sabato 30 maggio 2015
Louisiana (The Other Side)
Dei tre italiani a Cannes ho amato solo il quarto: Roberto Minervini, al cinema in questi giorni con Louisiana (The Other Side). Di Moretti ho già scritto altrove e, se è giusto riconoscere a Garrone (Il racconto dei racconti) il merito della scelta letteraria, del gusto figurativo, della volontà di realizzare un progetto molto ambizioso (di cui è anche coproduttore) - innestandolo sul pericoloso filone fantasy - non si possono tacere alcuni problemi di drammaturgia e l'eccessiva continguità con quello stesso genere cinematografico che, dopo aver imboccato, sarebbe stato proficuo tradire, almeno, immaginando un'altra colonna sonora. Magari una dal colore autoctono, e quindi campano; un modo per far trapassare nelle immagini l'espressività spinta a oltranza propria della lingua di Basile. Invece, con quel rassicurante temino da Harry Potter che si affaccia in continuazione, Desplat e Garrone paiono voler tranquillizzare un pubblico che, non so quanto, riusciranno a conquistare con gli altri mezzi.
Dopo la bulimica Grande bellezza, Youth mi è parso un film più nella dimensione consona al suo sceneggiatore e regista. Un giorno, però, in altra sede, bisognerà interrogarsi in modo approfondito intorno a quale sia - quando i piedi poggiano sulle spalle di autori e forme classiche - il discrimine tra venerazione e parassitismo. Qui si va da Thomas Mann alla musica d'arte, fino alle suggestioni bergmaniane (a cominciare da quella 'frantumazione della durata' attraverso la quale il regista svedese approfondiva la riflessione dei protagonisti intorno al presente); ma mi pare che Sorrentino faccia proprio, e senta meglio, soprattutto il mito di Maradona. Ho ripensato al Posto delle fragole e - dopo aver provato una vertigine, avendomi Youth lasciato freddo per via delle mezze verità espresse nei dialoghi e della magniloquenza attorno alla quale, solo per brevi tratti, s'accordano immagini e pensiero - ho capito che difficilmente riguarderò il film di Sorrentino.
Terminata la visione di Louisiana (The Other Side), invece, mi sono tornate in mente le parole di Kubrick su Kieślowski: quella sua rarissima «capacità di drammatizzare le idee piuttosto che solamente raccontarle». Eppure il cinema di Minervini, profondamente diverso da quello del maestro polacco, continua a rivendicare la propria, orgogliosa, radice documentaristica per guadagnare uno spazio che sta altrove; e guarda al Flaherty di Man of Aran e a tante opere del nostro grandissimo De Seta.
A differenza di quello allestito dai colleghi italiani, il cinema di Minervini non è da esportazione; si è già esportato da sé, come ha fatto l'autore, che vive in Texas.
Sul tavolo del montatore, il regista ha a disposizione immagini 'alla Malick' che respirano col ritmo placido di una canoa tra una palude di alberi; sono dosate con estrema accortezza, indugiando invece, altrove, su quelle disturbanti solo perché funzionali al racconto. Sono forse due storie diverse quelle che Minervini ci racconta? L'angelo caduto Mark e le milizie antigovernative che preparano una fantomatica resistenza, certo. Ma l'incipit salda la seconda parte del film (gli ultimi venticinque minuti circa) con la prima, che inizia dove resta sospesa la caccia alla preda nel folto della foresta: e non si può fare a meno di pensare che la preda da impallinare sia proprio Mark, nudo come un animale mentre percorre la strada all'alba; l'irregolare che ogni fanatico degli inquadramenti gerarchici avrebbe in odio. Eppure, come i paramilitari, anche lui odia il presidente Obama e soffre di un'esistenza che sente a tempo limitatissimo, quasi fosse quella della protagonista di The Passage (2011), primo struggente episodio della trilogia texana di Minervini.
Ancora una volta si capisce quanto sia strettissimo, viscerale, il rapporto del regista con uomini e comunità, come ha avuto modo di spiegare via Skype prima di una proiezione di Stop The Pounding Heart alla quale ho avuto la fortuna di assistere. Il suo cinema è qui, nuovamente, capace di trascendere la dimensione della realtà, del puro rispecchiamento, per accedere a quella che appartiene al reale, laddove il vero si fa verità; tra materia e spirito, purezza e corruzione. La sua luce, quella bruciante della Louisiana, penetra per breve istante nel prefabbricato in cui Lisa e Mark hanno appena fatto l'amore e litigato; scalda i loro visi che si nascondono nel buio. E basta questo semplice gesto a conferire densità alla materia, a rendere magico un istante. Proprio dove è aliena ogni estetica del bello, del consumato, del facile. E il congedo dall'angelo caduto sta in un ultimo fotogramma che immortala le sue mani nodose; quelle che lo hanno vestito con l'abito buono per il funerale della madre. È un personaggio speculare a Sara, che nell'ultimo episodio texano il regista pedinava attraverso l'America rurale e dell'ortodossia amish.
Eppure Minervini riesce a non essere mai intrusivo; e questo è davvero un fatto sorprendente, quanto la leggerezza umanissima, partecipe ed autentica della sua macchina da presa che rispetta profondamente gli artefici delle proprie storie. Quelli che si lasciano indovinare in momenti decisivi, attraverso sguardi, silenzi d'intimità sincera perché perlopiù sottaciuta. È un cinema emozionale, al quale si assiste ricevendo ad ogni nuova sequenza oggetti e prospettive diverse; ricche, promuovendo così un'adesione assoluta tra spettatore e personaggio. Ed è un viaggio (nel senso più nobile della parola) nell'altra America: quella dei perdenti, degli sconfitti dal capitale. Delle paure che si autoalimentano e che - consegnato il proprio messaggio ad un aliante - domandano al cielo: Legalize Freedom. Bastano, insomma, gli ultimi venticinque minuti di Louisiana (The Other Side) a far dimenticare in un soffio quel capolavoro di retorica patriottarda mascherata da postilla bellico-scettica che è l'ultimo Eastwood.
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