giovedì 11 ottobre 2018

Montserrat Caballé (1933 - 2018)

Qui gli ascolti che, a mio avviso, raccontano meglio di altri l’arte di Montserrat Caballé e che sono un poco trascurati in questa occasione luttuosa. L’arte della Caballé, certo, e in primo luogo il suono della sua voce. Perché quello era - il suono - e non genericamente “la voce” ad arrivare all’orecchio durante l’ascolto dal vivo con morbidezza e facilità straordinaria (ho fatto in tempo, anche se negli anni del declino).
La voce è mezzo che si apparenta troppo immediatamente alla fisicità (la Caballé era campionessa anche di questa). Poi, magari, la voce si apparenta pure alla fibra e là si commette errore. Bisogna, specialmente per un’artista come la Caballé, parlare allora in primo luogo di suono e di come arrivava in teatro. Suono, infatti, è parola che rimanda alla dimensione squisitamente musicale del mezzo. Qualità sonora del soprano catalano che la associa, fra quelli della sua generazione, a Pavarotti come si sente in quel postatissimo video dal vivo della Bohème del ‘76 al Met. Video e audio amatoriale, certo. Ma se è mortificante sul piano della profondità dell’ascolto (mono) - o forse proprio in virtù di questo - offre testimonianza ai nuovi spettatori di cosa siano i suoni che arrivano facili e rotondi. 
Anche la Caballé, con Callas e Sutherland, si contava tra le ammiratrici di Magda Olivero. Una volta il soprano catalano dichiarò: «È il mio mito; quando decisi di cantare “Adriana Lecouvreur” mi sforzai di accostarmi il più possibile al suo modello, ma sono rimasta solo una brutta copia». Immagino che facesse seguire a questa frase una delle sue contagiose risate.
Se dovessi scegliere una sola interpretazione della Caballé da portare sull’isola deserta ne avrei diverse a disposizione. La sua Giovanna d’Arco, forse? Oppure Fiordiligi? Luisa Miller? Sono certo che uno spazio in valigia lo pretenderei per Margherita (Mefistofele). Almeno per la romanza dell’atto terzo si troverà posto nella tasca laterale!
La Caballé è stata anche Elena, certo: nobilissima eppure languorosa. Ma è stata ancor più memorabile nel ruolo della protagonista. E se la Lecouvreur della Olivero servì da modello alla Caballé, sarebbe assai difficile escludere - una volta fatto il raffronto - che lo sia stata pure per l’opera di Boito.
La Caballé, infatti, segue e approfondisce, fedele alle natura belcantistica, la linea tracciata dalla Olivero: sfruttamento delle risorse più pure del canto per far guadagnare alla pagina una drammaticità tanto raggelata quanto dirompente.
La Olivero, dal vivo, canta la romanza col potere evocativo di un fraseggio capace di farci sentire sulla pelle pure la temperatura dell’«aura fredda». E poi il volo inquieto del passero, smarrito nel bosco per mimare un tormento che è instabilità nevrotica e che, nella scaltrita e sorvegliatissima linea di canto, pretende col crescendo emotivo un’apice (anche focus del proscenio) che è la prodigiosa messa di voce sul Si naturale nella cadenza del secondo couplet.
Se nell’esecuzione dal vivo che si trova in rete (1987) la Caballé concede davvero troppo all’effetto (io direi effettaccio) che chiama l’applauso, in studio (1974) canta con patetismo trattenuto ed orrorifico in proporzione diversa ma altrettanto efficace rispetto alla Olivero. Trova la sua Margherita il filtro rassicurante della follia; quello che chi subisce uno squilibrio mentale adotta per affrontare la realtà. Ed ecco allora il rifugio nella mimesi di un volo musicale che suona rischiarante, fluido, per
culminare due volte in trillo immacolato. Un canto che altrove, sempre con studiata accortezza, si disincanta per brevi ed inquietanti momenti («anima mia»), ricorrendo anche a colpi di glottide che restano in una linea sorvegliatissima eppure estremamente mobile, equilibrio perfetto di pathos e melanconia. 


 
 
 

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