Non
ha che il pregio della sincerità il nuovo film di Moretti; ma
rivendico il fatto che un regista possa fare sempre lo stesso film,
lavorare intorno alla stessa estetica e agli stessi nodi senza
aggiornarsi, magari per adeguarsi alle aspettative di un altro
pubblico (quello che, altrove, Moretti ha dimostrato di saper
conquistare). Del resto, il suo è sempre stato un cinema
appuntistico e fatto di attori che vestono personaggi a latere: il
ritorno a storie vere, come nei due ultimi film, non era affatto
scontato, insomma. Qui, però, la pochezza filmica - attorno alla
quale il regista vuol far convergere diegesi e riflessione (il che ha
antecedenti in altri autori) - è perseguita fino a risultare
insopportabile. Il cinema senza più oggetto, dunque, che registra la
stanchezza di parte degli intellettuali occidentali. Quello che
colpisce, e in negativo, è il dato biografico, specchiato qui e nel
senso ultimo di una generazione: la sua e anche quella dei Francesco
Piccolo, quella degli smarrimenti post 1989 e poi post 1996 e poi
post 2003 e poi altri ancora; quella dei renzi-no-però-anche-forse,
degli attualmente-sono-orfano-ci-resto (lo stesso mondo che oggi, ad
esempio, tace sullo scempio della Costituzione Italiana). Insomma,
nel caso di Moretti, dal settarismo degli anni '70 coltivato poi tra
le molte ottusità nel gruppo snob degli intellettuali romani di
sinistra; da certo marxismo a certo postmodernismo deluso tanto dalle
grandi narrazioni quanto dal proprio fallimento generazionale per
giungere ad un nichilismo relativista, ormai oggi in marcescenza;
oltre, arrivati al redde rationem, c'è solo la dissoluzione. Al
posto di razionalizzare la propria personale delusione, Moretti
addita la madre latinista, morta e rimasta d'esempio per i propri
studenti: a lei, degli altri, “interessava per davvero”. Prima
ancora che armarsi per il prossimo, dunque, sono da vincere
l'indifferenza, il cinismo; in primo luogo il proprio. Non è molto?
Questa volta è tutto ed è il riscatto cercato negli ultimi tre
minuti del film. Non è difficile che ciò risulti pochissimo per
quasi tutti, trattenuti al cinema dal regista per 106' con non poco
sussiego ed altrettanta cupidigia di annientamento, allo scopo di
condividere la storia di uno smarrimento che è anche quello del
“film di merda” (testuali parole nel parossismo di Turturro),
opera di un regista "che non capisce un cazzo". L'antidoto
al film, anche a quello in produzione sullo schermo di Moretti, è
“Deux jours, une nuit” dei Dardenne.
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