giovedì 1 febbraio 2018

Stracciari e Amato / I due Foscari

Quanto emozionano questi dogi che hanno più di cent'anni!
Stracciari è Foscari oppresso da un dolore sordo ed incurabile; trovata la via dell'espressione magniloquente, certo, quella che si conviene al capo di Stato. Eppure, al tempo stesso, il suo è un tormento percosso da autentici spasimi del cuore. Ascoltate quando apre "come a prim'anni in sEno" per tornare poi subito a chiudere il suono ("fossi tu") per auspicare un cuore "freddo almeno". È questa, sapientemente preparata, l'epitome di una sconfitta inappellabile alla quale resta un solo pungente rimpianto: non poter ancora cessare di soffrirsi. Acquista così pieno senso drammatico la sezione cantabile che segue ("Ma cor di padre sei") fraseggiata con ampleur e animata tanto da dinamiche sorvegliate per merito di un'amministrazione suprema del mezzo quanto da un legato che, proprio grazie a questo ascolto, potrebbe considerarsi fra i paradigmi del termine.
Per finire, ecco il grande tour de force dell'atto terzo. Qui Amato possiede intera la caratura del baritono aulico che si esprime caldo e trepidante attraverso accenti severi: quelli impiegati per tratteggiare tanto il doge quanto il padre ("A me padre un figliolo innocente"). E giustamente, perché è il Consiglio ad averlo strappato all'amore filiale così come ora pretende di fare con un "serto" che chiama - quello sì - la parola di svolta, "onore", consegnando l'apostrofe di Foscari alla temperatura di un nuovo clima. Adesso l'afflizione malinconica del protagonista, raggiunta attraverso il velluto e la morbidezza del canto, guadagna altre inflessioni di nobile pateticità; anni luce da qualunque sbraco veristico e sempre sorprendente quanto a squillo. 



 

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