domenica 5 ottobre 2014

"Messa da Requiem" alla Scala


Venerdì sera, uscendo dalla Scala, terminata l'esecuzione più insignificante della Messa da Requiem di Verdi cui abbia mai assistito, riflettevo intorno all'importanza fondante della dialettica. I pensieri non si spingevano certo sino a rievocare le parole di Aristotele, ma si esercitavano piuttosto intorno alle peculiarità più salienti del capolavoro verdiano che pure dall'abilità di porre in discussione fra loro, con linguaggi polivalenti, le molteplicità di piani e di atteggiamenti narrativi del testo liturgico trae inesauribile forza vitale; e questa è anche la ragione più sincera della natura tanto singolare della partitura nel panorama dei grandi monumenti ottocenteschi della musica sacra. 
Quella della Messa da Requiem è una dialettica fervida che conduce ad un'unità musicale assoluta. Coesione che scaturisce dal contrasto; è la potenza della sintesi. Nella molteplicità dei livelli che strutturano la composizione, infatti, l'espressione della religiosità rituale e rassicurante, manifestata dalla liturgia di testi coordinati allo scopo di suffragare le anime dei defunti, viene letteralmente frantumata da Verdi e presentata come un elemento estraneo alla voce dell'autore (ateo); un compositore che nei testi esalta al grado massimo le paure, le angosce, i terrori e le disperate suppliche intese non più come ingredienti trascendibili della medesima liturgia, ma come sostanze vive ed umanissime di un itinerario emotivo a giusto titolo definito “teatrale”. Ebbene, proprio in questa correlazione tra segmenti di testo illuminati in maniera differente risiedono le scelte dell'autore; e, per estensione, anche quelle dell'interprete, chiamato a farle proprie ma - al tempo stesso - impossibilitato a tacerne la natura contrastante e prismatica. Una natura che, per altro, s'intende superficialmente anche solo sfogliando la partitura, così gravida di segni dinamici e di espressione.
Allo straordinario repertorio di atteggiamenti e sentimenti umani posti di fronte agli interrogativi sulla morte e la sofferenza provocati dal testo della missa pro defunctis cattolica romana è parso voltare le spalle Riccardo Chailly, chiamato a commemorare la scomparsa di un interprete quale Claudio Abbado. Gli esempi sarebbero molti, ma mi limito a rilevarne due. In luogo della tinta inconfondibilmente stregonesca del contrattempo sul Quantus tremor est futurus, troviamo un'orchestra livellata tanto nei colori quanto nell'espressione laddove, anche questa, invece, dovrebbe mantenersi vibrante tra la prima e la terza sezione della Sequenza.
E particolarmente inerte ho trovato la resa di quella straordinaria figurazione musicale che Verdi affida al fagotto per sostenere il canto del mezzosoprano (Quid sum miser tunc dicturus): un profilo melodico che è incarnazione stessa, sul pentagramma, di un anelito assetato che continuamente inciampa cadendo su se stesso per ricominciare a soffrire: Adagio, pp, espressivo. Ma venerdì sera, complice una Elina Garanča d'impassibilità addirittura respingente, era impossibile scaldarsi l'anima proprio in un passo nel quale la soggettività si manifesta più vivida, e in primo piano; ma non è stato da meno il basso Ildebrando D'Arcangelo che, nulla più che corretto, ha ripetuto l'esposizione di Oro supplex et acclinis senza in alcun modo variare l'espressione, già compassata sino all'imperturbabile.
Si vorrebbe affermare che quella di Chailly e del quartetto vocale (completato dal tenore sostituto Matthew Polenzani, di voce essenzialmente bianca e scoperta) sia una lettura formalista, estetizzante, alla ricerca di un'olimpica, cherubiniana solennità; non foss'altro che il risultato è, in realtà, quello di far implodere su se stessa la materia viva di cui pulsa la partitura verdiana e che, come ho ricordato poc'anzi, si alimenta proprio della dialettica tra registri stilistici, in continua tensione tra religiosità topica e tormento soggettivo. In assenza di tutto questo, anche gli equilibri tra sezioni risultano compromessi, perché uniformati: il Lacrymosa giunge con tempo larghissimo ma non sostenuto da adeguata tensione ed il Sanctus, che nell'economia della Messa da Requiem assume una funzione specifica di bilanciamento, è eseguito correttamente ma appare privato della sua funzione.
Ascoltando il soprano Anja Harteros, ho ripensato con nostalgia ed accresciuto senso di straniamento alla “Mirellina” (Mirella Freni) e ad Herbert von Karajan di fronte al quale la cantante si scusava di avere una voce poco adatta nell'affrontare i ruoli Stolz per i quali il maestro austriaco, innamorato della sua arte, la convocava: «mi protesto da sola», diceva, con infinita modestia. Ebbene, ho ripensato proprio a lei e al suo mezzo rotondo, sempre timbratissimo, duttile, intonatissimo e - per un istante - l'ho affiancato a quello di questo soprano cui non mancano alcune intenzioni musicali, affidate però ad una voce lirica che cala e diventa fissa sugli acuti, in modo particolare nel Libera me e, completamente vuota nel registro grave, pure parlante.
Tornando al direttore, mi domando se, dimostrandosi privo delle risorse coloristiche e dinamiche di Barenboim in un Requiem verdiano che non fu poco interessante, la sua non sia semplicemente una mancanza di affinità intellettuale con la partitura (ricordo anche una sua esecuzione con l'Orchestra Verdi, una quindicina d'anni fa); trovo che proporre, ad esempio, lo Stabat Mater rossiniano sarebbe stata soluzione più congeniale. 


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