sabato 19 dicembre 2015

Appunti su una trilogia americana



«Un tempo che ne separa un altro che col tempo diventa presente»

Je rentre à la maison, Manoel De Oliveira, 2001





1898. Il prologo di There Will Be Blood è l'alchimia di un solitario che strappa la materia alla Terra per tramutarla in moneta sonante, lo storico passaggio dall'epopea dei cercatori d'oro e d'argento a quella degli estrattori di petrolio. Poi il battesimo del sangue nero che reca con sé la prima morte; siamo nel 1902.
Già a contatto con Oil! di Upton Sinclair, P. T. Anderson guadagnava un'essenzialità gravida di sensi e di significati, tanto nella scrittura quanto nel muovere la macchina da presa. Il passo della narrazione imposto nei suoi ultimi tre lavori procede, infatti, per rimandi interni e ricercati contrasti, talvolta per fratture telluriche. E, soprattutto, la sua poetica rifugge dalla dimensione storico-sociologica del racconto in misura non inferiore a quanta è la trasgressione rispetto ai 'tipi' che caratterizzano la gran parte del cinema americano; è altro, insomma. Il regista destabilizza perciò continuamente i tratti che definiscono i propri personaggi con la stessa pervicace determinazione in forza della quale rende tortuosa la narrazione, orientandola su piani multipli e talvolta senza apparenti gerarchie interne.
Nelle creature di questa sorta di trilogia americana - There Will Be Blood (2007), The Master (2012) e Inherent Vice (2014) - vibra però, questo sì e in maniera lineare, lo spirito del tempo, accompagnato dagli ultimi lacerti della saga dei cercatori d'oro sino alla fine del sogno hippie. E i personaggi si scoprono, a poco a poco, nel riflesso degli anni ben più che dichiarandosi attraverso la propria soggettività, le azioni restando massimamente una tenebra dal momento che le motivazioni scatenanti risiedono soprattutto nel passato; dimensione cui il regista fa cenno quasi con pudore, quello che si specchia nella riluttanza in primis dei protagonisti dei tre film. Riluttanza che si fa, improvvisamente, tenerezza - ma in dissolvenza - quando Daniel Plainview stringe a se il piccolo H. W, di cui si ostina a tacere la vera identità e che è anche il socio in affari al quale insegnare i trucchi del mestiere («Quanto pagheremo la famiglia Sunday?» - «Non un prezzo da petrolio: gli daremo un prezzo da quaglie»).
Il materialismo assoluto del protagonista unifica spazio, progresso e materia; abolisce il sopra ed il sotto, l'alto e il basso, il trascendente e l'immanente per permettere il libero scorrimento della merce sottratta ad ogni legittimazione trascendente, ultraterrena, quella ambiguamente incarnata dal pastore Eli. In assenza di misura - il possesso massivo degli arsi terreni californiani - Daniel provoca il fio della colpa ed entro questa cornice narrativa Anderson stringe l'esistenza del personaggio. «Mi piacciono tutte le chiese e nessuna», afferma Daniel; il suo essere nel mondo è orizzontale, inclusivo, perché scorre su un piano che si propone di conquistare l'universale. Come il capitale, appunto.
«La nuova strada condurrà alla chiesa?», domanda Eli. Il giovane pastore reclama il battesimo del petrolio, la sua legittimazione sacra, immagine speculare a quella del principio, ma dello stesso segno; non bisogna trascurare il fatto che l'identità attoriale di Paul/Eli è moltiplicazione al quadrato del dualismo andersoniano, oggi diventato distintivo. Daniel oppone alla richiesta di Eli un illuministico rifiuto; sua cura, piuttosto, è che la figlia del contadino sia ben vestita e non più picchiata dal padre. E poi una morte, ancora, in trivella; un segnale d'avviso. Ma, in una rapida sequenza, Daniel si sbarazza del crocefisso di pezza conservato tra le pagine di un libro. Difronte alla pioggia d'oro promessa da Daniel, l'esorcismo di Eli è solo «un gran bello spettacolo della miseria»; ciononostante, la chiesa verrà ampliata col denaro. La sordità di H.W. è il prezzo da pagare per una spettacolare pioggia di fuoco e di oro. La furia del petroliere è cieca quanto la determinazione del pastore («quando ci darai i nostri soldi?»). E Daniel ribatte: «quando ridarai udito a mio figlio?!».
La comparsa del falso fratello di Daniel, Henry, consente uno spiraglio per sbirciare nel passato del petroliere (il difficile rapporto col proprio padre, Ernest) raccontato nel riflesso di un inedito triangolo affaristico/familiare, con fulminee dichiarazioni: «non mi piace spiegare le mie azioni»; «io sono competitivo di natura»; «non voglio che gli altri abbiano successo»; «voglio guadagnare abbastanza da poter stare lontano da tutti»; «io vedo il peggio nelle persone»; «non posso continuare a fare questo lavoro da solo». L'abbandono di H.W. è estremo atto di sfida alle leggi della natura. Un nuovo omicidio, il diario, il passato che riaffiora prepotente e doloroso. Le colpe di Daniel richiedono il perdono e il dio della chiesa della Terza rivelazione ha il volto ingenuo e misericordioso di Bandy: «Dio mi ha detto cosa dovete fare: dovreste essere battezzato con il sangue di Gesù Cristo. Chiedete perdono per il peccato che avete commesso».
«I'm a sinner» è l'ammissione estorta al miscredente. «Abbiamo il condotto» è la certezza del petroliere, e sarà premiato col ritorno del figlio.
L'epilogo (1927) è la feroce resa dei conti tra H.W ed Eli. Indipendenza e cambiamento sono parole che all'orecchio di Daniel suonano come un parricidio («In questo modo ci uccidi: stai uccidendo l'immagine che ho di mio figlio») e l'agnizione sull'identità del figliastro è forse la più spietata che la storia del cinema ricordi. Un breve flashback congeda il passato prima della nemesi, Eli, a compensare la perdita di H. W col contrappasso dell'apostasia: «voglio che tu mi dica che sei un falso profeta. E che Dio è una superstizione». E il disvelamento intorno a Paul è lo scacco matto («io bevo il sangue dell'Agnello dal terreno dei Brandy»), una presa del potere da suggellare con un nuovo omicidio. Trionfo e dannazione del capitalismo, ormai assunto alla dimensione religiosa: «sono io la Terza Rivelazione!».


Prima sequenza: onde del mare percosse dalle eliche di una nave. Il tempo ed il suo scorrere sono catturati in un'immagine della quale, come reminiscenza, si appropria il film. Freddie indossa un elmetto e resta ad occhi chiusi per trattenere la memoria.
Lontano da sorgenti letterarie chiaramente definite è The Master perché le fonti cui ha attinto P. T. Anderson sono racconti di gioventù recepiti da veterani di guerra e, soprattutto, la parabola umana e professionale di Ron Hubbard che presta molte sembianze a Lancaster. Nella figura e nell'attività di questo personaggio, infatti, si riconoscono domande sull'essenza ontologica dell'essere umano e sulla sua esigenza di collocarsi all'interno di una narrazione. Il soldato Freddie è un groviglio di pulsioni erotiche e nervose. Il suo passato è una tenebra che mantiene nascosta abbassando gli occhi e mormorando poche parole; è un racconto che nessuno vuole ascoltare. Ha cessato di servire la nazione ed ora viene riallocato, ma si dimostra incapace di sopravvivere tanto fra i sorrisi dei consumatori quanto nel proletariato dei campi. Freddie vaga solo, al porto, verso un nuovo contesto cui sentirsi estraneo ancora una volta: la festa sul battello.
Quella messa in campo da Lancaster e sperimentata su Freddie è una prassi scientista legata ai comportamenti umani nel tentativo di incidere su di essi tramite la loro modificazione razionale. Se la prassi umana cambia i comportamenti umani e sociali, dunque - sembra suggerirci Lancaster/Hubbard - è possibile intervenire su quelli asociali per promuovere atteggiamenti di natura sociale; modificare, insomma, l'alienato Freddie avendo coscienza che l'uomo è il fine in se stesso, non mezzo di arricchimento. Lancaster si configura così come un amalgama di messianismo e di positivismo, eco di Eli ed anche del personaggio interpretato da Tom Cruise in Magnolia: là, fra le battute del film ascoltavamo «noi possiamo chiudere col passato, ma il passato non chiude con noi» ed anche «rivendicare il rimpianto e usarlo per andare avanti». Eppure lo sguardo di P. T. Anderson non è mai unilateralmente giudicante; mai si pone dalla parte dei propri personaggi, specie quando disposti su campi avversi (anche qui il dualismo di There Will Be Blood è tangibilissimo). Giudicare le azioni senza giudicare i personaggi, raccomandava il poliziotto al termine di Magnolia: «Che cosa possiamo perdonare?», si domandava.
Freddie e Lancaster, dunque; come Daniel e Eli. Il primo, Freddie, è alla ricerca di donne di sabbia che plachino la sua brama sessuale, eppure desideroso di convogliare le proprie nevrosi in forme che risultino accettabili socialmente: in lui convivono la paura d'amare ed il trauma per una ragazza alla quale è sfuggito, per primo. Il secondo, Lancaster, è dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di credere a vite passate e disposti a sperimentare pratiche ipnotiche che li sottraggano ad un presente difficile da controllare. L'epoca di The Master (così come il rapporto adepto/maestro) sarà implicitamente rievocata citando un film in bianco e nero nel successivo Inhered Vice. Si tratta di Red Scare (1954), proiettato nella clinica di disintossicazione e rimando interno della trilogia.
Il proposito di Lancaster necessita di un dominio assoluto nel quale la razionalità non trovi posto, pena la disillusione; poi, ecco una crepa nei suoi sorrisi e nell'eloquenza rassicurante, paternalistica. Ma è un momento doloroso, non già lo squarcio luminoso ed auspicato della verità razionale: il dialogo del maestro con l'adepta intorno al Libro Secondo. È cambiata la domanda alla base del procedimento: non più «riesci a ricordare?» ma «riesci a immaginare?», perché l'obiettivo non è più quello di innescare la memoria ma l'immaginazione, seguendo un percorso più creativo della mente, più ampio. Anche il film, da questo punto, guadagna un passo trasognato, rapsodico. Ecco l'apertura sui cieli dell'Arizona: «vai Freddie, immagina, sogna!». Freddie fa ritorno a casa, quella della sua ex, in Alabama; oggi lei si fa chiamare Doris Day, come la diva del cinema. E proprio al cinema è ambientata una sequenza surreale, con la telefonata ricevuta da Freddie direttamente al posto, in sala. È Lancaster; mi manchi, siamo legati, dice. «Chi ti ha preso?», chiede. «Posso curare la follia, vieni». Tutto, in realtà, è un sogno, come dirà lui stesso (anche qui il regista gioca abilmente con diegesi ed extradiegesi). Onde, mare. In Inghilterra scopriamo che Freddie non è affatto atteso né desiderato. Le sue ferite sono morali. «Non riesci ad affrontare la vita, vero?», domanda Peggy. E, qui, una liberazione insperata arriva proprio da Lancaster attorno al cui cardine sembrava per sempre destinata a ruotare, incatenata, l'esistenza di Freddie: «Raggiungi la latitudine senza terra e buona fortuna; se trovi un modo di vivere senza servire un maestro, qualunque maestro, allora vieni qui a raccontarcelo, va bene? Saresti la prima persona nella storia del mondo». È quasi la scena d'amore di un doloroso addio. Il film rivela a questo punto una dimensione altamente politica, assai legata alla storia degli Stati Uniti e alla dialettica libertà/comando che è così caratteristica della società americana. Il passo successivo, nel tempo, rispetto alla nascita di una nazione consumatasi in There Will Be Blood.
Ora Freddie è ubriaco, ha fatto sesso con una donna reale alla quale rivolge le domande “da procedimento”. «Forse questa non è la tua sola vita», afferma. E lei ribatte: «Lo spero tanto». Risate, sdrammatizzazione. In un soffio tutta la costruzione di Lancaster, tutte le sue procedure e castrazioni vengono meno. Il film si conclude coi seni di sabbia, già visti al principio, subito prima che venisse dichiarata la fine della guerra. È vera liberazione? Anche qui si misura l'atteggiamento equidistante che stacca P. T. Anderson dai propri personaggi. Freddie resta avvitato, come al principio, alla sua onda, al suo desiderio, ai suoi seni di sabbia. Si ritrova faccia a faccia con i propri fantasmi, ma ha compiuto un percorso di accettazione che può apparirci rassegnata oppure consolante a seconda di quanto ancora ci poniamo dalla parte di Freddie. Non è lontana la dissoluzione del soggetto che si consumerà nel film successivo; qui è mimetizzata in un volto sulla sabbia, spazzato via dall'onda. Freddie rimane a metà tra il desiderio e la sua realizzazione, racchiuso in se, nella propria individualità. È una catarsi agra, smarrita.


Joaquin Phoenix dà corpo anche al protagonista dell'altro film di P. T. Anderson, Inherent Vice: qui è Larry "Doc" Sportello, investigatore privato hippie cui chiede aiuto la propria ex, Shasta, per un'ambigua vicenda che coinvolge il miliardario Mickey Wolfmann. Doc accetta. Inizia così un cammino che è insieme scoperta ed elaborazione di lutti: la fine dell'innocenza della cultura americana tra '60 e '70 e la perdita del proprio amore. Un tempo trapassato e proprio per questo capace d'interrogarci anche sul presente.
La voce fuori campo di Sortilège, i cui incantesimi come segnali disposti lungo un sentiero sconnesso e tortuoso ci orientano attraverso la narrazione, ci conferma l'epilogo della storia d'amore che è principio della vicenda: «Ognuno aveva trovato, piano piano, una diversa corrente karmica e aveva visto l'altro scivolare verso un diverso destino. Finisce mai davvero? Certo che sì. Era finita.» Il detective Doc è ora alle prese con un'indagine continuamente depistata, obnubilata dalla perenne fattanza di chi la conduce; meglio sarebbe, da chi ne è condotto. Proprio grazie al potere amplificante delle droghe, ogni sfumatura, ogni sospetto, ogni traccia, ogni verità sussurrata e nascosta è accolta ed moltiplicata da Doc grazie a quei poteri extrasensoriali che condivide con l'amico Denis, entrambi insuperabili nel percepire «un'atmosfera». Doc è un detective che, a colloquio con Tariq Khalil, anziché prendere nota degli indizi sul taccuino, lo fa con le proprie paranoie ed allucinazioni, classificati come «rischio». Ma «puoi girare solo un po' sui viali del rimpianto, poi devi tornare a imboccare l'autostrada», lo avverte in una delle tante sequenze lisergiche del film la sorella di Glen Charlock. E, questa volta, l'investigatore annoterà: «senso di colpa». Quei viali del rimpianto e della colpa Sportello li attraversa perdendo il proprio sguardo in una cartolina, durante una bellissima oasi al centro del film: è il ricordo di Shasta, della tavoletta Ouija usata in astinenza, del giorno di pioggia, della felicità di un momento.
Forse il vero protagonista è proprio lo sguardo annebbiato, smarrito e indagatore di Doc. La sua visuale è pari a quella concessa allo spettatore quando, nel retro del locale in cui il detective incontra Coy Harlingen, questi gli indica in lontananza la Golden Fang: quello che si vede è solo nebbia fitta all'orizzonte. «Ecco, è quella - Come lo sai? - L'ho vista entrare in porto quando sono arrivato stasera. - Ma che ho visto, non lo so. - Neanch'io. Anzi, non lo voglio proprio sapere.» Voce fuori campo di Sortilège: «Doc pensò che sarebbe stato più facile far sapere a Coy che Hope e la piccola Amethyst stavano bene. Ma di solito non si immischiava in situazioni matrimoniali che erano appena andate in fumo come la canna d'indica asiatica che si stavano fumando e che creava uno strato ulteriore di nebbia rispetto a quello da cui Doc era circondato.» Da qui una gigantesca parentesi politico-complottista tra Guerra Fredda e Vietnam attorno al famigerato veliero in rotta per i mari del sud: ad animarla, insieme a Sauncho Smilax, proprio Coy il saxofonista che poi sbotta durante una conferenza stampa di Nixon per essere così comodamente infiltrato nei gruppi antagonisti, nemici di quella «madre tossica che manda a morire la gente nella giungla senza motivo.» «Facendo la spia» dice a Doc «ho capito che la gente chiede cose di cui sa già le risposte. Vuole solo sentirle da una voce che non sia nella loro testa.» «Ti conviene trovare Shasta Fay», gli raccomanda andandosene, come se la sua fosse proprio la voce nella testa di Doc; che chiude gli occhi, ferito.
C'è sempre un sotto, c'è sempre un dietro le cose. «Under the paving-stone, the beach», si legge ancora verso la fine del film. Anche in una clinica per disintossicarsi: «Finché la vita americana fosse rimasta qualcosa da cui scappare, il cartello avrebbe sempre avuto un pozzo senza fondo di nuovi clienti.»
Fonte è il romanzo di Thomas Pynchon con la sua scrittura gravida di personaggi, trame, spunti storici ed indizi che si perdono. La linearità sequenziale dell'indagine condotta dal detective di Los Angeles, incaricato di casi le cui soluzioni inevitabilmente s'intrecciano, è presto compromessa dall'accumulo; la direzione della trama non procede, infatti, dall’indeterminatezza all’ordine ma verso il puro caos, perché ciò che preme non è la soluzione narrativa bensì la sua dissoluzione. È stato scritto, correttamente, che si tratta di un romanzo di redenzione e di risurrezione; e lo è anche il film. A ben vedere, già in V. (1963) Pynchon contrapponeva il caos del mondo contemporaneo all'ostinata ricerca di un ordine occulto, di un complotto, fino a far collidere i due piani e a destrutturarne l'opposizione. L'indeterminatezza percorreva, del resto, già tutto L'arcobaleno della gravità (1973): mi pare che proprio là il debito del cinema verso la letteratura di Pynchon si estinguesse. Il film, infatti, era usato come tema e metafora. Una serie d'immagini distinte, purché mostrate con sufficiente velocità, portano l'osservatore a percepire un moto continuo; è un modo per sottolineare la questione letteraria di come costruiamo sequenze coerenti pur partendo da episodi disparati, ma anche per riflettere su come giungiamo a percepire la coerenza storica di una particolare serie di eventi passati e presenti. I salti e le fratture nella costruzione dei personaggi sottolineavano nel romanzo del '73 i modi in cui ripensare la tradizionale nozione di individuo in un'epoca nella quale il corpo e la mente mutano costantemente per l'interazione con sostanze chimiche e con macchine di ogni sorta in un trionfo dell'inorganico sull'organico (Ursula Heise). È questo un itinerario che parte da lontano: dal soggetto come fascio di percezioni, come teatro evanescente, teorizzato da David Hume, giù giù fino al '900 di Deleuze e di Foucault. D'altronde, Anderson ha dichiarato: «Spesso Pynchon sembra dirci che per interpretare la realtà o si parte dall'assunto che ci sia un'ampia cospirazione che contribuisce al verificarsi di tutte le cose negative che accadono, oppure ci deve essere questo vizio intrinseco, insito in ogni cosa».
La sceneggiatura di Inherent Vice fa di tutto per dissimulare la propria gerarchia interna, che si distingue invece dopo più visioni. L’accumulo quasi disorienta e di fatto, in questo film che si chiude come a cerchio, scompare la distinzione tra narrazione lineare e straniamento. Doc ha restituito Coy alla moglie e alla figlia; la spia hippie è tornata «nel gregge principale», con in mano una carta di credito. Poi, la stessa inquadratura dell'incipit: un vialetto tra due case di Gordita Beach. In riva all'oceano, la voce off di Sortilège sentenzia: «Eppure non c'è modo di evitare il tempo. Il mare del tempo. Il mare del ricordo e della dimenticanza. Gli anni delle promesse ormai andate e irrecuperabili. Della terra a cui è stato concesso di rivendicare un destino migliore per poi vedere quella rivendicazione ignorata da noti malfattori e invece presa e tenuta in ostaggio da un futuro in cui dobbiamo vivere per sempre. [a completare con irriverenza la frase gli interventi on di Doc e di Sauncho Smilax che guardano il veliero Golden Fang: «Chi l'ha preso? - Il Dipartimento di Giustizia»] Speriamo che questa nave benedetta sia in rotta verso lidi migliori. Risorta e redenta. Dove il fato dell'America, per fortuna, non è riuscito a trapelare.» È giunto il momento, in puro stile andersoniano, dell'ultimo scontro con il doppio di Doc: il poliziotto Bigfoot che fa irruzione in casa sua ed è talmente opposto (e quindi sovrapponibile) da sommarsi al sincrono di Doc in una delle sequenze più allucinate del film. Poi l'epilogo, con Shasta. Ma è tutto il finale ad essere costruito per tempo, attraverso una lenta decantazione del materiale. È là, infatti, che - subito dopo le sequenze più intime fra Shasta e Doc - il protagonista, prossimo ad un blocco celebrale e ancora in compagnia di Sortilège, decide di fare la cosa giusta: ridare padre ad una figlia. E, se il prezzo da pagare è quello di diventare pedina di un regolamento di conti tra poliziotti e uno scambio di droga - in un continuo farsi e disfarsi della verità, i cui contorni sono smussati tanto da rendere impercettibile la differenza - sembra esserne valsa la pena. Il film si chiude con una sequenza ambientata in un altrove che si distingue con difficoltà (è il retro di un'auto). Per la seconda volta ascoltiamo Shasta dire a Doc: «non significa che ci rimettiamo insieme». E lui: «Certo che no». Poi un sorriso, con disincanto.
      
                                                                                           

 



martedì 8 dicembre 2015

"Giovanna d'Arco" alla Scala



Sono da sempre uno strenuo difensore di Giovanna d'Arco e lo sono tanto a dispetto dei facili entusiasmi quanto dei poco ragionati rimproveri. Verdi è abile giocatore di carte che dispone con accortezza sin da principio: è lo stesso autore che, di là a pochi mesi, ci darà Attila, abbozzerà Re Lear e Macbeth. Qui diciamo che il mazzo nella mano del compositore è anzitutto la drammaturgia di una dissociazione, temperata a metà tra il fantastico ed il soprannaturale: elemento quest'ultimo caro tanto a Solera quanto a Verdi, sin da Nabucco. Il Maestro, che era appassionato lettore della Bibbia (la raccomandò al poeta per la Profezia), lo era ancor più delle opere di Alfieri, sin da giovanissimo. Nell'atto secondo di Saul (1782) si trova il racconto dell'incubo in cui il sacerdote Samuele chiama il primo re d'Israele e la sua discendenza alla morte; è lui che gli «strappa la corona dal crine» per metterla sulla testa del nuovo re, David. Sono tormenti che si manifestano anche sotto forma di follia, ad opera di uno spirito maligno. Che personaggi scissi, disgregati, incapaci di ritrovare l'unità del proprio io, divisi tra fas e nefas abbiano sempre affascinato il giovane maestro - prima ancora dei vaneggiamenti di Nabucco e di Giovanna d'Arco, del tormento di Foscari, Attila, Macbeth e consorte, dei fratelli Moor - è un fatto suggerito dal soggetto dei Delirii di Saul, cantata in otto movimenti composta da Verdi nel 1828, per baritono e orchestra. Se l'affresco di Solera in Giovanna d'Arco non è quadro storico-epico suggestivo quanto I Lombardi e non dramma compiutamente risolto per quanto attiene al movente che porta alla condanna della protagonista, esso risulta comunque efficace nel preservare l'atmosfera mistico-politica di ascendenza mazziniana; di efficace brevità, non è uniforme nella tinta quanto lo è I due Foscari. È impossibile che Verdi non si sia reso conto dei limiti del libretto, tanto più che amando i soggetti nuovi si trovava a scrivere su uno già messo in scena da cinque operisti. Era la prima volta, però, che un testo gli offriva la possibilità di lavorare attorno ad una figura che (complici i cantanti a propria disposizione) resta motore immobile della vicenda, tanto che il côté privato (l'amore per il Re di Francia e quello del proprio padre) risulta strumentale a mettere in ulteriore risalto la centralità della Pulzella; per una drammaturgia altrettanto esclusivista bisognerà attendere La traviata. Giovanna d’Arco, insomma, «rimane un personaggio, per così dire, sospeso tra terra e cielo.» «Anzi», continuava Basevi, «quel farla ispirata dal cielo, mentre nulla aggiunge di venerazione in Giovanna, perché non trattasi di storia sacra, rimpicciolisce non poco l’eroismo di lei; imperocché non lo si vede nascere unicamente dalla nobiltà dell’animo». Il motore che innesca contraddittorietà e dissociazione del personaggio è offerto, dunque, dalle risorse del fantastico e del soprannaturale: «le cose non nostre» che, nonostante i rimproveri di Giusti, Verdi sentiva proprie e che per agire in Giovanna d'Arco non aspettano certo la musica in scena affidata al doppio coro di Spiriti, malvagi ed eletti, che alternativamente tentano e motivano la protagonista in sogno (I, sc. 5). Sotto forma di musica temporalesca, infatti, il fantastico evocato nei tuoni che accompagnano la tregenda entra in circolo da subito: prima nella Sinfonia e poi nel racconto del sabba, narrato dal coro dei Borghignani al re Carlo (I, sc. 2-3) che è favola in forma di diablerie. Quest'ultima assolve a due funzioni strettamente connesse: rammentare al pubblico, dipingendole musicalmente, quali fossero le credenze popolari del XV secolo e in conseguenza di ciò creare il presupposto drammatico per la reclusione dell’eroina cui, anche in mancanza di padre-baritono 'forte', si assiste nel corso del dramma.


È qui che Verdi ricorre a tutte le risorse del genere: sono le stesse formule che troviamo poi nel duetto Giovanna-Carlo (II, 4-6), dove designano il terrore della protagonista per il mancato adempimento del voto divino ed anticipano la pubblica accusa (il reato di stregoneria). Anche quando, nell'atto primo, le illazioni sulla foresta stregata sono sgombrate dalla risposta del Re («Dov’è Maria, convegno non ha l’Averno»), l'eco delle immagini diaboliche evocate dal coro permane in pittura sonora nel Temporale orchestrale (n. 4), a designare prima la paura di Giacomo e poi quella di Carlo che avanzano nel luogo. Dunque, se Verdi acquisisce le risorse offerte dal fantastico due anni prima di Macbeth, punto fragile resta la figura di Giacomo, tratteggiato privilegiando il tenero affetto paterno a discapito della bigotteria ossessiva e del carattere odioso della sua superstizione (Mila): insomma, il Thibault d'Arc dell'originale, uomo rozzo e credulo. Nella concezione musicale, però, questi elementi che compongono il parallelogramma delle forze drammatiche sono ben presenti a Verdi; il libretto, invece, non tiene il passo, specie nello snodo del finale centrale. La regia di Leiser-Caurier, portando la dissociazione della protagonista sul piano squisitamente psichico ed estremizzando così la funzione centripeta di Giovanna - una nuova Hadewijch, oppure Renata dell'Angelo di fuoco se stiamo alla letteratura operistica - ha dimostrato di saper raccogliere la sfida offerta dal libretto. Nulla di inedito, certo; non in Giovanna d'Arco, però. Ma, del resto, non si comprende per quale motivo, fruendo di operazioni di archeologia musicale, si debba rincorrere a tutti i costi 'la novità'. Tanto più che, in un caso come questo, lo spettacolo aderisce con coerenza alla drammaturgia, quella che corre neppure troppo sotterranea alla trama; anche le soste liriche che tendono ad ostacolare il movimento drammatico («Speme al vecchio» e «Quale più fido amico») sono efficacemente assorbite nell'universo immaginario della protagonista quali simboli di colpe da espiare. A monte del lavoro registico, una ricerca figurativa niente affatto insensibile e una conduzione dei cantanti che ha parteggiato - non poteva essere altrimenti - per le esigenze del canto. A chi non lo conoscesse, consiglio il bellissimo spettacolo di Lavia (Parma, 2008) il cui finale dell'atto terzo sostituiva all'esterno l'interno della cattedrale e alla parata militare e di popolo - sul ritmo festoso di marcia - il solenne incedere della protagonista fra i porporati; mimesi, due anni prima dell'apparizione di Duncano, della condizione volatile del potere. Ma veniamo ora all'ingrediente fondamentale: il canto.
La Netrebko tornava alla Scala dopo un forfait e una Donna Anna tutto fuorché memorabile; si è presentata qui ad un appuntamento importante, per un vero tour de force. In accordo con la lettura di Chailly, è una Giovanna lontana da turgori espressivi, intelligentemente impegnata a stemperare le parti più scopertamente drammatiche; con lei anche l'attacco di «Contro l'anima percossa» diventa eminentemente lirico. Si è difesa con onore dalle asperità della parte, confermandosi soprano lirico con una certa pienezza al centro, anche ottenuto impastando il suono quando gravita attorno al Fa, ma - a giudicare da quello che si ascolta in sala, dove il mezzo risuona più voluminoso che altra volta - senza compromettere la gamma acuta e la flessibilità della voce. Qui, a differenza che nel disco, dove viene eluso, lo scoglio del Re naturale è fraseggiato con gusto. Non si è sentita quella inerzia di accentazione che troppo spesso caratterizza le sue interpretazioni né certe riprese di fiato sono accorse a spezzare la linea del canto, segno che la parte è stata rimeditata. Di buon effetto anche il Si naturale nel cantabile del duetto col tenore, attaccato e subito smorzato. Se ricordiamo che le Giovanna degli anni Duemila si chiamano Devia e Vassileva (per entrambe un ruolo troppo pesante, e per la seconda anche riguardo all'estensione del pentagramma) non soffriremo di particolari rimpianti.
Francesco Meli è Carlo VII; un ruolo che gli sta assai meglio di Ernani, Manrico, Riccardo. Languido, smarrito e dolente, ha tratteggiato con gusto il personaggio che è vero antesignano di Don Carlo. Comodo nel registro centrale, lo è assai meno in quello acuto. Non squilla nella puntatura di «Tu pure un tempio» così come in quella nella ripresa della cabaletta; un fatto che gli sconsiglierebbe il canto stentoreo come, ad esempio, il ruolo Fraschini di Arrigo nella Battaglia di Legnano, l'altro titolo del Verdi minore bisognoso di attenzioni. È anche elegante in scena, bello a vedersi quasi fosse materializzazione della statua di Jeanne d'Arc in place des Pyramides (ma col giglio borbonico). Altrove, certo, restano la compostezza classica, l'accento ovunque nobilissimo e struggente del monarca Bergonzi; eppure la cabaletta di Meli guarda a quell'esempio, essendo riflessione sul peso del trono lontana da qualunque machismo. La scrittura di Giacomo, invece, pensata per le virtù del baritono Colini meriterebbe flessibilità, dolcezza, sonorità che sono sconosciute al mezzo di Cecconi. Voce fibrosa e che non è mai per davvero 'in sala', quando si tratta di cantare sul piano suona particolarmente indietro (i Fa di «so che fia schiuso ai miseri» e «ma l'anima maggior»); evidenti pure le difficoltà nelle prese di fiato in «Speme al vecchio». Una prestazione che resta sostanzialmente di emergenza anche perché, per applaudirlo con convinzione, bisognerebbe fingere di non trovarsi alla Scala.

La presenza di Chailly è garanzia di concertazione impeccabile, di bel suono ed è certezza di un equilibrato rapporto tra buca e palcoscenico. La sua è una lettura sorvegliata nelle sonorità, a tutto vantaggio del canto e degli artisti, accompagnati con gran classe e, complice l'edizione critica del 2008, la lettura del maestro appare profondamente rimeditata. Si può certo affermare che privilegi il versante lirico alle accensioni drammatiche, senza però dimenticare che ciò non s'intende affatto rinunciare alla messa in valore delle molte tinte di cui gode quest'opera: suggestivi, in particolare, i suoni ottenuti nella Gran Marcia Trionfale (quell'effetto di cannone in lontananza), anche grazie ad una disposizione di banda e di coro interno ovunque intelligentissima. Sotto la bacchetta di Chailly, il Coro dell'Introduzione è raccolto epicedio per le vittime (si veda il «Patria oppressa!», ma nella versione del '47) ben più che monito risorgimentale; quello suscitato da Levine, insomma. Se il direttore americano ha fede olimpica nel gesto melodrammatico - che non chiede di essere ammansito perché proprio dal proprio vigore trae sostegno la drammaturgia dell'opera - qui ci muoviamo nel solco tracciato da un maestro mai abbastanza rimpianto: Bruno Bartoletti. È vero che una nobilissima tensione morale percorreva tutta la sua Giovanna d'Arco; è lecito però domandarsi se buona parte del merito non spettasse alla presenza di un Giacomo come quello di Bruson. Ecco un esempio. L'interpretazione offerta da Chailly alla Sinfonia dell'opera, già nel CD dedicato a Verdi, si presta particolarmente alla situazione scenica immaginata dai registi: è rievocazione trasognata, coi suoi rallentando nella Pastorale e l'Allegro conclusivo non baldanzosamente pugnace. Quando mi domandano dove Verdi si mostri schiettamente romantico, il pensiero corre subito a questo brano: cosa c'è di più prossimo alla Romantik, infatti, di una pagina in cui all'impeto di una tempesta gravida di presagi stregoneschi si accosta un placido ranz des vaches? È il caratteristico e non la sublimazione classicista della campagna, ma piuttosto il tratto schietto ed ingenuo della protagonista; quello che si ascolta con chiarezza in Bartoletti, scontrato al temporale senza attenuazioni.

 

giovedì 29 ottobre 2015

Critica e musicologia

Equivocare quella di Paolo Isotta con la critica musicale tout court non è diverso che scambiare la penna di Lina Sotis con i monumenti musicologici eretti da Carl Dahlhaus. Sia chiaro: pretendere oggi di scorgere in una sola figura i tratti del critico musicale 'onniscente' appare impossibile. Bisogna stabilire, prima di tutto, di quale ambito si intende trattare: musica strumentale oppure operistica? e, anche qui, non dovrebbero mancare i sottogruppi.
Il divorzio tra musicologia e giornalismo musicale si è consumato ormai da tempo e le figure capaci di sommare i due ambiti sono scomparse: mi riferisco a Mila, Celletti, Confalonieri, D'Amico, Abbiati. Quella era critica musicale e la loro era, però, al tempo stesso, una musicologia diversa dall'attuale (ma il contributo di Celletti, direi, sembra persino immune al trascorrere del tempo). In ambito operistico, soprattutto italiano e francese, si è verificata una vera e propria frattura; forse è fatale che non venga sanata. Negli ultimi decenni, infatti, nuovi metodi d'indagine hanno consegnato chiavi di lettura più suggestive, prospettive più ampie intorno a questi repertori; più difficile, dunque, conciliare ricerca e pratica dell'ascolto, soprattutto di quello dal vivo che è il pane di quotidiani e riviste. Negli ultimi decenni, insomma, si sono esplorati in maniera differente territori come il barocco (al punto tale che qui la ricerca è corsa persino più veloce della prassi) e come l'età che da Rossini giunge agli autori della Giovane Scuola; lo stesso dicasi per il repertorio francese, russo e ceco, trattati ormai alla stregua dei classici e romantici tedeschi. Su autori e titoli che costituiscono il repertorio dei teatri un contributo musicologico di Isotta degno di memoria semplicemente non esiste. Egli, del resto, da sempre rifiuta quei metodi d'indagine che, con non celato disprezzo, definisce 'scientifici' in La virtù dell'elefante: lettura piacevole, simpaticamente inattuale, e che nessuno si dovrebbe spingere a definire 'libro di critica' poiché i giudizi che vi sono espressi sono tutti, nessuno escluso, apodittici.
Non mancano, invece, - pur nell'esiguità degli spazi concessi sui quotidiani - recensori di concerti di musica strumentale, anche contemporanea; più confortanti le riviste. Taluni sono in grado di assurgere al ruolo di critici; altri, invece, ignorano del tutto il problema. Nell'opera questo si dimostra, a mio avviso, macroscopico: si va dalla carta stampata al variegato mondo del web e, in entrambi i casi, è assai più immediato parlare di recensioni piuttosto che di critica musicale. Se, per esempio, si recensisce Una sposa per lo zar non è possibile sacrificare all'altare del teatro di regia la centralità giocata dal canto e dagli stilemi romantici che sono addirittura storicizzati da Rimskij-Korsakov nella scrittura musicale; sarebbe come far critica su Wagner occupandosi all'80% dei cantanti e relegando all'ultimo piano orchestra e direzione. Allo stesso modo, nessun critico letterario potrebbe basare la propria analisi di Proust trattando quasi solo del controcanto delle citazioni letterarie perdendo di vista i dati della biografia dell'autore. Sarebbe un errore metodologico e di sostanza tale da inficiare irrimediabilmente il risultato. Così accade anche nella critica musicale. Quando essa si rivela ben strutturata, risulta opinabile nella stessa misura in cui lo sono un saggio letterario ed uno musicologico; che si intendono, cioè, discutibili solo se giungono argomentazioni convincenti per mettere in crisi metodi e contenuti adottati.

venerdì 23 ottobre 2015

"Macbeth" di Béla Tarr

Lo cercavo da tanto tempo ed ecco che un'anima bella l'ha caricato su YouTube: è il Macbeth di Béla Tarr (1982) che lui girò quando aveva ventisette anni, con budget ridottissimo.
Sono pochi i soggetti che più di questo si adattano all'estetica rigorosa e al nichilismo radicale del regista ungherese; fin dai primi lavori, il suo cinema si dimostra di grande impatto emotivo, dotato com'è di una forte coscienza autoriale. Qui però, a differenza che nei lungometraggi più noti, il passo non è affatto lento ed è anzi capace di stringere la tragedia shakespeariana in 62 minuti organizzati in solo due piano-sequenza: il primo della durata di 5'20 e girato in esterni, l'altro - incarnazione cinematografica dello 'sleep no more' - in un unico interno. Tornano alla mente le osservazioni di Bradley (Shakesperean Tragedy, 1904) il quale sottolinea quanto l'opera generi in noi, instancabile e vivida, un'impressione continua di rapidità, non di brevità.  
Soltanto negli ultimi secondi - quelli della battaglia - Tarr ci riporta all'aria aperta. Credo che l'espressione del viso di Macduff mentre porta in corteo la testa di Macbeth mi torturerà a lungo.
La sceneggiatura è semplicemente perfetta, a cominciare dalla riduzione delle dramatis personae; e Tarr ha ritenuto imprescindibile la presenza del portiere così come la sopravvivenza delle sue battute. E la regia è fatta di diversi particolari capaci d'illuminare con nuova luce il testo: penso, ad esempio, alla simmetria tra il movimento discensionale della mdp che accompagna la protagonista durante il suo monologo e quello ascensionale di Macbeth che si avvicina alla stanza di Duncan.
Le apparizioni? Sono nell'occhio di chi guarda, cioè dello spettatore, suggerite dallo sguardo in camera di un ottimo protagonista: György Cserhalmi. 


 

sabato 17 ottobre 2015

"Falstaff" alla Scala


 



Ieri sera mi sono unito al pubblico del fuori abbonamento per la recita di Falstaff alla Scala: un appuntamento musicale che, tacendo del luogo in cui si è svolto, non è difficile immaginare concepito per un uditorio di neofiti, sorridenti alle gag del gustoso spettacolo firmato da Robert Carsen già proposto altra volta e che - con qualche mossetta di troppo - rimane di sicuro impatto teatrale.
L'ultimo capolavoro operistico di Verdi è
titolo la cui storia interpretativa risulta tra le più lineari da seguire. È sempre affascinante ritracciarla (ma questa non è la sede) ed è indispensabile conoscere a qual punto i tratti che in maniera anche antitetica sono stati messi in valore dai massimi interpreti trovino ragione nelle peculiarità musicali e letterarie dell'opera verdiana. Per fare questo bisogna cominciare dai direttori d'orchestra ai quali spetta il compito di saldare palcoscenico e buca, parola e suono, azione e narrazione, in un unico ma duttile e variegato respiro musicale, leggendo una partitura che è frutto di un lavoro di genio perché fondato su una sapientissima mescolanza di generi e registri: quelli che trovano origine nella fusione di commedia e dramma inventata dal librettista, alle prese con un eroe comico che si contempla 'dal di dentro' ed è vestito di frasi affidate (in Shakespeare) ad altri personaggi grazie ad un raffinato gioco letterario vivificato dalla spigliatissima drammaturgia del libretto, quella che invita Verdi a mutare incessantemente passo e colori. E che lo sprona ad un penetrante impiego della metateatralità, oltre che all'uso di sapide autocitazioni. 

Insomma, ogni volta che ci si trova davanti Falstaff, si è in presenza di un testo la cui straordinaria ricchezza è paragonabile a certi volumi antichi le cui glosse, redatte allo scopo di illuminare il senso dei particolari, sono linfa per il lettore. Quest'opera, insomma, - titolo rifuggito dai direttori alle prime armi - dovrebbe continuare ad essere appuntamento al quale si giunge avendo qualcosa d'interessante da aggiungere ad un discorso già lungamente tracciato; perché, se è vero che non tutte le opere del catalogo verdiano hanno ricevuto adeguata attenzione da parte degli interpreti, «i giardini del Decameron» - evocati in una lettera di Boito a Camille Bellaigue nella quale il poeta invitava il critico a godere dell'ultima opera del Maestro - sono stati curati da premurosi agronomi (anche alla Scala, dove l'opera è nata).
Non è necessario disturbare i mammasantissima del '900 ed è sufficiente il confronto con Harding per riconoscere quanto sull'opera le cui trascoloranti atmosfere mutano al passo della vorticosa azione drammatica Daniele Gatti stenda la patina di un suono uniformemente greve, di volume gonfiato e appesantito nel magma degli archi; un suono che laddove cerca il piano si fa perlopiù loffio. Nel paragone col direttore inglese che per ultimo ha affrontato Falstaff alla Scala, valgano a titolo d'esempio le prime pagine dell'atto secondo: laddove Harding stendeva un morbido tappeto sonoro, insieme tenero ed ispirato, ma palpitante al passo della maliziosa situazione drammatica (il colloquio Quickly-Falstaff), quasi non è possibile con Gatti disgiungere quello che precede (la contrizione di Bardolfo e Pistola) da ciò che segue, tanto i toni sono omologati; lo stesso avviene con gli squarci che vedono in scena Fenton e Nannetta. Non sono mancati, del resto, i problemi di concertazione, già rilevati con Don Carlo e La traviata, specie nel trattamento degli ottoni durante la lettura delle lettere (atto primo, parte seconda) e poi anche a chiusura della parte prima dell'atto terzo; meno insoliti, invece, i fuori tempo da «È un ribaldo, un furbo, un ladro». E il direttore non trova tinte avvincenti neppure nelle pagine che dovrebbero toccare maggiormente la sua corda per così dire 'nordica': mi riferisco alla musica della tregenda, tirata via senza pensarci troppo così come avvenuto per il «Quand'ero paggio».
Non ancora giunto alla boa degli anta, mi ritengo fortunato per aver assistito anche alle prove dei Falstaff concertati da Abbado e da Muti: il primo, in particolare, faceva provare i legni e gli ottoni insieme al canto (con moltissima pazienza, mentre gli archi tacevano), ricostruendo così la trama dell'ordito strumentale dalle sue fondamenta che poggiano non certo sul 'ripieno' ma sul contrappunto inteso nell'accezione più autentica: quella di simultaneità melodica. Trine e merletti, insomma, laddove ieri sera si esibiva una tela cerata.
Il cast si avvaleva del professionismo un poco anonimo di Eva Mei, di carriera non scaligera se si eccettuano fugaci apparizioni che risalgono a più di vent'anni fa. Il soprano ha fatto il suo ritorno a Milano esibendo un mezzo che si fatica ad immaginare a proprio agio in una parte poco più 'onerosa' di quella affidata a Miss Alice, specie laddove è richiesto all'interprete di legare (atto terzo, scena prima, e nel duetto con Sir John nell'atto secondo). Sugli altri cantanti è presto detto. Per primo c'è il protagonista dai modi grossier, intento ad esaltare gli aspetti deteriori del canto verista e in questo non diverso dal baritono Cavalletti (Ford). Sono gli stessi atteggiamenti che Muti sorvegliava nel baritono Pons, così come fece poi Harding con Maestri; vige qui, invece, il culto dello sbraco per sfondare il muro dell'orchestra, salendo senza polpa che non sia quella sull'addome e rimpiazzando il mezzoforte con certi cachinni che non sono censurati neppure nel lugubre monologo col quale comincia l'atto terzo, la pagina del «tristo» che impreca a denti stretti contro il mondo intero. Il baritono sarebbe stato lo stesso Falstaff, guidato da altra bacchetta? Se Pistola e Bardolfo sono parsi disinteressati a conferire un'identità interpretativa e cioè musicale a ruoli risolti nel generoso gioco scenico, non altrettanto si può dire del mezzosoprano Lemieux (Quickly) impegnata a sfuggire la parodia della parte alla quale la condannano i suoni tubati. Di rara insipienza è la vocina vetrosa della Liebau (Nannetta) che forma la coppia dei giovani innamorati con il tenore Demuro, in difficoltà a proiettare un mezzo che anche nel Sonetto suona 'indietro' non appena supera il passaggio. 

Nello spazio dell'ascolto, propongo un capitolo essenziale nella storia dell'interpretazione di Falstaff.

 

mercoledì 30 settembre 2015

Żuławski, Sokurov, Gaudino, Vigas, Liang

Non sono anni d'oro per il cinema francese e non lo solo neppure per quello italiano; ma bisogna fare attenzione a non lasciarsi sfuggire i film importanti.
Tra questi c'è Cosmos, opera del grande Andrzej Żuławski che ha vinto il Pardo per la miglior regia al Festival di Locarno 2015. Non godrà certo della distribuzione che ha meritato Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, ma come quello trae il soggetto da uno scrittore fra i grandi del Novecento: là Thomas Pynchon e qui Witold Gombrowicz. Sono, per diversi aspetti, due film da guardare e da leggere l'uno accanto all'altro. Fra le tante qualità, in Cosmos agiscono attori di comprovato talento, diretti con quella carnale comunicativa che Żuławski sa provocare come pochissimi altri. Ed è un lavoro nel quale, come in L'amour braque (1985), lo spettatore è nella rara condizione di sorprendersi ad ogni nuova sequenza. La freschezza del settantaquattrenne Żuławski, insomma, ha molto da insegnare ai giovani autori. 

Travalica la dimensione didattica, e di molto, il nuovo film di Aleksandr Sokurov (Francofonia) per rivelarsi qual è: un accorato appello a difendere le ragioni del bello dalle barbarie della guerra e del potere (tema, quest'ultimo, assai caro al regista). E la sollecitazione è così pressante da far anticipare i titoli di coda al principio, in modo tale che, dopo la visione, lo spettatore - lasciato alle proprie riflessioni - si alzi dal proprio posto congedato con un breve postludio strumentale che accompagna sullo schermo un melange di colori (evocazione sonora e visiva della guerra). Di notevole impatto è il dialogo a tre che si svolge tra la Marianne, Napoleone ed il sorriso enigmatico della Gioconda: «Liberté, Egalité, Fraternité!» - «C'est moi!» - [sorriso]. 



In aggiunta all'ottima prova della Golino, nel film di Gaudino (Per amor vostro) ho amato ritrovare, temperati da una sensibità autentica ed originale - forte di una buona tenuta narrativa - certi tratti barocchi e onirici del cinema di Corsicato. Un cinema che qui è fatto anche di luoghi capaci di provocare efficaci suggestioni figurative: la Grotta della Dragonara, le Catacombe di San Gaudioso. 
Nel film di Vigas, vincitore del Leone d'oro 2015 (Desde allá), ho apprezzato il rigore della narrazione, che deve certo alla lezione del miglior cinema europeo (sono sicuro che il regista argentino ha studiato Haneke): ha lavorato sui tempi (equilibratissimi), sulle fratture del discorso, su accostamenti (anche brutali) del materiale per 'parlare' oltre il racconto, oltre l'immagine (che è poi lo scopo del cinema di qualità). E ho apprezzato il finale, a differenza di quanto mi è capitato di fare dopo aver visto Une nouvelle amie di Ozon (l'ammiccante happy end sostituito all'orginale della Rendell).
Quanto a suggestioni, ne possiedono moltissime le miniere di carbone filmate in Beixi moshuo (Behemoth) di Zhao Liang. Il lavoro del regista cinese è certo debitore del cinema di Herzog; eppure, non mi ha convinto del tutto. Complice è stata certo la cornice narrativa portata avanti dal voice over, troppo (o troppo poco) timido. Meglio, forse, sarebbe stato impiegarlo solo al principio ed alla fine, piuttosto che utilizzarlo per prevedibili e poco incisivi interventi attorno alla Divina Commedia, allo specchio che ammicca al coinvolgimento degli spettatori e, più in generale, per rafforzare quello che già le immagini mostrano con evidenza. Contano infinitamente di più, insomma, l'immagine delle mani callose ed il sonoro di un respiro affannoso sul letto d'ospedale: dalle viscere della terra, dalla materia che con l'incantesimo del fuoco si fa sudore e poi catarro e morte, per fabbricare sogni deserti. 

lunedì 21 settembre 2015

"Metropolis" al Teatro degli Arcimboldi




Due brevi riflessioni sul concerto-proiezione di ieri sera, cui avevo già assistito alla Scala nel 2011.
L'Arcimboldi era gremito e le luci della sala si sono abbassate con venti minuti di ritardo per permettere a tutti di prendere posto. Il pubblico, che era di varia estrazione, ha accolto l'esecuzione con appalusi scroscianti: un vero successo. Tanti erano in teatro anche i giovani spettatori, e non quelli 'fantasma' cui qualcuno ama riferirsi quando si tratta di spettacoli d'opera in località non ben identificate. Mi domando perché, progettando i cartelloni delle stagioni lirico-sinfoniche, non si punti con determinazione ad inserire concerti-proiezione di capolavori del cinema muto, piuttosto che ostinarsi a riproporre la milionesima recita di Traviata e di Bohème in versione finto-pop per sedurre chissà quale nuovo pubblico. È quella un'affabulazione mal riuscita, a differenza di ciò che offre una serata come quella di ieri; anche a scopo 'didattico', per far conoscere al pubblico - grazie a partiture tutt'altro che disprezzabili - quale sia il potere 'illustrativo' della musica (tornano in mente le riflessioni intorno alla musica a programma). Per spettatori a digiuno di cultura dell'ascolto, è infinitamente più invitante una serata come quella di ieri, a contatto con una forma che conoscono bene (il cinema), piuttosto che un approccio fuggitivo con l'opera lirica (che andrebbe fatta, ma con congnizione di causa).
L'altra osservazione riguarda la partitura di Huppertz e un passo in particolare: la prima apparizione del robot, in tutta la sua metallica lucentezza. La disposizione degli strumentisti della Filarmonica della Scala, in parte collocati ai lati dello schermo, mi ha consentito di riconoscere anche visivamente come, in quel passo, siano impegnati celesta, glockenspiel e triangolo, che suonano sugli armonici dei violini. Sono gli stessi strumenti impiegati nel Rosenkavalier di Strauss (1911) nell'atto secondo (quattro prima di 25, Ziemlich langsam). Là per far brillare alle nostre orecchie lo splendore della rosa d'argento; qui per evidenziare altrettanta nitidezza di luci e forme. 

Pubblico in calce il programma di sala di ieri sera, di cui sono autore:
 
Attualità di un capolavoro
di Francesco Gala

Nell'eredità che l'arte del '900 ha consegnato alle presenti e future generazioni, un posto privilegiato spetta a Metropolis, fra i capolavori di Fritz Lang e dell'intera storia del cinema. È l'opera germogliata nel contesto politico e culturale di quell'irripetibile esperienza che fu la Repubblica di Weimar, in un'Europa ancora estranea alle tragedie dei totalitarismi novecenteschi che ci hanno consegnato, sostanzialmente, un bilancio univoco del secolo scorso: quello di un secolo di orrori, stretto tra tre guerre mondiali (fredda la terza) e liberatosi solo nel 1989, data alla quale corrisponderebbe addirittura la fine della Storia. Invece, dopo tante drammatiche esperienze, da non da rimpiangere affatto, sono ancora tutti là - o meglio qui e in Metropolis - gli interrogativi e le speranze di un mondo alla ricerca di un rinnovato rapporto tra economia e lavoro. E chissà se i prossimi decenni ci vedranno partecipi di un nuovo patto sociale o dello sgretolamento del capitalismo o di molto altro ancora. Certo, il film di Lang si dimostra nuovamente capace d'interpretare il presente, di lasciar intravedere il futuro e soprattutto d'interrogarlo: valga il finale, che testimonia, per alcuni, la conciliazione degli aspetti principali della socialdemocrazia (capitale e lavoro); secondo altri, si tratta di una conciliazione che prefigura però modi tutt'altro che democratici: quelli che la Storia del '900 ci ha dolorosamente insegnato. Lang, che intrattenne una lunga esperienza di collaborazione con la moglie Thea von Harbou, sceneggiatrice ed autrice del soggetto - già pubblicato in un romanzo del 1926 - aveva però previsto un finale differente e non poco nichilista: i due innamorati sarebbero partiti su un razzo lasciando la città in preda al caos. E, segno di un niente affatto pacificato rapporto col materiale narrativo, la nuova versione del romanzo pubblicata a puntate nel 1926 eliminò il robot - ed è un fatto sorprendente - costruendo il dualismo bene/male attorno a Maria e ad una sua sorella: Annelie. Poi il destino dei creatori di Metropolis prese vie diverse: la von Harbou entrò a far parte del Partito Nazional Socialista Tedesco del Lavoratori, un fatto che non poco contribuì alla sua separazione da Lang, nel 1933: l'anno di un altro grande film (Il testamento del dottor Mabuse). Il regista lasciò la Germania per trasferirsi a Parigi e da lì negli Stati Uniti, mentre lei fu arrestata dagli inglesi alla fine della guerra. Morirà nel 1954.
Anche da un punto di vista strettamente cinematografico, Metropolis è punto d'arrivo e di partenza. Si tratta, infatti, del titolo più eclettico ed innovativo della produzione tedesca degli anni di Weimar: per i materiali, i riferimenti e, più in generale, perché è l'opera che anche sul piano iconografico e drammaturgico si pone come una sorta di ricapitolazione di tutte le esperienze fin là compiute; quasi un limite estremo del campo in questione. E, al tempo stesso, questo film ha aperto la strada al futuro del cinema.
E a noi, che abbiamo oggi il privilegio di assistere all'esecuzione dal vivo della colonna sonora, su quale tra le tante chiavi di lettura del film ci dobbiamo concentrare? Va subito ricordato che dal 2008, anno del fortunato ritrovamento delle molte sequenze sino ad allora ritenute perdute (Buenos Aires, presso il Museo del Cine), possiamo - a seguito di un'accurata reintegrazione della pellicola - guardare Metropolis nella versione più completa a nostra disposizione (148'); e proprio per merito di Frank Strobel possiamo ora godere nel modo più autentico anche della componente sonora della pellicola: è lui che ha curato adattamento, sincronizzazione e orchestrazione delle musiche di Gottfried Huppertz (1887-1937) per molti anni scorciate, adattate alle differenti e mutili versioni del film.
Tanto più che proprio la musica di Huppertz ci agevola nel penetrare quest'opera essendo tale essa stessa: Metropolis, opus 29 (1927). Il compositore, che diresse l'orchestra alla prima proiezione (10 gennaio 1927), aveva già lavorato con Lang per la serie formata dai due film epico-fantastici Die Nibelungen; anche in questo caso la colonna sonora è parte integrante della drammaturgia del film. L'organico è quello di un'orchestra sinfonia tardo-romantica con due 'intrusioni': l'organo e i sax contralto, in accordo con altrettante situazioni richieste dalla pellicola. E la narrazione filmica è sostenuta da motivi conduttori che aiutano a chiarirla, a penetrare nei personaggi, nei loro stati d'animo, a distinguere ed accostare diverse situazioni che scorrono sullo schermo; non possiamo mai dimenticare che il cinema è debitore del genio visionario di Richard Wagner. Tra i molti motivi musicali facili da identificare, insieme a quello festante della prime immagini della città Metropolis (lo stesso impiegato per accompagnare le sequenze della torre di Babele), c'è il tema del Mediatore che, grazie alla sua frase cantabile, è lirico ed accorato; oppure quello percussivo e dissonante che si ascolta nei molti fotogrammi riservati alla fabbrica sotterranea che improvvisamente - in sincrono con l'immagine - emette il suono apro di una sirena. Non mancano le citazioni, quali la Marseillaise: brano celeberrimo che anche qui - come in La nuova Babilonia di Kozincev e Trauberg (musiche di Šostakovič, 1929) - è sottoposto ad un trattamento deformate, in conformità con la situazione drammatica. Ed è musicale anche la scansione temporale del film, diviso in tre parti: I. Auftakt (Preludio); II. Zwischenspiel (Intermezzo); Furioso.
Soprattutto siamo chiamati dall'orchestra a giocare un ruolo attivo guardando Metropolis. Fate attenzione al Moloch, il mostro-macchina che si ciba di operai: là, dopo un'insostenibile progressione (che meraviglia quella al termine della Corazzata Potëmkin!) la musica tocca l'apice della tensione drammatica. Quei tremendi accordi li riascoltiamo prima nel racconto di Freder al padre, come reminiscenza di quanto accaduto nel sottosuolo, e poi per identificare lo spietato Rotwang, scienziato ed inventore del robot che dovrà spingere gli operai a distruggere le macchine; e con esse la città. Scienza e capitale: anche questi aspetti ci dimostrano quali e quanto siano inquietanti, irrisolti gli interrogativi proposti nel film di Lang.





Les trois cloches

La memoria involontaria fa sì che io associ a questa canzone - e non da oggi - il finale di "Vertigo".
A spiegare l'affinità non bastano le campane (una, nel caso del capolavoro di Hitchcock): che abbia scoperto entrambi, film e canzone, nello stesso periodo? Le sequenze finali di "Vertigo", visto da ragazzino, mi turbarono per diverse settimane. Testo e musica del celebre brano, scritto da Jean Villard e rimaneggiato da Marc Herrand, sono insieme teneri, festosi e funebri: la vita di Jean-François Nicot in tre brevi strofe. Qui la Piaf è allo zenit (siamo nel 1956) e Fred Mella - che è il solista dei Compagnons de la Chanson e canta da tenore - se paragonato a certi topolini con la voce nel naso ora in circolazione - è Georges Thill in persona.
L'esecuzione è semplicemente immacolata e le parole d'avvertimento rivolte al pubblico dalla Piaf prima di cominciare sono segno di modestia e di rispetto che commuovono. 


 

venerdì 18 settembre 2015

Il mondo anelante dei profani e L'elisir dei nonluoghi

«Il mondo anelante dei profani». Un vecchio cinegiornale che annuncia la morte di Arturo Toscanini qualifica con questa espressione - certo, per le orecchie di alcuni non priva di retorica - gli ascoltatori di musica rattristati per la scomparsa del Maestrissimo: siano essi profani, appunto, o «iniziati». 
La metafora del tempio musicale (sono ben più di uno) è arcinota. Cosa distingue il tempio musicale, ed i riti che vi si consumano, rispetto alla piazza? Diversi fattori ed anzitutto il raccoglimento, la concentrazione imposta all'uditorio: quella che, anche in Italia, almeno dagli anni '30 dell'800, è il presupposto domandato a chi fruisce di uno spettacolo d'opera lirica, riconosciuto - o almeno così si è creduto per lungo tempo, nulla è definitivo - fra le massime espressioni dell'umanesimo occidentale e, in quanto forma d'arte, portatore di verità: di verità attraverso la bellezza, quella la cui essenza è possibile cogliere grazie a un po' di dilettevole sforzo.
Il capovolgimento intorno al quale il presente ci invita a riflettere (L'elisir d'amore proposto all'aereoporto di Malpensa) si colloca in un orizzonte che merita di essere indagato ben al di là dell'opinione spiccia e della nota di costume: è un fatto (musicale senz'altro) che invita a riconoscere quanto il mezzo (un invito all'opera) si proponga di emulare molto da vicino il fine stesso (la visione in teatro, anche se lo spettacolo è proposto in diretta televisiva).
In parole povere, l'idea è questa: se la gente va meno a teatro - come dimostrato dal risultato deludente delle serate alla Scala negli ultimi mesi - il teatro vada dalla gente per convincerla a recarsi nel luogo in cui la musica si manifesta compiutamente: il palcoscenico dell'opera.
Ben oltre la sobria brochure distribuita per comunicare il contenuto del cartellone, è il mezzo stesso a farsi spettacolo, insomma; a farsi 'evento' cui si assiste anche in televisione, gratis o quasi. 
La questione economica è tutt'altro che secondaria, soprattutto quando si ricorda che l'oggetto del contendere è una forma d'arte nata nel '600 per la nobiltà ma ben presto fatta propria dalla borghesia e messa così sul mercato; una forma di spettacolo che ha accompagnato l'evoluzione di questa classe sociale nel lungo corso della sua storia, attraverso rivoluzioni e mutamenti anche profondissimi. Sino ad oggi, quando di fronte a noi, almeno in Occidente, troviamo una società che non è diffcile qualificare come compiutamente post-borghese.
Se l'operazione scaligera riuscirà (il termine è mutato dal vocabolario scientifico e chirurgico dal momento che, in questi frangenti, la qualità artistica è fattore assolutamente trascurabile), L'elisir d'amore a Malpensa attrarrà nuovo pubblico a teatro. Il pubblico, nuovo o vecchio che sia, dovrebbe dunque essere allettato attraverso la visione di un prodotto (questa volta il lessico è commerciale) scelto come più prossimo possibile ad un'estetica pop. Si investe così su di un fatto artistico, sdrammatizzato e gioiosamente dissacrante, tuffato in un nonluogo che, per dirla con Marc Augé, è altamente rappresentativo della nostra epoca, caratterizzata da assoluta precarietà: epoca del passaggio, del transito, dell'individualismo solitario di chi si muove fra architetture destinate all'utente medio, senza distinzioni. 
Dal «mondo anelante dei profani» che aspirano ad accedere al ruolo di «iniziati» del tempio musicale si è passati a rivolgersi, con determinazione, ad un pubblico estemporaneo, di passanti che transitano in un nonluogo, appunto; ai quali si domanda, se non l'attenzione televisiva, almeno quella dell'itinerante. È una considerazione sincera che non deve essere necessariamente salutata con la celebre locuzione ciceroniana (O tempora, o mores!). Si tratta, infatti, di un riconoscimento che possiede una valenza storica; è un dato da accettare, non certo passivamente, ma da individuare come tale. 
E qui rientra in gioco, mai dimenticata, la questione economica: lecito domandarsi se operazioni musicali di questa natura (come anche, per certi versi, l'opera live al cinema) saranno in grado di persuadere l'utente medio (o, meglio, un numero sufficiente di utenti medi) non già che il luogo nel quale il fatto musicale si manifesta compiutamente sia il teatro, ma che tale epifania valga il prezzo del biglietto. Il quale resta complessivamente caro e che, anche al fine di garantire un congruo numero di recite, è difficile rendere più conveniente data la diminuzione sostanziale del contributo elargito dallo Stato.
Qualunque osservazione in merito non deve prescindere dal fatto che il mezzo influisce sempre sulla sostanza, quando addirittura non la determini. E a quei mezzi generosissimi offerti oggi (gratuitamente) dall'audio-visivo mi affido per concludere questo scritto.


 


 

mercoledì 17 giugno 2015

"Nessun dorma": intorno a Waldemar Kmennt e Jonas Kaufmann

Ho letto cose simpatiche sul concerto di Kaufmann alla Scala, alcune persino buffe: si va dalla lode laconica all'onesto fremer di chiappe. Tutte cose, però, che - con una sola eccezione (Il corriere della Grisi) - sono prive di argomentazioni intorno al canto.
In questo periodo sto cercando di formulare qualcosa di definito riguardo a due dicotomie, misurate in diversi campi artistici: parassitismo/venerazione e opinione/argomento. Nell'ultimo caso, il secondo dovrebbe essere contenuto della prima, ma tant'è. Comunque, è un lavoraccio e questa non è la sede.
Tra tutte le sortite a commento del concerto, mi piace citarne una: "Lui [Kaufmann] Puccini lo sente tipo tradizione tedesca". Come altri dopo aver ascoltato la Turandot della Stemme, anch'io ho fatto mente locale: forse che i tenori di area tedesca abbiano sempre cantato Puccini come lo canta Kaufmann? E cioè con l'affondo, gonfiando i centri e con suoni che sul 'piano' si sbiancano, biascicando, al posto di alitare dolcemente sul fiato alleggerendo l'emissione? Al netto delle intenzioni e della musicalità (qualità che vanno sicuramente ascritte a Kaufmann), ne vedo solo un'altra: quella contingenziale, che lo fa cercare di essere tenore drammatico nel semideserto del 2015.
Così, invece, Waldemar Kmentt (1929 - 2015) cantava la romanza di Calaf. Il repertorio del tenore austriaco, nel solco della tradizione dei tenori lirici tedeschi (categoria vocale alla quale andrebbe iscritto anche Kaufmann) includeva i ruoli mozartiani (fino a Idomeneo), quelli di Strauss (Bacchus e Der Kaiser) e di Puccini: Rodolfo, des Grieux, Ruggero, Cavaradossi, ecc. In questa registrazione colpisce subito la morbidezza con la quale Kmentt risolve la risposta un'ottava sotto all'incipit "Nessun dorma". Basta un primo ascolto per verificare quanto sia di gran classe il suo legato e la voce non perda mai smalto e posizione; e, quanto più le frasi si accendono e l'accento si fa vibrante, tanto più il colore si fa virile; nelle ultime battute autenticamente eroico fino al si naturale, emesso ampio e senza sforzo.

sabato 30 maggio 2015

Louisiana (The Other Side)




Dei tre italiani a Cannes ho amato solo il quarto: Roberto Minervini, al cinema in questi giorni con Louisiana (The Other Side). Di Moretti ho già scritto altrove e, se è giusto riconoscere a Garrone (Il racconto dei racconti) il merito della scelta letteraria, del gusto figurativo, della volontà di realizzare un progetto molto ambizioso (di cui è anche coproduttore) - innestandolo sul pericoloso filone fantasy - non si possono tacere alcuni problemi di drammaturgia e l'eccessiva continguità con quello stesso genere cinematografico che, dopo aver imboccato, sarebbe stato proficuo tradire, almeno, immaginando un'altra colonna sonora. Magari una dal colore autoctono, e quindi campano; un modo per far trapassare nelle immagini l'espressività spinta a oltranza propria della lingua di Basile. Invece, con quel rassicurante temino da Harry Potter che si affaccia in continuazione, Desplat e Garrone paiono voler tranquillizzare un pubblico che, non so quanto, riusciranno a conquistare con gli altri mezzi. 
Dopo la bulimica Grande bellezza, Youth mi è parso un film più nella dimensione consona al suo sceneggiatore e regista. Un giorno, però, in altra sede, bisognerà interrogarsi in modo approfondito intorno a quale sia - quando i piedi poggiano sulle spalle di autori e forme classiche - il discrimine tra venerazione e parassitismo. Qui si va da Thomas Mann alla musica d'arte, fino alle suggestioni bergmaniane (a cominciare da quella 'frantumazione della durata' attraverso la quale il regista svedese approfondiva la riflessione dei protagonisti intorno al presente); ma mi pare che Sorrentino faccia proprio, e senta meglio, soprattutto il mito di Maradona. Ho ripensato al Posto delle fragole e - dopo aver provato una vertigine, avendomi Youth lasciato freddo per via delle mezze verità espresse nei dialoghi e della magniloquenza attorno alla quale, solo per brevi tratti, s'accordano immagini e pensiero - ho capito che difficilmente riguarderò il film di Sorrentino.
Terminata la visione di Louisiana (The Other Side), invece, mi sono tornate in mente le parole di Kubrick su Kieślowski: quella sua rarissima «capacità di drammatizzare le idee piuttosto che solamente raccontarle». Eppure il cinema di Minervini, profondamente diverso da quello del maestro polacco, continua a rivendicare la propria, orgogliosa, radice documentaristica per guadagnare uno spazio che sta altrove; e guarda al Flaherty di Man of Aran e a tante opere del nostro grandissimo De Seta. 





A differenza di quello allestito dai colleghi italiani, il cinema di Minervini non è da esportazione; si è già esportato da sé, come ha fatto l'autore, che vive in Texas. 
Sul tavolo del montatore, il regista ha a disposizione immagini 'alla Malick' che respirano col ritmo placido di una canoa tra una palude di alberi; sono dosate con estrema accortezza, indugiando invece, altrove, su quelle disturbanti solo perché funzionali al racconto. Sono forse due storie diverse quelle che Minervini ci racconta? L'angelo caduto Mark e le milizie antigovernative che preparano una fantomatica resistenza, certo. Ma l'incipit salda la seconda parte del film (gli ultimi venticinque minuti circa) con la prima, che inizia dove resta sospesa la caccia alla preda nel folto della foresta: e non si può fare a meno di pensare che la preda da impallinare sia proprio Mark, nudo come un animale mentre percorre la strada all'alba; l'irregolare che ogni fanatico degli inquadramenti gerarchici avrebbe in odio. Eppure, come i paramilitari, anche lui odia il presidente Obama e soffre di un'esistenza che sente a tempo limitatissimo, quasi fosse quella della protagonista di The Passage (2011), primo struggente episodio della trilogia texana di Minervini.
Ancora una volta si capisce quanto sia strettissimo, viscerale, il rapporto del regista con uomini e comunità, come ha avuto modo di spiegare via Skype prima di una proiezione di Stop The Pounding Heart alla quale ho avuto la fortuna di assistere. Il suo cinema è qui, nuovamente, capace di trascendere la dimensione della realtà, del puro rispecchiamento, per accedere a quella che appartiene al reale, laddove il vero si fa verità; tra materia e spirito, purezza e corruzione. La sua luce, quella bruciante della Louisiana, penetra per breve istante nel prefabbricato in cui Lisa e Mark hanno appena fatto l'amore e litigato; scalda i loro visi che si nascondono nel buio. E basta questo semplice gesto a conferire densità alla materia, a rendere magico un istante. Proprio dove è aliena ogni estetica del bello, del consumato, del facile. E il congedo dall'angelo caduto sta in un ultimo fotogramma che immortala le sue mani nodose; quelle che lo hanno vestito con l'abito buono per il funerale della madre. È un personaggio speculare a Sara, che nell'ultimo episodio texano il regista pedinava attraverso l'America rurale e dell'ortodossia amish.
Eppure Minervini riesce a non essere mai intrusivo; e questo è davvero un fatto sorprendente, quanto la leggerezza umanissima, partecipe ed autentica della sua macchina da presa che rispetta profondamente gli artefici delle proprie storie. Quelli che si lasciano indovinare in momenti decisivi, attraverso sguardi, silenzi d'intimità sincera perché perlopiù sottaciuta. È un cinema emozionale, al quale si assiste ricevendo ad ogni nuova sequenza oggetti e prospettive diverse; ricche, promuovendo così un'adesione assoluta tra spettatore e personaggio. Ed è un viaggio (nel senso più nobile della parola) nell'altra America: quella dei perdenti, degli sconfitti dal capitale. Delle paure che si autoalimentano e che - consegnato il proprio messaggio ad un aliante - domandano al cielo: Legalize Freedom. Bastano, insomma, gli ultimi venticinque minuti di Louisiana (The Other Side) a far dimenticare in un soffio quel capolavoro di retorica patriottarda mascherata da postilla bellico-scettica che è l'ultimo Eastwood.


lunedì 20 aprile 2015

Mia Madre


Non ha che il pregio della sincerità il nuovo film di Moretti; ma rivendico il fatto che un regista possa fare sempre lo stesso film, lavorare intorno alla stessa estetica e agli stessi nodi senza aggiornarsi, magari per adeguarsi alle aspettative di un altro pubblico (quello che, altrove, Moretti ha dimostrato di saper conquistare). Del resto, il suo è sempre stato un cinema appuntistico e fatto di attori che vestono personaggi a latere: il ritorno a storie vere, come nei due ultimi film, non era affatto scontato, insomma. Qui, però, la pochezza filmica - attorno alla quale il regista vuol far convergere diegesi e riflessione (il che ha antecedenti in altri autori) - è perseguita fino a risultare insopportabile. Il cinema senza più oggetto, dunque, che registra la stanchezza di parte degli intellettuali occidentali. Quello che colpisce, e in negativo, è il dato biografico, specchiato qui e nel senso ultimo di una generazione: la sua e anche quella dei Francesco Piccolo, quella degli smarrimenti post 1989 e poi post 1996 e poi post 2003 e poi altri ancora; quella dei renzi-no-però-anche-forse, degli attualmente-sono-orfano-ci-resto (lo stesso mondo che oggi, ad esempio, tace sullo scempio della Costituzione Italiana). Insomma, nel caso di Moretti, dal settarismo degli anni '70 coltivato poi tra le molte ottusità nel gruppo snob degli intellettuali romani di sinistra; da certo marxismo a certo postmodernismo deluso tanto dalle grandi narrazioni quanto dal proprio fallimento generazionale per giungere ad un nichilismo relativista, ormai oggi in marcescenza; oltre, arrivati al redde rationem, c'è solo la dissoluzione. Al posto di razionalizzare la propria personale delusione, Moretti addita la madre latinista, morta e rimasta d'esempio per i propri studenti: a lei, degli altri, “interessava per davvero”. Prima ancora che armarsi per il prossimo, dunque, sono da vincere l'indifferenza, il cinismo; in primo luogo il proprio. Non è molto? Questa volta è tutto ed è il riscatto cercato negli ultimi tre minuti del film. Non è difficile che ciò risulti pochissimo per quasi tutti, trattenuti al cinema dal regista per 106' con non poco sussiego ed altrettanta cupidigia di annientamento, allo scopo di condividere la storia di uno smarrimento che è anche quello del “film di merda” (testuali parole nel parossismo di Turturro), opera di un regista "che non capisce un cazzo". L'antidoto al film, anche a quello in produzione sullo schermo di Moretti, è “Deux jours, une nuit” dei Dardenne.