domenica 23 marzo 2014

Her

I film importanti sedimentano nella nostra mente. A distanza di un settimana dalla visione di "Her" (in lingua originale, of course), mi è rimasta nitida l'impressione di un'opera che, tra le molte qualità, possiede quella di essere inodore, illuminata dalle luci familiari di laptop e LED. È inodore laddove, invece, questo senso è continuamente stimolato nel cinema all'epoca del 3D. Qui la terza dimensione è guadagnata altrove, in uno scavo sorprendente e doloroso della propria coscienza, modellata passo passo attorno alla propria, individuale personalità; quella del protagonista, certo. Ma è un'indagine che chiama all'appello ogni spettatore, al punto che la sola sequenza di un amplesso (a tre) - sudato e fonte d'imbarazzo - è percepita come disturbante nella ricerca del sé nell'altro. La coscienza è proprio questo. Quello di Spike Jonze è un appello alla visione senz'ombra di giudizio, che per essere compreso veramente ha bisogno di un'adesione prossima a quella di scrittore e regista; ed è quindi totalizzante. Ho ritrovato qui il regista che ho amato in "Essere John Malkovich". Anche questo è il racconto di mille perdite e altrettanti smarrimenti nell'altro; un itinerario di crescita e dolore. Non è davvero questa l'analisi di un disturbo psichico 2.0, quanto piuttosto un percorso di rivelazione da compiere insieme al protagonista Theodore Twombly che, come il burattinaio Craig Schwartz, fa il mestiere di creatore: ogni lettera trattiene parte di ciascuno di noi, chiunque sia l'autore; anche questo è il racconto di una storia e di tante altre; il racconto di tante perdite e rinascite. Scrivere è piangere e amare per tutti gli altri, come fanno i poeti. Non conosco altro modo di girare oggi un film che sia genuinamente sentimentale, nella più alta accezione del termine.

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