lunedì 23 maggio 2016

Al di là delle montagne





Essere nel presente immaginando il futuro nella relazione col passato, specie con quello prossimo, è certo la qualità più esaltante del nuovo film di Jia Zhangke; un lavoro profondamente immerso nel dibattito di oggi, che ruota attorno alle identità e al loro smarrimento nell'orizzonte mondializzato.  
Il vuoto prodotto dall'esodo; la tradizione intesa come identità, e quindi come umanità interrotta. Non c'è forse luogo più adatto per provocare queste dimensioni se non la Cina, e una delle sue tante - future o presenti - estensioni.  
Colpisce in Al di là delle montagne una frase pronunciata dall'insegnante di Dollar: «Il tempo non cancella tutto. Questo mi ha insegnato il tempo». È un richiamo alla dimensione del limite, in questo caso di quello temporale (lo spazio di un'esistenza, col proprio vissuto di ricordi, traumi), laddove le barriere territoriali parrebbero non rappresentare più un ostacolo. E poi la libertà, il cui concetto è sempre relativo, come - con un paradosso - ci ricorda Zhang: la libertà, intesa come facoltà di acquistare armi in Australia anche se non si ha nessuno a cui sparare, confrontata con la difficoltà di reperire una pistola in Cina, laddove il personaggio ha lasciato i propri nemici. Ma sono anche altre le suggestioni che provengono dal film, a cominciare da quelle declinate dal tema della madre (che, nell'ultima parte, si colora con più di una sfumatura incestuosa), a quelle che ruotano attorno al tema dell'emigrazione e del capitale; quest'ultimo sviluppato a partire dalla sua radice più profonda, e cioè da una prevaricazione sul sentimento.
Raccontare una mutazione e spingersi ad immaginare un futuro estremamente prossimo (2025) che ha tanto in comune col presente: paiono questi, al di là della contaminazione fra fiction e documentario, tra tecnica digitale ed immagine 'sporca', i punti di forza del nuovo film di Jia Zhangke. 
Dopo la visione si trattiene con sé lo sguardo smarrito di Tao, la fragilità di un'umanità assorbita nelle metamorfosi capitaliste, sottomessa a volontà che pare trascenderla. È anche uno smarrimento delle emozioni: soltanto la presa di coscienza e lo sguardo critico del regista possono provocare nello spettatore una volontà di riscatto.

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