mercoledì 26 giugno 2013

"Die Walküre" alla Scala

"Die Walküre" compromessa ieri sera dall'indisposizione di René Pape che soccombe al ruolo nell'atto secondo prima di annunciarsi indisposto ed affrontare il terzo. Ma, a prescindere dall'evenienza - come già dimostrato altrove - spessore e scrittura baritonaleggiante sconsigliano al divo di frequentare il Wotan della prima giornata: meglio attenersi a König Heinrich e a König Marke (fu davvero notevole a Berlino). Salutato da trascinanti approvazioni è stato l'atto primo, il gioiello della serata. Presto l'orchestra avvolge il tema d'amore di Siegmund e Sieglinde nel caldo amalgama di violoncelli e legni, con un'umanità affettuosa e che profuma di speranza: io, così, l'ho ascoltato suonare poche volte. O' Neill possiede uno strumento ragguardevole che esibisce tanto in accenti perentori, quanto nella capacità di flettersi, anche con morbidezza: il sol di "Wälse!" è tenuto con spavalda generosità. Sono cose che "fanno palcoscenico" come ricordava spesso un mio amico; e aveva ragione, specie guardando ad oggi, in un'epoca nella quale la musica pare diventata la colonna sonora del teatro di regia. La Meier amministra le proprie attuali risorse con una sapienza invidiabile: al risparmio sul canto vivace nel racconto della spada per affrontare con slancio la risposta al "Lenzeslied" e poi la ripresa della musica del giubilo, per trascinarci in un finale davvero memorabile che fa scoppiare il teatro. 
Divide con loro lo spazio della scena Hunding/Petrenko prossimo alla caricatura del ruolo: uno sgherro in giustacuore antracite che si presenta in scena per vociare e parlare, come sanno fare solo certi Pizarro di provincia tedesca. Irricevibile. La Gubanova è invece una Fricka autorevole; il suo canto è penetrante e solo un po' sfuocato nei gravi. Il confronto con Wotan è disturbato da una regia che - dopo essersi rivelata inutile - diventa nociva: una sfera luminosa volteggia a mezz'aria cigolando su se stessa sino ad arrestarsi alla cosmica enunciazione di "das Ende", che per gli spettatori è solo un liberatorio "endlich". 
Delude molto invece la "Todes-Verkündigung". Il maestro la colora con le venature di un marmo sepolcrale affidato agli ottoni che sfilano sull'agogica dell'evocazione di una trenodia. Sono sonorità preziose, è vero; ma l'intenzione di trasformarle in materia drammatica non coglie nel segno. Proprio qui, infatti, per assecondare il passo del direttore, O' Neill e la Theorin sono costretti ad insistere sul centro; ed ecco i suoni chiocci ed ecco quelli in bocca, tallone d'Achille dei due artisti. La partita a scacchi apparecchiata da Wagner è costretta a lasciar evaporare la temperatura drammatica perché per sostenere l'incedere della bacchetta bisognerebbe disporre di altre risorse (temo, straordinarie per chiunque), fraseggiando al centro da supereroi. Il blackout si conclude solo quando il veleno dei motivi dell'amore è nuovamente in circolo. Nell'atto terzo, invece, le volute degli archi nella disperata richiesta della valchiria, col loro gesto inquieto di violini e violoncelli in ottave, sono una vera meraviglia; vorrei poterle riascoltare proprio adesso. Ma tutto, qui, dal principio, riceve in orchestra una messa in valore, a cominciare dai legni, così sensibili nel rivelare con accenti commossi il turbamento profondo del padre. Il Leitmotiv dell'amore compassionevole si colora di trasparenze e respira con un lirismo di ampia cavata, quella che si deve chiedere ad un'orchestra wagneriana (ottimi soprattutto i tromboni); e l'incantesimo del fuoco non rinuncia allo sfavillio dello strumentale ma - è sempre stato così con Barenboim - viene adombrato dall'interrogativo del Fato. Con un Wotan in buona forma, anche il terzo atto avrebbe riservato, almeno in parte, le suggestioni del primo.

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