giovedì 5 luglio 2018

The Killing of a Sacred Deer





Ci sono film che possiedono una necessarietà propria dell’epoca in cui vengono realizzati. Credo che The Killing of a Sacred Deer, fatica di Yorgos Lanthimos premiata a Cannes 2017 con la Palma d’Oro per la Miglior sceneggiatura e distribuita con grave ritardo in Italia (Il sacrificio del cervo sacro), appartenga a questa categoria.
Ineludibilità, quella del film, che sta nell’aver catturato e messo in metafora – non per mascherarlo ma per portarlo in superficie con nitidezza sfolgorante – il silenzioso tesoro del clima generale, anche frutto di lacerazioni ed inquietudini profonde; quelle che il film di Lanthimos saprà, credo, restituire pure nel tempo a venire.
Lo strumento adottato dal regista greco per compiere l’emersione delle ancore dello spirito del tempo è quello del mito. E non bisogna farsi depistare da giornalistici omaggi a Kubrick o forse ad Haneke, dal momento che gli autori – quelli capaci di contenuti veri, come Lanthimos – dialogano senza bisogno di omaggiarsi a distanza, magari a favore di lancio pubblicitario, definendo piuttosto la loro come un’identità che si fa sempre più marcata e al contempo prospettica.
Chi ha visto, infatti, Kynodontas (2009), Alpeis (2011) e The Lobster (2015) riconoscerà per prima la recitazione distaccata e asettica di certe finzioni familiari, impenetrabile fino ai punti di rottura in cui precipita il dramma. E poi individuerà nel plot la struttura del mito antico: era, nel primo lungometraggio, quello della caverna platonica abitata dal microcosmo familiare quale assurdo paradigma realistico dell’isolamento e della misantropia contemporanee; un modello che in Alpeis diventa simulacro che tutela dall’urto di un dolore vissuto senza epica, senza promesse. E poi, nel penultimo lavoro di Lanthimos, l’oggetto era il paradigma imperante della coercizione all’uniformità, mediata da regole che stabiliscono la misura dell’affiatamento individuale alle stesse.
Ecco un inciso. Si può leggere anche come un’autocitazione ispirata da Alpeis il film preferito da riguardare in TV come mediazione fra il protagonista Steven Murphy e la memoria di un morto (il padre di Martin, antagonista di Steven); questa volta il film è Groundhog Day – Ricomincio da capo (Harold Ramis, 1993).
Si tratta adesso di una mediazione che in mancanza d’altro, impossibile a trovarsi, si gioca nei termini di una tacita negoziazione per nascondere alla spettatore una verità fondamentale che affiora nel prosieguo del film: il cardiologo Steven Murphy, che abita una bella casa nei quartieri alti insieme alla moglie Anna e ai figli Kim e Bob, ha bevuto due bicchieri di troppo proprio prima di operare il padre del sedicenne Martin che è morto sotto i ferri.
Martin e Steven s’incontrano abitualmente in una tavola calda, poi in un bar. Il ragazzo, come un fantasma, pare quasi onnipresente e basta uno squillo del cellulare per chiamare a rapporto il dottore dal quale lo distanzierebbe tutto, a cominciare dall’età e dallo stato sociale. Un orologio di marca regalato a lui da Steven e un invito a casa per conoscere moglie e figli (poi ricambiato per frequentare la madre dell’orfano) sono situazioni rappresentate con tocco di realismo estraniante ed humor nero molto lanthimosiani.
Non ci sono aule di tribunale in The Killing of a Sacred Deer; non esiste luogo per la mediazione del conflitto. E non sappiamo se esisterebbero nella storia che non vediamo rappresentata: il rimpallo di responsabilità a distanza tra chirurgo ed anestesista è una prova. Ma la sproporzione delle parti in causa (un affermato cardiologo e un sedicenne orfano di padre) lascia suggerire che la mediazione sarebbe comunque inutile ai fini della giustizia. E, del resto, di quale giustizia?
Ora e qui le regole del consorzio umano non valgono più, perché tutto si gioca sul piano strettamente etico allo scopo di castigare l’atto di υβριστής compiuto dal dottore, spinto involontariamente ma dalla propria indole a commettere un omicidio che richiede contrappasso adeguato o, come spiega il giovane che Steven ha rapito, malmenato e portato in casa propria, «quanto di più vicino mi sembra possa esserci al senso di giustizia». La soluzione, la καταστροφή, sarà allora il più arcaico dei sacrifici umani: quello dell’uccisione da parte di Steven di un proprio congiunto.
I rimandi ad Ifigenia sono esplicitati tanto nei dialoghi quanto, più in generale, attraverso interrogativi etici che appartengono anzitutto al mondo greco antico. Bob, il figlio di Steven che per primo subisce lenta punizione, si trascina sul pavimento della grande casa (i luoghi claustrofobici di Lanthimos) sotto lo sguardo di Aristotele, riprodotto in stampa con le fattezze che Raffaello gli ha dato nelle Stanze Vaticane. Torna in mente la definizione aristotelica di giustizia commutativa o regolatrice che fa perno sul concetto di uguaglianza tra individui, nella misura in cui tende a riparare i danni subiti indipendentemente dalle differenze fra gli individui stessi. Di questa giustizia, forzandone il senso, Martin si fa insieme parte lesa e giudice ritenendo di dover sottrarre a colui che si è avvantaggiato con iniquità per dare a chi ha perso, privando così Steven che appariva in netto vantaggio. Differenza che si manifesta per prima, a chi guarda, è anzitutto quella di condizioni sociali; un tema che è assai ben profilato nel film attraverso molteplici particolari e che permane come prepotente suono di sottofondo quasi appartenesse alla raffinata colonna sonora d’imprestiti ligetiani.
Nulla può il dottor Steven, violato nella sua comoda e ordinata esistenza, contro il grossolano e profetico Martin. E nulla egli può nello scorrere del tempo contro il male che – tocco di assurdo realistico, incomprensibile alla scienza medica – si abbatte sui propri figli: prima Bob, poi Kim in attesa di colpire la moglie Anne.
Se il film gravitasse in una dimensione psicologica o esistenzialistica, Martin sarebbe proiezione in carne ed ossa delle più remote contrizioni del dottore omicida: ossimoro che già di per se stesso si presta al senso più autentico ed irrisolvibile della dimensione tragica. Qui però tutto appartiene alla materia fragile, sanguinolenta ed enigmatica come il cuore che pulsa nell’indimenticabile prima sequenza del film, scaldata dallo Stabat Mater schubertiano. Una materia, anche quella filmica, che si dibatte e consuma a tappe forzate, inesorabili. L’espiazione della colpa chiama il sacrificio e per soccorrerci non giunge deus ex machina.

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