ad olio del Siglo de Oro. Fra i diversi luoghi, merita di essere citata la risposta di Filippo alle rimostranze di Posa («O strano sognator») che Chung, mantenendosi sempre asciutto, sottolinea con un marcato dei contrabbassi che è promessa molto inquietante all'ascolto. Anche grazie a soluzioni di questo tipo, la concentrazione degli spettatori è tutta catturata da una buca dell'orchestra che, non rinunciando a restituire le tinte dei brani d'atmosfera, tende soprattutto un arco coerente attraverso l'itinerario narrativo con sensibilità e profondità d'intenti richieste da un capolavoro che si distingue per temperatura emozionale affatto personale. Credo che questa direzione di Chung, insieme al suo Simon Boccanegra, all'Otello di Caetani e al Falstaff di Harding rappresenti contribuito degno di memoria per la Scala degli anni Duemila sul fronte del Verdi maturo.
Dei personaggi che formano l'esagono solo uno è apparso adeguato al titolo, specie per il luogo in cui si dava: Francesco Meli (Don Carlo). Efficace nel mantenersi in equilibrio fra eroico e lirico, passionale ed amoroso, Meli è a proprio agio nella scrittura centrale dove tornisce la parola facendosi apprezzare anche nelle mezze voci. Si rifà più alla caratura lirica dei primi interpreti del ruolo che a quella dei successivi, coloro che l'hanno condotto verso lo spinto. Se attorno al passaggio alto le cose per lui si complicano, il si bemolle si conferma il tetto entro il quale è contenuta l'estensione del mezzo. 
Dal vivo, l'Elisabetta della Stoyanova iscrive la cantante fra quelle del peso specifico uguale alla Harteros: soprani lirico-leggeri nei ruoli Stolz. Al di là delle pause malaccorte che hanno spezzato il fiato nel «Non pianger mia compagna», la voce suona piccola, indietro negli acuti, falsettante e mal risolta nel grave: un'Elisabetta generica, in tutto mancante di regalità e nobile sentimento. Insufficiente anche la Eboli della Monzon: le agilità del velo appena accennate, che si perdono nell'etere, e una caratura vocale e interpretativa lontana mille miglia dalle ragioni del personaggio. Assolutamente acerbo il Rodrigo di Piazzola, dotato però di un mezzo molto gradevole, adatto al teatro donizettiano (al grande ruolo verdiano dopo ben altra maturazione). Se passa la prima aria, accade diversamente per la scena del carcere: chiudere in un sol fiato l'incipit di «Per me giunto» è velleità se poi l'intonazione cede nel corso del brano. Insufficiente anche la partita a scacchi tra trono e altare più per un Grande Inquisitore di accenti prossimi alla caricatura che per Filippo II (Pertusi in sostituzione di Furlanetto): un ruolo che il basso avrebbe fatto meglio a non iscrivere nel proprio repertorio tanto la lettura è caricata da intenzioni espressive che, per sopperire ad uno spessore sconosciuto al mezzo, finiscono per ricordare, invece del monarca spagnolo, certe tirate fra il serio ed il faceto messe in bocca al più celebre personaggio di Cervantes.
Con mezzi poveri da spettacolo d'importazione (fatto ignoto ai Don Carlo scaligeri), quello di Stein alterna momenti gradevoli ad altri francamente ordinari. Alcune soluzioni rischiaranti, come la parata di dignitari dell'impero, non riescono a mascherare che il calligrafismo didascalico dei costumi (di buona fattura) sia convocato a sopperire al vuoto di idee: manca, infatti, a questo contributo registico una marca precisa essendo, nei luoghi riusciti, poco più che mestiere (sulla scena, però, non si risolve la fuga di Carlo con Eboli). Lasciandosi prendere la mano dall'esotismo (la passerella di stoffe nei giardini della regina che è di effetto pregevole), Stein adorna il gabinetto del re con azulejos fra i quali Elisabetta, in morbida vestaglia arabescata, offre movenze da tragédienne dissoluta in stile fin de siècle. Un anacronismo che stride non poco con l'ambientazione. 

 

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