martedì 13 gennaio 2015

Dardenne, Fincher, Allen e Eastwood


In Deux jours, une nuit i fratelli Dardenne accompagnano, questa volta con assai maggiore contaminazione morale che in precedenza, l'itinerario del loro nuovo protagonista: una giovane donna il cui calvario comincia con un licenziamento (che appare ineluttabile) per terminare con una potente espiazione dal male, dalla mortificazione, capace di trasmettersi energicamente allo spettatore. È la rivincita di un senso di lotta di classe che pareva smarrito, anche nella dolorosa vicenda di Sandra (una bravissima Marion Cotillard). Ad additarle la strada verso la propria liberazione è il colloquio con un giovane collega immigrato che, per mantenersi, lavora anche in una lavanderia e risponde: "Dio mi dice che è giusto" che io rinunci al bonus di mille euro offerto in cambio del tuo allontanamento. Che frase spiazzante! Soprattutto in un mondo occidentale che ha relegato la metafisica nel cantuccio del privato; e che, poi, nel misurarsi attorno alle relazioni costruite nel pubblico (il lavoro, anzitutto) alla domanda, sempre la stessa, di Sandra - non sa ribattere se non: "Ma gli altri cosa dicono?". Risposta vigliacca, giocata allo di deresponsabilizzare la propria scelta. 
L'amore bugiardo (Gone Girl) di David Fincher è in qualche modo, sino ad ora, la summa della sua poetica. Una storia raccontata dalle pagine di un falso diario, nella quale la bidimensionalità dei personaggi è finalizzata al ruolo che essi giocano all'interno della trama; limite e caratteristica di un lavoro nel quale la psicologia tace per far risaltare l'immoralità dello sguardo, unico accesso per decifrare la verità nell'epoca, la nostra, in cui 'il culto del guardare' celebra i propri fasti. E, nel raccontare una storia matrimoniale (ma anche di rapporto coi media), il film di Fincher parrebbe quasi un punto di non ritorno, immerso com'è nella luce chirurgica dei salotti televisivi.
Ho trovato intelligente il nuovo film di Allen, Magic in the Moonlight; testimone di una fase positiva nella carriera del regista che prosegue dal film dell'anno scorso. È pungente al principio - con quell'elefante fatto sparire sotto gli occhi del pubblico in una Berlino del 1928 - per poi mantenersi proficuamente fedele non solo al tema della magia ma anche ai modi di certa commedia americana anni '40; il rapporto di conflittuale convergenza tra i due protagonisti (molto bravo Colin Firth) ricorda da vicino, infatti, quello tra Grant e la Hepburn in Susanna! (Bringing up Baby). Dopo un personaggio che ricalcava le fattezze di Blanche DuBois in Un tram che si chiama desiderio, Allen si concentra ora attorno ad una coppia che incarna una serie di dualismi: anzitutto realismo ed illusione.  Scrittura e dialoghi non sono tanto fluidi da mimetizzare, in questa comédie au champagne, la struttura geometrica, dimostrativa del plot; ma guidano attraverso un itinerario di consapevolezza amara e consolatrice al tempo stesso, molto ebraica ed alleniana. «Tant peu de realité est dans l'homme», ci ricorda Chateaubriand.
Dopo aver visto American Sniper, credo sia più utile riguardarsi Flags of our fathers o, meglio ancora, due film della Bigelow (soprattutto The Hurt Locker, ma anche Zero Dark Thirty): asciutti e neutrali quanto basta per ferire ed emozionare. In quest'ultimo film del grande Eastwood - forse a causa della fonte biografica troppo recente per non scadere nell'agiografia, ma anche per via del regista che, come il protagonista, crede gli americani andati in Medio Oriente 'a sconfiggere il Male' - mi sembra manchi quell'estraneità della contrapposizione ideologica che si apprezza nei suoi film migliori. È un lavoro, tra l'altro, non privo di affievolimenti nella tenuta narrativa (132 minuti), durante i quali l'ombra di Annapolis pare, a tratti, addirittura incombente. Meglio, insomma, il tema della guerra come dipendenza immortalato nell'occhio di Jeremy Renner, nei suoi silenzi, ben più nello sguardo di quel ragazzone tuttasalute che per l'occasione è diventato Bradley Cooper.