sabato 28 febbraio 2015

"Lucio Silla" alla Scala


L'altra sera, la principale attrattiva di Lucio Silla era rappresentata dal debutto scaligero di Marc Minkowski, protagonista della scena barocca degli ultimi anni.
Ha proposto una lettura mozartiana 'muscolare' che procede più per sovrapposizione di blocchi strumentali - rari gli assottigliamenti e, viceversa, determinanti i rinforzi di suono - piuttosto che per un autentico dialogo ed amalgama tra le sezioni dell'orchestra, nutrita da oltre cinquanta elementi. Conquistando nitidezza nei profili melodici, ma anche scorrevolezza e luminosità generali, Minkowski ha stretto il divenire della narrazione in una pulsione ritmica continua, assai più nervosa che lirica. Con lui il recitativo secco diventa accompagnato per transitare poi all'aria senza interruzione della continuità: una tenuta narrativa incalzante e che rappresenta l'elemento caratteristico di questo Silla (in due parti invece che in tre atti, la prima terminando dopo la grande aria di Giunia: Ah, se il crudel periglio). Forte delle proprie interpretazioni del Gluck riformato, nelle quali il direttore è impegnato a rilevare al massimo grado la compattezza e la tenuta teatrale delle partiture, Minkowski ha ritenuto di poterle esaltare anche in questo titolo mozartiano, nel quale è indubbio che la scrittura orchestrale sia sensibilmente più adatta all'atmosfera drammatica rispetto a quella del Mitridate (a cominciare dai cori e dai recitativi accompagnati): del resto, in assenza dell'ingrediente principale (i cantanti), non si possono certo far delibare al pubblico le delizie della scuola napoletana, i cui influssi furono qui per Mozart ben più determinanti rispetto a quelli coltivati negli anni '60 tra Vienna e Parigi. Là, nel Gluck di Minkowski - penso al suo Orphée et Eurydice (discesa di Orphée agli Inferi), Iphigénie en Tauride (Thoas e chœur des Scythes) e Armide (La Haine) - è tutto un ribollire di vapori sulfurei, di saettanti incisi dei fiati, di strappate e cupi fremiti degli archi. Quei colori troviamo qui evocati nella celebre scena d'ombra e certi rilievi sulla generosa scrittura orchestrale sono marcati, ad esempio, nell'aria di paragone di Celia (Quando sugl'arsi campi) con le onomatopee affidate agli archi. Degna di nota, almeno in orchestra, la scolpitura accentale dei recitativi accompagnati. Al Mozart di Minkowski non è difficile preferire quello di Rousset (Mitridate) e, soprattutto, quello di Antonini in un Ascanio in Alba a suo tempo temerariamente affidato all'Orchestra dell'Accademia del Teatro alla Scala. 



Non siamo in presenza di un cast come quello allineato da Hager (Augér, Varady, Mathis) né tantomeno delle interpreti che hanno fatto la fortuna dell'opera mozartiana a partire dagli anni Venti del '900, anche in disco (Cossotto, Cuberli, Murray, Gruberova). Dimentichiamo subito la rivoluzione del belcanto, quello che rifugge dalle inflessioni del naturalismo per conquistare la dimensione aulica, strumentale del mezzo vocale, nemica del verismo e di ogni riproduzione letterale della realtà. Abbandoniamo ogni idea dell'omogeneità del suono in virtù (non già in difetto) della quale si dovrebbe costruire l'espressione dei sentimenti, sempre e comunque regali anche dove siano provocati da furia o da follia, come si conviene alle creature del teatro classico; così come cancelliamo dalle orecchie i frutti di quella tecnica che sola può costruire il suono puro, astratto e governato senza apparente sforzo; quello che si deve espandere in sala libero nella risonanza e in grado di risolvere ogni più ardito, acrobatico passo dello spartito. 
Qui siamo nell'ambito di quella che oggi s'intende per eloquenza espressiva: a differenza di quanto avviene nel belcanto, insomma, lo sforzo di eseguire arie tanto complesse non è affatto dissimulato, anzi dichiarato. E, proprio in virtù di questa manifestazione, ottiene il plauso di parte del pubblico. A chi ama il canto antico, insomma, quella degli interpreti di questo Lucio Silla apparirà soprattutto una concitazione indisciplinata destinata a stancare col passare dei minuti perché, fondamentalmente, essa si esaurisce in pochi gesti musicali rifuggendo da quella rigogliosa varietà che solo l'impostazione vocale ortodossa può garantire. Pur a scapito della dizione, tale continua sovreccitazione si rivela più appropriata per gli allegro di quanto non valga per gli andante e i largo, nei quali la tenuta della linea del canto appare fatalmente compromessa; penso soprattutto al bellissimo Pupille amate di Cecilio in cui al soprano è richiesto un cantare sfumato; quello della Crebassa è, invece, inconsistente e poco espressivo. Del resto, il centro della sua voce non è affatto sfogato e, anche se meno rispetto a quello di Kalna (Cinna), si ha come l'impressione che l’emissione sia ostruita: salendo, la voce non è affatto piena, spesso indietro e non appoggiata come si deve. Per Cinna si veda in particolare l'ultima aria, De' più superbi il core, tenuta coi denti. Voce essenzialmente monocroma è poi quella Lenneke Ruiten (Giunia): per le agilità ricorre anche al falsetto e gli acuti suonano fibrosi e asprigni. In Fra i pensier più funesti di morte stava male per davvero quella puntatura in guisa di strilletto e come tale è stata salutata da un 'buu' del loggione.
Soppresso il personaggio di Aufidio, un'aria di Celia (Se il labbro timido) ed una di Giunia (Parto, m'affretto) - mantenuto però il recitativo accompagnato che la precede - è stata affidata a Silla (Spicer) un'aria del Bach di Milano (Se al generoso ardire) collocata in posizione non dissimile a quella che impegna Idomeneo nell'ultima scena dell'opera (Torna la pace al core). E davvero di ardire si tratta dal momento che l'interprete, con l'intenzione di legare, produce suoni spoggiati e afoni che, non appena si avvicinano al passaggio, vi battono chiudendosi. Lecito domandarsi come sia possibile, con un tale imposto vocale, essere dediti al canto professionale.
Alla Scala è ancora vivo il ricordo dello spettacolo con la regia di Chéreau. I cantanti hanno agito su indicazioni di Pynkoski in un contesto scenico classicheggiante che avrebbe funzionato meglio se diversamente illuminato; esso restituisce però un quadro visivamente piacevole nella scena della prigione di Cecilio. Si tratta di una regia refrattaria a sollecitare le potenzialità del testo, ma generosa nella gestualità (certo per assecondare il canto di cui sopra) e mossa, però con opportuna discrezione, dal corpo di ballo. Belli i costumi, di taglio un poco più cinematografico che teatrale, indossati dai cantanti che si esibiscono, opportunamente, quasi solo al proscenio.




 

 

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