lunedì 26 novembre 2018

L'albero dei frutti selvatici





«L'uomo deve farsi filtrare dal tempo». Sono spesso fitti i dialoghi dei film di Ceylan: di citazioni e di rimandi letterari più o meno riconoscibili: questa volta, insieme all'amato Dostoevskij, anche Nietzsche in mezzo ad una piccola pattuglia di scrittori turchi. Con quella frase sul tempo Idris Karasu, padre di Sinan che è protagonista di Ahlat Agaci (in italiano il pero è L'albero dei frutti selvatici), quasi congeda il figlio durante il loro ultimo incontro. Noi potremmo usarla per sintetizzare il cinema del regista turco, soprattutto quello degli suoi ultimi due lunghi film: C'era una volta in Anatolia e Il regno d'inverno
È nell'incedere lento, talvolta persino estenuato del racconto, che i personaggi di Ceylan fermentano sotto l'occhio dello spettatore al quale si domanda nel corso della proiezione di aderire passo passo al ritmo reale dell'azione. Questa volta però, l'andatura appare più nervosa del solito, anche a costo d'incorrere in qualche errore di continuità nel montaggio; ad esempio, nel colloquio che conduce verso il porto il giovane aspirante scrittore e l'autore più affermato della regione. 
Non mancano, anche in questo nuovo film, scarti narrativi che fanno virare all'onirico - tutti molto appropriati - perché i tributi a Tarkovskij sono un altro tratto distintivo del cinema di Ceylan pure nel rapporto col paesaggio. 
Non è difficile riconoscere che nell'Albero dei frutti selvatici, rispetto al rigore che costruiva i due film immediatamente precedenti, si scorge un po' di maniera laddove la sceneggiatura non aderisce perfettamente alla mise-en-scène. Ma questo non intacca del tutto la forza del racconto che è avvitato attorno un protagonista davvero assoluto, pure se confrontiamo la sua alla centralità di Aydin nel Regno d'inverno. Qui è un giovane scrittore al suo primo libro, diviso fra un futuro che non si promette luminoso e un presente che aderisce in tutto e per tutto alla Turchia di provincia di questi anni; quelli che Ceylan racconta con mano umana e implacabile. I suoi frutti, i suoi personaggi, non sono né gradevoli all'aspetto né conformi alle aspettative generali; proprio come quelli che nascono in una terra brulla dalla quale è difficile cavare l'acqua. Così è il padre e così è il figlio, che nonostante tutto però - a differenza di chi si è già arreso - continuano a scavare nel pozzo, a smuovere i massi, per trovare l'acqua che è ragione di vita.
Il corpo filmico massiccio da ragazzone rancoroso e indolente con mascella disallineata a trattenere un moto di rabbia o una parola sgarbata è quello di Dogu Demirkol (Sinan), che cattura lo schermo anche nei silenzi. Nella sezione aurea del film chi conosce il cinema del regista ritroverà un altro imam ceylaniano: qui, in provincia, protegge il proprio cinismo rassegnato come fa con la sua nuova e fiammante motocicletta.

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