venerdì 18 settembre 2015

Il mondo anelante dei profani e L'elisir dei nonluoghi

«Il mondo anelante dei profani». Un vecchio cinegiornale che annuncia la morte di Arturo Toscanini qualifica con questa espressione - certo, per le orecchie di alcuni non priva di retorica - gli ascoltatori di musica rattristati per la scomparsa del Maestrissimo: siano essi profani, appunto, o «iniziati». 
La metafora del tempio musicale (sono ben più di uno) è arcinota. Cosa distingue il tempio musicale, ed i riti che vi si consumano, rispetto alla piazza? Diversi fattori ed anzitutto il raccoglimento, la concentrazione imposta all'uditorio: quella che, anche in Italia, almeno dagli anni '30 dell'800, è il presupposto domandato a chi fruisce di uno spettacolo d'opera lirica, riconosciuto - o almeno così si è creduto per lungo tempo, nulla è definitivo - fra le massime espressioni dell'umanesimo occidentale e, in quanto forma d'arte, portatore di verità: di verità attraverso la bellezza, quella la cui essenza è possibile cogliere grazie a un po' di dilettevole sforzo.
Il capovolgimento intorno al quale il presente ci invita a riflettere (L'elisir d'amore proposto all'aereoporto di Malpensa) si colloca in un orizzonte che merita di essere indagato ben al di là dell'opinione spiccia e della nota di costume: è un fatto (musicale senz'altro) che invita a riconoscere quanto il mezzo (un invito all'opera) si proponga di emulare molto da vicino il fine stesso (la visione in teatro, anche se lo spettacolo è proposto in diretta televisiva).
In parole povere, l'idea è questa: se la gente va meno a teatro - come dimostrato dal risultato deludente delle serate alla Scala negli ultimi mesi - il teatro vada dalla gente per convincerla a recarsi nel luogo in cui la musica si manifesta compiutamente: il palcoscenico dell'opera.
Ben oltre la sobria brochure distribuita per comunicare il contenuto del cartellone, è il mezzo stesso a farsi spettacolo, insomma; a farsi 'evento' cui si assiste anche in televisione, gratis o quasi. 
La questione economica è tutt'altro che secondaria, soprattutto quando si ricorda che l'oggetto del contendere è una forma d'arte nata nel '600 per la nobiltà ma ben presto fatta propria dalla borghesia e messa così sul mercato; una forma di spettacolo che ha accompagnato l'evoluzione di questa classe sociale nel lungo corso della sua storia, attraverso rivoluzioni e mutamenti anche profondissimi. Sino ad oggi, quando di fronte a noi, almeno in Occidente, troviamo una società che non è diffcile qualificare come compiutamente post-borghese.
Se l'operazione scaligera riuscirà (il termine è mutato dal vocabolario scientifico e chirurgico dal momento che, in questi frangenti, la qualità artistica è fattore assolutamente trascurabile), L'elisir d'amore a Malpensa attrarrà nuovo pubblico a teatro. Il pubblico, nuovo o vecchio che sia, dovrebbe dunque essere allettato attraverso la visione di un prodotto (questa volta il lessico è commerciale) scelto come più prossimo possibile ad un'estetica pop. Si investe così su di un fatto artistico, sdrammatizzato e gioiosamente dissacrante, tuffato in un nonluogo che, per dirla con Marc Augé, è altamente rappresentativo della nostra epoca, caratterizzata da assoluta precarietà: epoca del passaggio, del transito, dell'individualismo solitario di chi si muove fra architetture destinate all'utente medio, senza distinzioni. 
Dal «mondo anelante dei profani» che aspirano ad accedere al ruolo di «iniziati» del tempio musicale si è passati a rivolgersi, con determinazione, ad un pubblico estemporaneo, di passanti che transitano in un nonluogo, appunto; ai quali si domanda, se non l'attenzione televisiva, almeno quella dell'itinerante. È una considerazione sincera che non deve essere necessariamente salutata con la celebre locuzione ciceroniana (O tempora, o mores!). Si tratta, infatti, di un riconoscimento che possiede una valenza storica; è un dato da accettare, non certo passivamente, ma da individuare come tale. 
E qui rientra in gioco, mai dimenticata, la questione economica: lecito domandarsi se operazioni musicali di questa natura (come anche, per certi versi, l'opera live al cinema) saranno in grado di persuadere l'utente medio (o, meglio, un numero sufficiente di utenti medi) non già che il luogo nel quale il fatto musicale si manifesta compiutamente sia il teatro, ma che tale epifania valga il prezzo del biglietto. Il quale resta complessivamente caro e che, anche al fine di garantire un congruo numero di recite, è difficile rendere più conveniente data la diminuzione sostanziale del contributo elargito dallo Stato.
Qualunque osservazione in merito non deve prescindere dal fatto che il mezzo influisce sempre sulla sostanza, quando addirittura non la determini. E a quei mezzi generosissimi offerti oggi (gratuitamente) dall'audio-visivo mi affido per concludere questo scritto.


 


 

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