giovedì 9 giugno 2016

The Neon Demon

Ma non biosgna sottovalutare la potenza dell'osceno, la sua potenza di sterminio di ogni ambiguità e di ogni seduzione per lasciarci in balia della fascinazione definitiva dei corpi senza volto, dei volti senza occhi, degli occhi senza sguardi. Ma forse questo già ci attira: un universo perfettamente estatico e osceno di oggetti puri, trasparenti gli uni agli altri, e che si fracasseranno gli uni sugli altri, come puri nuclei di verità. 

(Jean Baudrillard, Le strategie fatali, SE, Milano 2007, p. 57)



Per alcuni aspetti The Neon Demon rimanda a Fear X ma è sul piano puramente qualitativo che il nuovo film di Refn rappresenta un passo indietro nella carriera del regista, specie se si prende in considerazione quale equilibrio perfetto tra immagine e scrittura (e capacità di eludere ogni prevedibilità attraverso scarti narrativi) si apprezza in Bronson, Drive e in Only God Forgives.
Qui mal consigliato nel lavoro alla sceneggiatura, Refn non ha raggiunto, insomma, quella nitidezza di idee e quindi quell'esattezza del rapporto fra tempi e contenuto che è prerogativa del grande cinema; per il respiro imposto alla narrazione, senza una sintassi che sia di ferro, 110 minuti appaiono davvero troppi (sino ad ora è il film più lungo del regista).
L'errore piuttosto sorprendente, forse il solo davvero importante ma capace di provocare al centro del film una torsione dalla quale il lavoro si riprende solo andando verso la conclusione, sta nella scelta di Keanu Reeves per il ruolo di Hank: un attore-icona che, anche se apparisse in solo due fotogrammi, riempirebbe di sé lo schermo per un quarto d'ora. Avrebbe quindi meritato la parte del fotografo, atteso e conteso da ogni modella, aggiungendo così un carico sulla bilancia dei segni del potere e del desiderio ben più sostanzioso rispetto a quello che ha apportato la presenza di Harrington.
Del resto s'impone meglio all'attenzione dello spettatore una voce inquisitoria che sentenzia da dietro la grata del portierato che un Reeves ripreso più per dovere che per necessità drammatica durante il colloquio con Dean (Karl Glusman) sul quale invece, a ragione, continua ad indugiare la mdp; e dire che in Only God Forgives per schizzare i tratti dello stupratore di minorenni (tale Hank come Billy) bastano il viso e le inquadrature giuste - pochissime ma insostituibili - che danno abbrivio all'intera vicenda. Come pure sono sufficienti in The Neon Demon le urla che Jesse ascolta nella stanza accanto alla propria in una delle sequenze meglio montate del film: la dissolvenza su un'immagine rarefatta e al tempo stesso capace di evocare suggestioni primordiali, ottenuta con un gesto plastico sulla silhouette accesa attraverso le foglie disegnate sulla carta da parati.  
Terminata la proiezione, ben più che il disegno generale, si trattengono con sé momenti dell'azione inscritti nella rigogliosa, raggelante fotografia della Braier e, al tempo stesso, capaci di essere cinema: l'apice della festa che è video-istallazione ed epifania per la protagonista, l'apparizione del felino nella stanza del motel, la sfilata di moda sostituita con la contemplazione solipsistica di Jesse che inventa altre se stessa nella rifrazione prismatica delle geometrie di un flash, le sequenze tanatoprassiche, quelle necrofiliache e poi il cannibalismo. 
L'attrazione materica muove fra loro i corpi del film, che sussistono solo in quanto corrispondenti al desiderio di chi guarda. Sono presenze che si accendono e spengono come fa la luce e che cessano di essere quando questa non è più chiamata a rifletterne il senso, a darne ragione. Una relazione che per Refn ha molto a che vedere con la morte, qui scavalcata dal desiderio della truccatrice Ruby: possedere quello che non si dà nella realtà, laddove l'altro, nemico al proprio piacere, si nega. Corpi vivi e già morti a se stessi, dunque, da disperdere e adorare nella luminescenza di un flash, chiamati a cavalcare l'onda fragile del desiderio, a vivere la frazione di un secondo nella quale lo scatto illumina e spegne. 
Se spetta ancora una volta a Cliff Martinez intessere una fitta maglia sonora - talmente suggestiva da soffrire solo laddove è il racconto a manifestare abrasioni - il cercare rimandi cinematografici è gioco facile in un soggetto come questo; con una vertigine, si può andare da Blow-Up a La morte ti fa bella, da Crash a The Canyons che dimora nello stesso ventre piatto e sanguinante della città degli angeli. Eppure, ed è un merito, restano salienti i tratti del linguaggio di Refn. A differenza del cinema di Lynch, ad esempio, qui non si assiste ad uno svuotamento della tensione teleologica perché la narrazione del regista danese, negli esiti più felici, continua a trarre alimento dall'orizzonte finalistico della trama; ed è anche per questa ragione che un'accorta disposizione degli elementi in gioco dovrebbe apparire ineludibile.  

                                                                      



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