sabato 17 ottobre 2015

"Falstaff" alla Scala


 



Ieri sera mi sono unito al pubblico del fuori abbonamento per la recita di Falstaff alla Scala: un appuntamento musicale che, tacendo del luogo in cui si è svolto, non è difficile immaginare concepito per un uditorio di neofiti, sorridenti alle gag del gustoso spettacolo firmato da Robert Carsen già proposto altra volta e che - con qualche mossetta di troppo - rimane di sicuro impatto teatrale.
L'ultimo capolavoro operistico di Verdi è
titolo la cui storia interpretativa risulta tra le più lineari da seguire. È sempre affascinante ritracciarla (ma questa non è la sede) ed è indispensabile conoscere a qual punto i tratti che in maniera anche antitetica sono stati messi in valore dai massimi interpreti trovino ragione nelle peculiarità musicali e letterarie dell'opera verdiana. Per fare questo bisogna cominciare dai direttori d'orchestra ai quali spetta il compito di saldare palcoscenico e buca, parola e suono, azione e narrazione, in un unico ma duttile e variegato respiro musicale, leggendo una partitura che è frutto di un lavoro di genio perché fondato su una sapientissima mescolanza di generi e registri: quelli che trovano origine nella fusione di commedia e dramma inventata dal librettista, alle prese con un eroe comico che si contempla 'dal di dentro' ed è vestito di frasi affidate (in Shakespeare) ad altri personaggi grazie ad un raffinato gioco letterario vivificato dalla spigliatissima drammaturgia del libretto, quella che invita Verdi a mutare incessantemente passo e colori. E che lo sprona ad un penetrante impiego della metateatralità, oltre che all'uso di sapide autocitazioni. 

Insomma, ogni volta che ci si trova davanti Falstaff, si è in presenza di un testo la cui straordinaria ricchezza è paragonabile a certi volumi antichi le cui glosse, redatte allo scopo di illuminare il senso dei particolari, sono linfa per il lettore. Quest'opera, insomma, - titolo rifuggito dai direttori alle prime armi - dovrebbe continuare ad essere appuntamento al quale si giunge avendo qualcosa d'interessante da aggiungere ad un discorso già lungamente tracciato; perché, se è vero che non tutte le opere del catalogo verdiano hanno ricevuto adeguata attenzione da parte degli interpreti, «i giardini del Decameron» - evocati in una lettera di Boito a Camille Bellaigue nella quale il poeta invitava il critico a godere dell'ultima opera del Maestro - sono stati curati da premurosi agronomi (anche alla Scala, dove l'opera è nata).
Non è necessario disturbare i mammasantissima del '900 ed è sufficiente il confronto con Harding per riconoscere quanto sull'opera le cui trascoloranti atmosfere mutano al passo della vorticosa azione drammatica Daniele Gatti stenda la patina di un suono uniformemente greve, di volume gonfiato e appesantito nel magma degli archi; un suono che laddove cerca il piano si fa perlopiù loffio. Nel paragone col direttore inglese che per ultimo ha affrontato Falstaff alla Scala, valgano a titolo d'esempio le prime pagine dell'atto secondo: laddove Harding stendeva un morbido tappeto sonoro, insieme tenero ed ispirato, ma palpitante al passo della maliziosa situazione drammatica (il colloquio Quickly-Falstaff), quasi non è possibile con Gatti disgiungere quello che precede (la contrizione di Bardolfo e Pistola) da ciò che segue, tanto i toni sono omologati; lo stesso avviene con gli squarci che vedono in scena Fenton e Nannetta. Non sono mancati, del resto, i problemi di concertazione, già rilevati con Don Carlo e La traviata, specie nel trattamento degli ottoni durante la lettura delle lettere (atto primo, parte seconda) e poi anche a chiusura della parte prima dell'atto terzo; meno insoliti, invece, i fuori tempo da «È un ribaldo, un furbo, un ladro». E il direttore non trova tinte avvincenti neppure nelle pagine che dovrebbero toccare maggiormente la sua corda per così dire 'nordica': mi riferisco alla musica della tregenda, tirata via senza pensarci troppo così come avvenuto per il «Quand'ero paggio».
Non ancora giunto alla boa degli anta, mi ritengo fortunato per aver assistito anche alle prove dei Falstaff concertati da Abbado e da Muti: il primo, in particolare, faceva provare i legni e gli ottoni insieme al canto (con moltissima pazienza, mentre gli archi tacevano), ricostruendo così la trama dell'ordito strumentale dalle sue fondamenta che poggiano non certo sul 'ripieno' ma sul contrappunto inteso nell'accezione più autentica: quella di simultaneità melodica. Trine e merletti, insomma, laddove ieri sera si esibiva una tela cerata.
Il cast si avvaleva del professionismo un poco anonimo di Eva Mei, di carriera non scaligera se si eccettuano fugaci apparizioni che risalgono a più di vent'anni fa. Il soprano ha fatto il suo ritorno a Milano esibendo un mezzo che si fatica ad immaginare a proprio agio in una parte poco più 'onerosa' di quella affidata a Miss Alice, specie laddove è richiesto all'interprete di legare (atto terzo, scena prima, e nel duetto con Sir John nell'atto secondo). Sugli altri cantanti è presto detto. Per primo c'è il protagonista dai modi grossier, intento ad esaltare gli aspetti deteriori del canto verista e in questo non diverso dal baritono Cavalletti (Ford). Sono gli stessi atteggiamenti che Muti sorvegliava nel baritono Pons, così come fece poi Harding con Maestri; vige qui, invece, il culto dello sbraco per sfondare il muro dell'orchestra, salendo senza polpa che non sia quella sull'addome e rimpiazzando il mezzoforte con certi cachinni che non sono censurati neppure nel lugubre monologo col quale comincia l'atto terzo, la pagina del «tristo» che impreca a denti stretti contro il mondo intero. Il baritono sarebbe stato lo stesso Falstaff, guidato da altra bacchetta? Se Pistola e Bardolfo sono parsi disinteressati a conferire un'identità interpretativa e cioè musicale a ruoli risolti nel generoso gioco scenico, non altrettanto si può dire del mezzosoprano Lemieux (Quickly) impegnata a sfuggire la parodia della parte alla quale la condannano i suoni tubati. Di rara insipienza è la vocina vetrosa della Liebau (Nannetta) che forma la coppia dei giovani innamorati con il tenore Demuro, in difficoltà a proiettare un mezzo che anche nel Sonetto suona 'indietro' non appena supera il passaggio. 

Nello spazio dell'ascolto, propongo un capitolo essenziale nella storia dell'interpretazione di Falstaff.

 

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