mercoledì 30 settembre 2015

Żuławski, Sokurov, Gaudino, Vigas, Liang

Non sono anni d'oro per il cinema francese e non lo solo neppure per quello italiano; ma bisogna fare attenzione a non lasciarsi sfuggire i film importanti.
Tra questi c'è Cosmos, opera del grande Andrzej Żuławski che ha vinto il Pardo per la miglior regia al Festival di Locarno 2015. Non godrà certo della distribuzione che ha meritato Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, ma come quello trae il soggetto da uno scrittore fra i grandi del Novecento: là Thomas Pynchon e qui Witold Gombrowicz. Sono, per diversi aspetti, due film da guardare e da leggere l'uno accanto all'altro. Fra le tante qualità, in Cosmos agiscono attori di comprovato talento, diretti con quella carnale comunicativa che Żuławski sa provocare come pochissimi altri. Ed è un lavoro nel quale, come in L'amour braque (1985), lo spettatore è nella rara condizione di sorprendersi ad ogni nuova sequenza. La freschezza del settantaquattrenne Żuławski, insomma, ha molto da insegnare ai giovani autori. 

Travalica la dimensione didattica, e di molto, il nuovo film di Aleksandr Sokurov (Francofonia) per rivelarsi qual è: un accorato appello a difendere le ragioni del bello dalle barbarie della guerra e del potere (tema, quest'ultimo, assai caro al regista). E la sollecitazione è così pressante da far anticipare i titoli di coda al principio, in modo tale che, dopo la visione, lo spettatore - lasciato alle proprie riflessioni - si alzi dal proprio posto congedato con un breve postludio strumentale che accompagna sullo schermo un melange di colori (evocazione sonora e visiva della guerra). Di notevole impatto è il dialogo a tre che si svolge tra la Marianne, Napoleone ed il sorriso enigmatico della Gioconda: «Liberté, Egalité, Fraternité!» - «C'est moi!» - [sorriso]. 



In aggiunta all'ottima prova della Golino, nel film di Gaudino (Per amor vostro) ho amato ritrovare, temperati da una sensibità autentica ed originale - forte di una buona tenuta narrativa - certi tratti barocchi e onirici del cinema di Corsicato. Un cinema che qui è fatto anche di luoghi capaci di provocare efficaci suggestioni figurative: la Grotta della Dragonara, le Catacombe di San Gaudioso. 
Nel film di Vigas, vincitore del Leone d'oro 2015 (Desde allá), ho apprezzato il rigore della narrazione, che deve certo alla lezione del miglior cinema europeo (sono sicuro che il regista argentino ha studiato Haneke): ha lavorato sui tempi (equilibratissimi), sulle fratture del discorso, su accostamenti (anche brutali) del materiale per 'parlare' oltre il racconto, oltre l'immagine (che è poi lo scopo del cinema di qualità). E ho apprezzato il finale, a differenza di quanto mi è capitato di fare dopo aver visto Une nouvelle amie di Ozon (l'ammiccante happy end sostituito all'orginale della Rendell).
Quanto a suggestioni, ne possiedono moltissime le miniere di carbone filmate in Beixi moshuo (Behemoth) di Zhao Liang. Il lavoro del regista cinese è certo debitore del cinema di Herzog; eppure, non mi ha convinto del tutto. Complice è stata certo la cornice narrativa portata avanti dal voice over, troppo (o troppo poco) timido. Meglio, forse, sarebbe stato impiegarlo solo al principio ed alla fine, piuttosto che utilizzarlo per prevedibili e poco incisivi interventi attorno alla Divina Commedia, allo specchio che ammicca al coinvolgimento degli spettatori e, più in generale, per rafforzare quello che già le immagini mostrano con evidenza. Contano infinitamente di più, insomma, l'immagine delle mani callose ed il sonoro di un respiro affannoso sul letto d'ospedale: dalle viscere della terra, dalla materia che con l'incantesimo del fuoco si fa sudore e poi catarro e morte, per fabbricare sogni deserti. 

lunedì 21 settembre 2015

"Metropolis" al Teatro degli Arcimboldi




Due brevi riflessioni sul concerto-proiezione di ieri sera, cui avevo già assistito alla Scala nel 2011.
L'Arcimboldi era gremito e le luci della sala si sono abbassate con venti minuti di ritardo per permettere a tutti di prendere posto. Il pubblico, che era di varia estrazione, ha accolto l'esecuzione con appalusi scroscianti: un vero successo. Tanti erano in teatro anche i giovani spettatori, e non quelli 'fantasma' cui qualcuno ama riferirsi quando si tratta di spettacoli d'opera in località non ben identificate. Mi domando perché, progettando i cartelloni delle stagioni lirico-sinfoniche, non si punti con determinazione ad inserire concerti-proiezione di capolavori del cinema muto, piuttosto che ostinarsi a riproporre la milionesima recita di Traviata e di Bohème in versione finto-pop per sedurre chissà quale nuovo pubblico. È quella un'affabulazione mal riuscita, a differenza di ciò che offre una serata come quella di ieri; anche a scopo 'didattico', per far conoscere al pubblico - grazie a partiture tutt'altro che disprezzabili - quale sia il potere 'illustrativo' della musica (tornano in mente le riflessioni intorno alla musica a programma). Per spettatori a digiuno di cultura dell'ascolto, è infinitamente più invitante una serata come quella di ieri, a contatto con una forma che conoscono bene (il cinema), piuttosto che un approccio fuggitivo con l'opera lirica (che andrebbe fatta, ma con congnizione di causa).
L'altra osservazione riguarda la partitura di Huppertz e un passo in particolare: la prima apparizione del robot, in tutta la sua metallica lucentezza. La disposizione degli strumentisti della Filarmonica della Scala, in parte collocati ai lati dello schermo, mi ha consentito di riconoscere anche visivamente come, in quel passo, siano impegnati celesta, glockenspiel e triangolo, che suonano sugli armonici dei violini. Sono gli stessi strumenti impiegati nel Rosenkavalier di Strauss (1911) nell'atto secondo (quattro prima di 25, Ziemlich langsam). Là per far brillare alle nostre orecchie lo splendore della rosa d'argento; qui per evidenziare altrettanta nitidezza di luci e forme. 

Pubblico in calce il programma di sala di ieri sera, di cui sono autore:
 
Attualità di un capolavoro
di Francesco Gala

Nell'eredità che l'arte del '900 ha consegnato alle presenti e future generazioni, un posto privilegiato spetta a Metropolis, fra i capolavori di Fritz Lang e dell'intera storia del cinema. È l'opera germogliata nel contesto politico e culturale di quell'irripetibile esperienza che fu la Repubblica di Weimar, in un'Europa ancora estranea alle tragedie dei totalitarismi novecenteschi che ci hanno consegnato, sostanzialmente, un bilancio univoco del secolo scorso: quello di un secolo di orrori, stretto tra tre guerre mondiali (fredda la terza) e liberatosi solo nel 1989, data alla quale corrisponderebbe addirittura la fine della Storia. Invece, dopo tante drammatiche esperienze, da non da rimpiangere affatto, sono ancora tutti là - o meglio qui e in Metropolis - gli interrogativi e le speranze di un mondo alla ricerca di un rinnovato rapporto tra economia e lavoro. E chissà se i prossimi decenni ci vedranno partecipi di un nuovo patto sociale o dello sgretolamento del capitalismo o di molto altro ancora. Certo, il film di Lang si dimostra nuovamente capace d'interpretare il presente, di lasciar intravedere il futuro e soprattutto d'interrogarlo: valga il finale, che testimonia, per alcuni, la conciliazione degli aspetti principali della socialdemocrazia (capitale e lavoro); secondo altri, si tratta di una conciliazione che prefigura però modi tutt'altro che democratici: quelli che la Storia del '900 ci ha dolorosamente insegnato. Lang, che intrattenne una lunga esperienza di collaborazione con la moglie Thea von Harbou, sceneggiatrice ed autrice del soggetto - già pubblicato in un romanzo del 1926 - aveva però previsto un finale differente e non poco nichilista: i due innamorati sarebbero partiti su un razzo lasciando la città in preda al caos. E, segno di un niente affatto pacificato rapporto col materiale narrativo, la nuova versione del romanzo pubblicata a puntate nel 1926 eliminò il robot - ed è un fatto sorprendente - costruendo il dualismo bene/male attorno a Maria e ad una sua sorella: Annelie. Poi il destino dei creatori di Metropolis prese vie diverse: la von Harbou entrò a far parte del Partito Nazional Socialista Tedesco del Lavoratori, un fatto che non poco contribuì alla sua separazione da Lang, nel 1933: l'anno di un altro grande film (Il testamento del dottor Mabuse). Il regista lasciò la Germania per trasferirsi a Parigi e da lì negli Stati Uniti, mentre lei fu arrestata dagli inglesi alla fine della guerra. Morirà nel 1954.
Anche da un punto di vista strettamente cinematografico, Metropolis è punto d'arrivo e di partenza. Si tratta, infatti, del titolo più eclettico ed innovativo della produzione tedesca degli anni di Weimar: per i materiali, i riferimenti e, più in generale, perché è l'opera che anche sul piano iconografico e drammaturgico si pone come una sorta di ricapitolazione di tutte le esperienze fin là compiute; quasi un limite estremo del campo in questione. E, al tempo stesso, questo film ha aperto la strada al futuro del cinema.
E a noi, che abbiamo oggi il privilegio di assistere all'esecuzione dal vivo della colonna sonora, su quale tra le tante chiavi di lettura del film ci dobbiamo concentrare? Va subito ricordato che dal 2008, anno del fortunato ritrovamento delle molte sequenze sino ad allora ritenute perdute (Buenos Aires, presso il Museo del Cine), possiamo - a seguito di un'accurata reintegrazione della pellicola - guardare Metropolis nella versione più completa a nostra disposizione (148'); e proprio per merito di Frank Strobel possiamo ora godere nel modo più autentico anche della componente sonora della pellicola: è lui che ha curato adattamento, sincronizzazione e orchestrazione delle musiche di Gottfried Huppertz (1887-1937) per molti anni scorciate, adattate alle differenti e mutili versioni del film.
Tanto più che proprio la musica di Huppertz ci agevola nel penetrare quest'opera essendo tale essa stessa: Metropolis, opus 29 (1927). Il compositore, che diresse l'orchestra alla prima proiezione (10 gennaio 1927), aveva già lavorato con Lang per la serie formata dai due film epico-fantastici Die Nibelungen; anche in questo caso la colonna sonora è parte integrante della drammaturgia del film. L'organico è quello di un'orchestra sinfonia tardo-romantica con due 'intrusioni': l'organo e i sax contralto, in accordo con altrettante situazioni richieste dalla pellicola. E la narrazione filmica è sostenuta da motivi conduttori che aiutano a chiarirla, a penetrare nei personaggi, nei loro stati d'animo, a distinguere ed accostare diverse situazioni che scorrono sullo schermo; non possiamo mai dimenticare che il cinema è debitore del genio visionario di Richard Wagner. Tra i molti motivi musicali facili da identificare, insieme a quello festante della prime immagini della città Metropolis (lo stesso impiegato per accompagnare le sequenze della torre di Babele), c'è il tema del Mediatore che, grazie alla sua frase cantabile, è lirico ed accorato; oppure quello percussivo e dissonante che si ascolta nei molti fotogrammi riservati alla fabbrica sotterranea che improvvisamente - in sincrono con l'immagine - emette il suono apro di una sirena. Non mancano le citazioni, quali la Marseillaise: brano celeberrimo che anche qui - come in La nuova Babilonia di Kozincev e Trauberg (musiche di Šostakovič, 1929) - è sottoposto ad un trattamento deformate, in conformità con la situazione drammatica. Ed è musicale anche la scansione temporale del film, diviso in tre parti: I. Auftakt (Preludio); II. Zwischenspiel (Intermezzo); Furioso.
Soprattutto siamo chiamati dall'orchestra a giocare un ruolo attivo guardando Metropolis. Fate attenzione al Moloch, il mostro-macchina che si ciba di operai: là, dopo un'insostenibile progressione (che meraviglia quella al termine della Corazzata Potëmkin!) la musica tocca l'apice della tensione drammatica. Quei tremendi accordi li riascoltiamo prima nel racconto di Freder al padre, come reminiscenza di quanto accaduto nel sottosuolo, e poi per identificare lo spietato Rotwang, scienziato ed inventore del robot che dovrà spingere gli operai a distruggere le macchine; e con esse la città. Scienza e capitale: anche questi aspetti ci dimostrano quali e quanto siano inquietanti, irrisolti gli interrogativi proposti nel film di Lang.





Les trois cloches

La memoria involontaria fa sì che io associ a questa canzone - e non da oggi - il finale di "Vertigo".
A spiegare l'affinità non bastano le campane (una, nel caso del capolavoro di Hitchcock): che abbia scoperto entrambi, film e canzone, nello stesso periodo? Le sequenze finali di "Vertigo", visto da ragazzino, mi turbarono per diverse settimane. Testo e musica del celebre brano, scritto da Jean Villard e rimaneggiato da Marc Herrand, sono insieme teneri, festosi e funebri: la vita di Jean-François Nicot in tre brevi strofe. Qui la Piaf è allo zenit (siamo nel 1956) e Fred Mella - che è il solista dei Compagnons de la Chanson e canta da tenore - se paragonato a certi topolini con la voce nel naso ora in circolazione - è Georges Thill in persona.
L'esecuzione è semplicemente immacolata e le parole d'avvertimento rivolte al pubblico dalla Piaf prima di cominciare sono segno di modestia e di rispetto che commuovono. 


 

venerdì 18 settembre 2015

Il mondo anelante dei profani e L'elisir dei nonluoghi

«Il mondo anelante dei profani». Un vecchio cinegiornale che annuncia la morte di Arturo Toscanini qualifica con questa espressione - certo, per le orecchie di alcuni non priva di retorica - gli ascoltatori di musica rattristati per la scomparsa del Maestrissimo: siano essi profani, appunto, o «iniziati». 
La metafora del tempio musicale (sono ben più di uno) è arcinota. Cosa distingue il tempio musicale, ed i riti che vi si consumano, rispetto alla piazza? Diversi fattori ed anzitutto il raccoglimento, la concentrazione imposta all'uditorio: quella che, anche in Italia, almeno dagli anni '30 dell'800, è il presupposto domandato a chi fruisce di uno spettacolo d'opera lirica, riconosciuto - o almeno così si è creduto per lungo tempo, nulla è definitivo - fra le massime espressioni dell'umanesimo occidentale e, in quanto forma d'arte, portatore di verità: di verità attraverso la bellezza, quella la cui essenza è possibile cogliere grazie a un po' di dilettevole sforzo.
Il capovolgimento intorno al quale il presente ci invita a riflettere (L'elisir d'amore proposto all'aereoporto di Malpensa) si colloca in un orizzonte che merita di essere indagato ben al di là dell'opinione spiccia e della nota di costume: è un fatto (musicale senz'altro) che invita a riconoscere quanto il mezzo (un invito all'opera) si proponga di emulare molto da vicino il fine stesso (la visione in teatro, anche se lo spettacolo è proposto in diretta televisiva).
In parole povere, l'idea è questa: se la gente va meno a teatro - come dimostrato dal risultato deludente delle serate alla Scala negli ultimi mesi - il teatro vada dalla gente per convincerla a recarsi nel luogo in cui la musica si manifesta compiutamente: il palcoscenico dell'opera.
Ben oltre la sobria brochure distribuita per comunicare il contenuto del cartellone, è il mezzo stesso a farsi spettacolo, insomma; a farsi 'evento' cui si assiste anche in televisione, gratis o quasi. 
La questione economica è tutt'altro che secondaria, soprattutto quando si ricorda che l'oggetto del contendere è una forma d'arte nata nel '600 per la nobiltà ma ben presto fatta propria dalla borghesia e messa così sul mercato; una forma di spettacolo che ha accompagnato l'evoluzione di questa classe sociale nel lungo corso della sua storia, attraverso rivoluzioni e mutamenti anche profondissimi. Sino ad oggi, quando di fronte a noi, almeno in Occidente, troviamo una società che non è diffcile qualificare come compiutamente post-borghese.
Se l'operazione scaligera riuscirà (il termine è mutato dal vocabolario scientifico e chirurgico dal momento che, in questi frangenti, la qualità artistica è fattore assolutamente trascurabile), L'elisir d'amore a Malpensa attrarrà nuovo pubblico a teatro. Il pubblico, nuovo o vecchio che sia, dovrebbe dunque essere allettato attraverso la visione di un prodotto (questa volta il lessico è commerciale) scelto come più prossimo possibile ad un'estetica pop. Si investe così su di un fatto artistico, sdrammatizzato e gioiosamente dissacrante, tuffato in un nonluogo che, per dirla con Marc Augé, è altamente rappresentativo della nostra epoca, caratterizzata da assoluta precarietà: epoca del passaggio, del transito, dell'individualismo solitario di chi si muove fra architetture destinate all'utente medio, senza distinzioni. 
Dal «mondo anelante dei profani» che aspirano ad accedere al ruolo di «iniziati» del tempio musicale si è passati a rivolgersi, con determinazione, ad un pubblico estemporaneo, di passanti che transitano in un nonluogo, appunto; ai quali si domanda, se non l'attenzione televisiva, almeno quella dell'itinerante. È una considerazione sincera che non deve essere necessariamente salutata con la celebre locuzione ciceroniana (O tempora, o mores!). Si tratta, infatti, di un riconoscimento che possiede una valenza storica; è un dato da accettare, non certo passivamente, ma da individuare come tale. 
E qui rientra in gioco, mai dimenticata, la questione economica: lecito domandarsi se operazioni musicali di questa natura (come anche, per certi versi, l'opera live al cinema) saranno in grado di persuadere l'utente medio (o, meglio, un numero sufficiente di utenti medi) non già che il luogo nel quale il fatto musicale si manifesta compiutamente sia il teatro, ma che tale epifania valga il prezzo del biglietto. Il quale resta complessivamente caro e che, anche al fine di garantire un congruo numero di recite, è difficile rendere più conveniente data la diminuzione sostanziale del contributo elargito dallo Stato.
Qualunque osservazione in merito non deve prescindere dal fatto che il mezzo influisce sempre sulla sostanza, quando addirittura non la determini. E a quei mezzi generosissimi offerti oggi (gratuitamente) dall'audio-visivo mi affido per concludere questo scritto.